venerdì 22 agosto 2014

GLI AMORI DI LUCIA - Racconto breve - 23/agosto/2014






Mario Scamardo

I RACCONTI DEL BORGO

Gli amori di Lucia


  Gracile, con i piccoli gomiti poggiati sullo stipite della finestra e lo sguardo fisso all’orizzonte, un po’ più su del  monte che sovrasta il paese, ad aspettare che sulla cima spuntasse la luna, immensa, chiara come i suoi capelli fini e sottili, legati alla nuca da un fiocco bianco e, quando l’astro sembrava toccare la cima, lei abbozzava un sorriso, quel monte che sembrava un pupazzo, finalmente aveva la testa.  I suoi occhi grandi si riempivano di quella luce, lei agitava la sua manina e salutava soddisfatta, poi richiudeva la finestra, scendeva dallo sgabello e saltava sulle ginocchia di suo padre per guadagnarsi una carezza e un bacio. La nonna le aveva raccontato che la luna era figlia di una fornaia che scopando il forno prima di mettervi dentro le forme di pane a cuocere, inavvedutamente le aveva sfiorato il viso e le aveva procurato delle macchie sul volto e, non avendo acqua per pulirle la faccia, le macchie si erano fissate e non erano andate più via. Lucia ascoltava le storie che le venivano raccontate e le fissava alla sua mente. 



Il suo primo giorno di scuola la vide in un grembiulino nero, colletto bianco ed un fiocco rosa, allora pretese che anche il fiocco che le legava i capelli fosse di color rosa. Fu una bambina diligente ed attenta, imparò e prima che si completasse l’anno scolastico, sapeva leggere, scrivere, sommare e sottrarre. Non era di tante parole Lucia, ma era attentissima a quanto si svolgeva attorno a lei. I suoi capelli fini e biondi le arrivano al bacino e quando finì le elementari chiese di averli tagliati. Sotto il caschetto biondo due occhi grandi e dolcissimi suscitavano tenerezza. Già alla seconda classe della scuola media cominciò a pigliare forma il suo corpo e quando compì tredici anni, scoprì da sola di essere diventata adulta. Il tempo matura ogni cosa, e quel fuscello biondo diventò una bellissima donna aggraziata, capace di intrattenersi in conversazioni, sempre nel pieno rispetto di una tolleranza che nessuno le aveva spiegato. Amica con tutti, docile, generosa, sincera, si guadagnò la stima di quanti la conoscevano. Aveva sedici anni quando qualcosa la turbò, percepì che dentro di se qualcosa stava cambiando, Emilio, un ventenne che lei aveva guardato come uno dei tanti amici, era diventato il padrone dei suoi sogni, il padrone dei suoi pensieri, proprio lui che molto delicatamente la salutava ossequiosamente, la fissava di continuo, si preoccupava di qualche suo piccolo contrattempo e sorrideva compiaciuto quando lei parlava. Che le stava succedendo? Razionalmente capì che l’amore aveva bussato alla sua porta. I due giovani vissero momenti bellissimi, progettarono il loro futuro, sognarono, si, sognarono i mondi delle favole che la nonna aveva raccontato a Lucia.

 La ragazza completò gli studi di media superiore, poi trovò un lavoro da segretaria presso uno studio professionale. Emilio era un ottimo artigiano e lavorava presso una piccola azienda in un paesino a dieci chilometri di distanza. I genitori di ambedue approntarono una casetta, l’ammobiliarono secondo i gusti semplici ma raffinati di Lucia ed un mattino quella donna, dai tratti di una venere, indossò il suo abito bianco e convolò a nozze. Lucia, curiosa, si immerse a capo fitto nella lettura, bastava un solo ritaglio di tempo libero per ripigliare il libro che teneva sempre sul mobile del suo soggiorno, lesse Kafka, Tolstoj, Orwel, Staimbeck, Pirandello, Verga, poi tentò di capire alcune filosofie orientali, intanto il suo ventre cresceva e venti mesi dopo le sue nozze nacque Dario. Una sera, preparò per cena e pose accanto al tavolo la cesta col bambino che rosicchiava la sua tettarella poi, con i suoi grandi occhi belli, incrociò compiaciuta lo sguardo del marito, che era sempre di poche parole:

-         Emilio, ora siamo una famiglia! Tu, Dario ed io!

Il marito sorrise, si alzò e la baciò sulla fronte:

-         Si Lucia, questa è la nostra famiglia.

Emilio sedette, cenò, aiutò a sparecchiare e quando Lucia accese il televisore, lui infilò la mano della tasca dei pantaloni e tirò fuori un mazzo di chiavi, le porse alla moglie:




-         Tieni, sono le chiavi della macchina che ti ho comprato stamattina, non è nuova, ma è come se lo fosse, una Cinquecento Fiat, è qui davanti la porta.

Lucia ebbe un attimo di smarrimento, poi sorrise, lo abbracciò e corse fuori a vedere la sua macchinetta.



Quando Dario compì tre anni, Lucia comunicò al marito che fra otto mesi una nuova vita si sarebbe affacciata nella loro casa. Il tempo fu puntuale e nacque Carla, bruna come il fratellino, paffuta come mai la madre lo fu da piccola. Ancora una volta Lucia ricordò al marito che la loro era una famiglia, non più di tre ma di quattro componenti.

Quello della famiglia per Lucia era un chiodo fisso, la sua d’origine era granitica, ma anche quella di suo marito, lei non vedeva altro che questa aggregazione come valore unico e indispensabile, dove ogni componente doveva avere un ruolo.

Le maternità centuplicarono la bellezza ed il fascino di Lucia, ed i suoi figlioli crebbero in un ambiente di serenità, di cure, di attenzioni e di grandi sentimenti. Il lavoro per lui non fu sempre costante, periodi di magra si alternarono a periodi floridi, lei continuava a lavorare ed era diventata il pilastro certo su cui potere contare. Il tempo passò senza mai scalfire né il sorriso della donna né il suo fascino.

Dario compì diciotto anni, e Carla quindici, grandi, del tutto autonomi, ma quando parlava di loro Lucia diceva “i me picciriddi”, i miei bambini. Per lei non erano mai cresciuti, non era invadente, ma li controllava ed era gelosa di ambedue.

Il legame morboso alla casa, ai figli, nel tempo, aveva fatto si che le attenzioni per il marito erano passate in secondo piano, come se fosse scontato che la passione continuasse a bruciare senza essere alimentata. La donna sottovalutò questo aspetto, non si rese conto che tutti i componenti della famiglia meritavano la medesima attenzione. Il dialogo col marito cominciò ad essere blando, fatto di monosillabi, freddo a tal punto che anche la stessa routine del cucinare diventò solo un impegno per i figli. Troppo tardi per raddrizzare il rapporto? Lei pensò di no e organizzò ricevimenti a casa sua di amiche, qualche piccola escursione di fine settimana, nella speranza di coinvolgere il marito che tendeva a diventare apatico. Il rapporto coniugale, quando emicranie e malesseri si ripetevano spesso, finì per diventare qualcosa di meccanico, fino allo spegnersi definitivamente. Emilio subì ma non affrontò il problema, Lucia lo sottovalutò e un giorno si trovò davanti a qualcuno che cominciò a corteggiarla e si innamorò di lei perdutamente, anche lei fu attratta, forse lo amò, ma non si abbandonò mai tra le braccia del suo spasimante. L’uomo la amò al punto, che pur di starle vicino, si accontentò di vederla e di poterla accarezzare con gli occhi. Per Lucia quell’uomo avrebbe fatto tutto, avrebbe sfidato l’impossibile, ma da quel gran signore che era, se ne stette lì a tenerle compagnia, a rincuorarla, a consigliarla, senza che mai fu tentato di sfiorarla con un dito. Capì mai Lucia la devozione di quell’uomo? Capì quanto era sconfinato l’amore per lei? Forse si, ma non lo sapremo mai, di certo lei gli voleva un gran bene e lo stimava. Emilio ritornava dal lavoro, faceva una doccia, sedeva a tavola con moglie e figli, pochissime parole, poi davanti alla tv ad aspirare una sigaretta dopo l’altra e il sonno lo coglieva, magari aspettando che la moglie lo invitasse ad andare a letto. Pian piano il divano davanti il televisore diventò il letto dell’uno o dell’altra e in quella casa si respirò aria di orfanotrofio, fredda, dove l’uno non avvertiva l’altra quando andava a dormire o viceversa. Gli incontri con quel galantuomo che l’amava, ma che la rispettava fino a soffrirne, avevano risvegliato in lei antiche voglie e, fu tentata più volte di appagarle, forse faranno parte del suo bagaglio di rimpianti, e tutte le volte si castigò rinunziandoci. L’uomo tutte le volte capì, ma continuò a godersi lo spettacolo dei suoi occhi in silenzio e, tutte le volte, mentendo a se stesso, fece capire che la sua presenza nella vita di Lucia non andava oltre una sincera amicizia.    Il suo compagno di vita era stato messo da lei in un angolo e, ferito nell’orgoglio,  viveva in castità come un asceta. Conscia della sua bellezza ed avvenenza, si sentì offesa dalle mancate avances del marito, senza riflettere sul fatto che quando Emilio la cercava lei era assente. Dubitò Lucia che Emilio fosse appagato dalle grazie di un’altra donna, magari un’amante nel paese dove lavorava, ma non indagò mai, si chiuse in un assoluto mutismo e temendo la disgregazione di quella famiglia che lei aveva voluto, costruito ed amato, attese gli eventi. Quanto questo stato di stallo poteva durare? I figli coglievano il disagio a casa, soffrivano senza mai dire una parola. Anche le visite di amici, le piccole sortite di fine settimana scemarono; quel galantuomo innamorato non la lasciò mai sola, la incontrava con una scusa e la sosteneva, fino a quando lei, un giorno gli confidò quello stato di disagio che l’uomo aveva colto sin dal suo nascere. L’ancora che le impediva il naufragio, un vero amico, non la spalla su cui piangere!

Un pomeriggio al bar davanti ad un supermercato Lucia si intrattenne con l’amico davanti ad un caffè, raccontò il diverbio al limite della rissa col marito e, trattenendo a stento le lacrime implorò aiuto. Emilio aveva minacciato di voler andar via da casa; il grande pilastro si andava sgretolando e, quando il marito l’accusava di essere assente, lei non aveva giustificazioni. L’uomo pazientemente la fece sfogare, poi con calma socratica le disse:

-         Dammi un po’ di tempo per riflettere, domani ti vengo a trovare sul lavoro, nell’intervallo parleremo sul da farsi, tu prova a fare una cosa, prova a riflettere sul bene che vuoi ai tuoi figli, sul valore di quella famiglia che a forza hai voluto e difeso, sui tuoi sentimenti nei confronti di Emilio, interrogati su cosa vuoi fare da grande! Evita qualunque discussione, accantona l’ira se ti ha pervaso,  domani serenamente affronteremo il problema, poi farai delle scelte che saranno ponderate, tu sei una gran donna, non ti manca la razionalità, non permettere al caso che la tua imbarcazione vada alla deriva, prova a riprendere il timone e a puntare su un porto sicuro.

L’uomo prese i sacchetti della spesa, accompagnò Lucia alla macchina, glieli caricò, le chiuse lo sportello e la salutò con un sorriso. Ritornato al bar risedette allo stesso tavolinetto, ordinò ancora un caffè e se ne stette lì, pensoso, con lo sguardo ad una vetrata che lasciava intravedere all’orizzonte il mare. Il sole si era immerso da pochi istanti e le nubi rossastre tendevano al grigio scuro, il cameriere ritirò il vassoio dal tavolo e  porse lo scontrino. L’uomo aveva notato dei vistosi graffi al polso destro della donna, anche una piccola tumefazione, non le chiese neppure la causa, la risposta sarebbe stata bugiarda, gli avrebbe detto che se li era procurati da sola per un attacco improvviso di prurito o qualcos’altro, questo lo rese ancor di più pensieroso.

Il mattino seguente squillò il telefono di Lucia che era in ufficio, all’altro capo, l’unico vero amico che le era rimasto:

-         Come stai?

-         Bene, grazie, e tu?

-         Bene anch’io! Ti va di parlare?

-         Si, ne ho una gran voglia, chiedo un’ora di permesso, aspettami giù, mi va di fare una passeggiata, solo cinque minuti.

Sempre raggiante, con i suoi occhi luminosi, Lucia varcò la soglia del portone e diede un bacio sulla guancia al suo amico:

-         Andiamo, arriviamo in fondo al viale, poi piglieremo un caffè e mi riaccompagnerai fin sotto il portone.

-         Hai riflettuto?

-         Si, tantissimo, sulle prime ero quasi convinta di dare un calcio a tutto, di dare un taglio e dedicarmi anima e corpo ai ragazzi, ma sono stati loro che, tempestandomi di domande, mi hanno messo in crisi. Mi hanno parlato della disperazione del loro papà, da uomo di poche parole si era trasformato in un muto che vaga per casa come un automa, alle sue crisi di pianto in mia assenza, alla disperazione di un lavoro precario e mal retribuito, alla rinuncia anche a cercar conforto presso la sua famiglia di origine. La domanda ricorrente di mia figlia è stata quella di sapere se amavo ancora suo padre e, quando per più volte non diedi risposta ambedue all’unisono mi chiesero se amavo un altro uomo. Non risposi neppure a questa domanda e Carla ebbe il dubbio che io avessi un’amante. Fu allora che mi sentii sola e fragile, quel dubbio avrebbe allontanato forse i miei figli. Stamattina, dopo che mio marito ha varcato la soglia per andarsene al lavoro, erano le cinque e quaranta minuti, preparai caffè e colazione e svegliai i ragazzi, li invitai in cucina, li feci sedere e diradai ogni loro dubbio. La passione è lunga o breve, ma è destinata a soccombere per far ampiamente posto all’amore, quello è la malta legante in una coppia, svanito anche quello si può confidare nell’affetto e nel rispettò, ma non c’è più legame, non c’è più la famiglia! Amo mio marito? Lo amo si! Cosa ho fatto per allontanarlo da me? Non lo so, ma certamente non sono stata presente, almeno fisicamente nella sua vita, e ciò sin dalla nascita del primo figlio sul quale ho scaricato ogni mia attenzione, e poi sulla bambina, dimenticandomi di lui, senza più fargli una moina, senza più chiedergli come era andata la sua giornata o quale camicia desiderasse che gli facessi trovare pronta per essere indossata, così come facevo prima. Senza dolo, ma ho sbagliato, lasciando che il ghiaccio, come una parete divisoria, si ponesse tra me e lui. Ammisi i miei errori, in maniera cosciente, ma confessai che non sapevo come e da dove ricominciare a costruire un processo di ritorno al passato. E lui? Ancora un problema da affrontare, forse il problema!

Si zittì Lucia, a capo chino percorse, in compagnia dell’amico che non proferì parola, l’ultimo tratto del viale, poi ambedue sedettero ad un tavolinetto di un bar ed ordinarono due caffè. Lucia chiedeva, in modo non esplicito, aiuto. Testarda, orgogliosa, fiera di se, aveva concluso il suo narrare, certa che l’amore infinito che l’amico nutriva per lei, prima o poi, avrebbe costretto l’uomo ad aiutarla. Mancava un tassello al racconto di Lucia, il motivo di una collera malcelata. L’amico consumò assieme a lei il caffè, non aveva smesso un istante di fissarla, prima di alzarsi dal tavolino:

-         Lucia, c’è qualcosa che non mi hai detto, sei stata brava ad ammettere i tuoi errori, io posso solo immaginare e ti risparmierò di dirlo, proverò a dirtelo io, mi basterà guardarti negli occhi per capire. Qualcuno, incautamente, ti ha raccontato di qualche conoscenza femminile di tuo marito, tu continui a sostenere che non te ne importa proprio nulla, ma tutti e due sappiamo che non è così. Nessun fatto accertato, solo un sospetto! Mia cara, il sospetto non è mai l’anticamera della verità, è soltanto una tragedia che fa male al sospettato ed al sospettante, ma in te ha generato la collera, una brutta bestia che non ti aiuta a riprendere il timone della tua nave. La collera è una passione velocissima puntata contro chi ci ha arrecato un torto o si presume che l’abbia fatto, essa amareggia l’anima, ci impedisce di riflettere, soggioga la nostra mente ponendoci davanti il volto di chi ci ha rattristato. Non devi consentire alla collera di persistere in te, perché potrebbe soffocarti, facendoti perdere il fiato. Pur non avendone certezza, ti senti aggredita, rischi di veder trasformata la tua ira in un sentimento permanente e nella memoria di un offesa mai perdonata, con conseguenze nefaste per ogni relazione. Per quanto riguarda la lotta contro questa passione, ricorda che cedere costantemente alla collera è il segno di una vita scarsamente umana, non sufficientemente ritmata dal riposo e dal silenzio. Solo chi vive nel silenzio a lungo sarà anche capace di spegnere la collera che ha dentro. Dobbiamo avere quella capacità di pazienza di sentire in grande, il che significa, convivere con l’imperfezione e l’inadeguatezza presenti nell’uomo e nella realtà; pazienza che significa anche sopportare, cioè, supportare e sostenere gli altri nelle loro debolezze che prima o poi sono anche le nostre.

Non disse altro quell’uomo, fissò gli occhi splendidi di Lucia e sperò che quelle parole raggiungessero il cuore della donna. Poi passeggiarono in silenzio e sotto il portone dell’ufficio fumarono una sigaretta lasciando che le spire di fumo si incontrassero nell’aria.

Per due settimane l’uomo sparì, non chiamò al telefono, non passò davanti al portone dell’ufficio in cui la donna lavorava. Lucia fece una lunga riflessione, ma le mancavano le riflessioni di quell’unico amico che si ritrovava. All’imbrunire, proprio come quando era bambina, si affacciava alla finestra che guardava la montagna, con i suoi capelli biondi mossi dalla brezza della sera e con quegli occhi grandi e luminosi ammirava il sorgere della luna. Prese il telefono e chiamò l’amico, alla risposta:

-          Ho bisogno di parlarti, ti chiederò domani dove sei stato e perché non mi hai chiamato. Domani non lavoro, ma ci incontreremo alle dieci davanti il portone dell’ufficio, solo il tempo di consegnare un plico.

Il mattino seguente, elegante come sempre, con un abito turchese e i capelli sparsi sulle spalle, scese dalla sua macchinina color aragosta e si diresse verso l’amico che l’aspettava, lo baciò come era solita fare sulla guancia e gli chiese di attenderlo per infilare il suo plico nella cassetta della posta, poi, passo passo, percorsero il lungo viale alberato:

-          Amico mio, devo comunicarti le mie scelte, tu mi hai fatto riflettere su molte cose, il silenzio in cui mi sono immersa mi ha aiutato tantissimo a decidere. L’amore per i figli, l’amore per la famiglia, mi hanno indotto a ricominciare, anche il rapporto con Emilio non è più turbinoso, non è idilliaco ma tende a migliorare. I ragazzi sono più sereni, la mia collera è svanita e il mio sospettare non era per nulla l’anticamera della verità. Senza di te, sarei ora una donna sola a vagare in un pelago di problemi, tu sei stato come un computer, un acceleratore di processi, che senza le tue riflessioni, senza i tuoi consigli, avrebbero impiegato troppo tempo a compiersi, o, forse, si sarebbero arenati. Io debbo salvare la mia famiglia!



-          Lucia, son felice delle tue decisioni, guardo i tuoi occhi e leggo gioia e soddisfazione. Ora sediamoci al bar, pigliamo un caffè, ho da darti il mio ultimo suggerimento, mentre ti riaccompagnerò alla tua macchina ne parleremo, tu sarai libera di ponderarlo, accettarlo o buttarlo alle ortiche, io mi sento obbligato a dartelo.

Ordinarono due cornetti e due caffè, li consumarono parlando dei nuovi libri che Lucia aveva acquistato, parlarono del mare e dei tramonti, poi si alzarono e cominciarono a ripercorrere a ritroso il viale.

-          Cara amica mia, ascolta il mio ultimo suggerimento, tu sei una donna intelligente, ricordati che per riconquistare il compagno della vita, non puoi essere solo moglie, devi essere amante, passionale, se occorre anche qualcosa al di là dell’amante. Non devo dirti più nulla, la tua felicità, la tua serenità, rendono felici gli amici che ti stanno attorno, io sono solo uno di loro, non so se il più caro o il più lontano. Ti occorre ancora silenzio, con gran dolore uscirò dalla tua vita, ma lo faccio con amore, mi mancherà il tuo sorriso, la luce che sprigionano i tuoi occhi, il tuo fascino antico, le tue incertezze e i tuoi dubbi, ma sarò felice di saperti felice.

Lucia capì che non lo avrebbe più rivisto, non disse una parola, solo una lacrima solcò il suo viso, aveva capito l’entità dell’amore che quell’uomo provava per lei. Si mise in macchina, asciugò gli occhi, e prima di andar via abbassò il finestrino:

-          Grazie Luca, sarai sempre nel mio cuore.

Mise in moto e, piano piano, si allontano sotto lo sguardo serioso dell’amico.




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martedì 5 agosto 2014

SCACCO ALLA REGINA ! (05.08.2014) Racconto Breve - ( Giallo)


Mario Scamardo

I Racconti del Borgo


Scacco alla Regina



            Il grande salotto era vuoto, le finestre spalancate lasciavano che una corrente d’aria permettesse al grande lampadario di dondolare e di far sentire il cigolio della catena. Su un tavolo, in quattro avevano giocato a canasta, i posacenere colmi, mozziconi di sigarette unti di rossetto e mezzi sigari consumati, su un altro tavolo, almeno in quattro avevano giocato a poker, alcune signore, accomodate sui divani, avevano fatto quattro chiacchere ed avevano consumato una serie interminabile di cioccolatini. Nel giardino una gran confusione, quattro capannelli e una ambulanza che andava via con sopra l’ingegnere Arturo Fais, il padrone di casa, con la spalla trapassata da un proiettile, cinquant’anni compiuti appena una settimana prima. La moglie Annarita era sostenuta da un’amica di famiglia, Gemma, insegnante di matematica in un liceo della cittadina, mentre il commissario di polizia Parelli ed un agente interrogavano gli ospiti e appuntavano su dei notes. Tutta la casa era sotto lo sguardo vigile dei poliziotti e non era permesso ad alcuno di entrare.  Quando Annarita Fais ebbe contezza che il marito era fuori pericolo e che l’arma con cui era stato sparato il colpo era una pistola di piccolo calibro, entrò in casa col commissario, assieme a tutti gli ospiti, e tutti vennero invitati a ripigliare il posto che occupavano al momento dello sparo, sei uomini e otto donne, due signore e due signori al tavolo di poker, uno era Arturo Fais; tre signore ed un signore al tavolo di canasta, un signore in piedi al tavolo di canasta, tre signore dialogavano sedute comodamente sui divani, in piedi accanto al camino due signori. L’unica donna di servizio, al momento dello sparo era fuori in giardino a preparare un buffet. Il commissario pregò tutti di rimanere ai loro posti e di rispondere alle domande.
-         Signora Fais, lei giocava a canasta e suo marito, al tavolo di poker, le stava proprio di fronte al momento dello sparo.
-         Si, proprio così, impegnata dal gioco, non mi sono accorta di nulla.
-         Alle spalle di suo marito c’è la porta che introduce nel corridoio, qualcuno ha aperto la porta?
-         Nessuno! Tutti eravamo in questa stanza.
-         Qualcuno di voi possiede un’arma, una calibro 32?


Tutti  fecero cenno di no col capo.
-         Nessuno di voi prima dello sparo si è alzato, nessuno è uscito dalla stanza per un motivo qualsiasi?
La risposta fu corale:
-         Nessuno, non ci siamo allontanati, siamo accorsi e poi….
Tutti gli ospiti negarono di possedere un’arma di quel tipo. La signora Fais si alzò, si avvicinò ad un mobile posto in un angolo, tirò un cassetto e prelevò proprio una Colt col manico in madreperla.
-         Commissario, questa è di mio marito, l’ha sempre tenuta in questo cassetto.
Il commissario la prese tra le mani, l’annusò e storse le labbra:
-         E’ questa l’arma del delitto, odora ancora di polvere.
Girò il tamburo, poi l’aprì, una sola cartuccia, chi aveva caricato l’arma aveva inserito un solo proiettile. Chi ha sparato, se voleva avere la certezza di uccidere con un’arma di piccolo calibro l’avrebbe caricato con sei colpi.
Il commissario Parelli riportò tutti in giardino ed impose a tutti di non allontanarsi. Rientrò in casa in compagnia di un agente e ritornò nel salotto a studiare la scena del crimine. Prese posto sulla sedia dove stava il Fais e notò che, se qualcuno avesse sparato dalla finestra che era alle spalle della sedia dove stava seduta la moglie, avrebbe potuto colpire la vittima, ma il foro d’entrata era alla schiena, quindi, soltanto dalla porta che immette nel corridoio poteva essere stato sparato. Aprì la porta, percorse il corridoio, in controluce non riuscì a notare sul pavimento, tirato a lucido, nemmeno un’orma, non un segnale o qualcosa che destasse un sospetto. Arrivò in fondo, un disimpegno e poi l’uscita posteriore che dava in giardino. Ritornò in salotto e ammirò su un tavolinetto una bella scacchiera in giada con tuti i pezzi al loro posto. 


L’unica persona che non si trovava nel salotto era la cameriera. L’ingegnere Fais dirigeva la sua piccola azienda che produceva piastrelle, utili modesti, senza debiti, quindici tra impiegati ed operai, mai un disguido, cordiale con tutti e molto benvoluto. Nessuno dei presenti aveva interessi in comune con lui. La vita privata, solo lavoro e famiglia, senza figli, soltanto l’hobby del biliardo, era un provetto giocatore di carambola e nel salone d’ingresso aveva fatto sistemare un tavolo ed una rastrelliera con le stecche. La moglie, laureata in lettere, non aveva mai insegnato, due o tre giorni la settimana, in mattinata, passava dal marito in azienda, un paio d’ore, poi in giro per la città. Amiche poche, che riceveva per una partita a canasta, due chiacchere e una cena fredda in giardino o una cena in sala da pranzo. Nessun hobby, o se si vuole considerare tale, la frequenza quasi assidua nel primo pomeriggio di un circolo culturale dall’altro lato della città. Un movente? Non c’era! Mai una lite, un dissapore o qualcosa d’importante che lasciasse pensare a sentimenti negativi.  Stranamente la donna di servizio era distaccata, non aveva battuto ciglio, aveva ascoltato, sembrava che per lei in quella casa non fosse accaduto nulla! Tutti avevano un alibi, nessuno aveva un movente; tutti mentitori o tutti bravi attori?
Fece accomodare la cameriera in salotto, dopo averle fatto ripetere che al momento dello sparo si trovava fuori in giardino, chiese se conoscesse tutti gli invitati di quel pomeriggio.
-         L’unica che conosco è la signora Gemma, gli altri non li avevo mai visti, lei c’è sempre, gli ospiti cambiano quasi ogni volta, due volte la settimana i signori vanno a casa di altre persone ed il rituale è sempre uguale, carte, pettegolezzi tra le signore e posaceneri colmi di mozziconi con un orribile puzzo di sigari per casa.
La donna si avvicinò alla scacchiera, colse un filo di polvere sul tavolino dove faceva bella mostra e lo tolse con un panno che portava nella tasca del grembiule.
-         Signorina, chi gioca a scacchi in questa casa?
-         Nessuno, la scacchiera è un pezzo bellissimo di arredamento, io so giocare a scacchi, sin da bambina ho imparato da mio padre che insisteva col ripetermi che la migliore difesa è l’attacco!
-          Già, è proprio così, ma ritorniamo alla signora Gemma, mi ha detto che lei è sempre presente, è nubile, non ha né marito né fidanzato, neppure un accompagnatore. Quindi lei frequenta spesso questa casa?
-         Si, signore, tutti i giorni la signora Gemma si vede con la signora Annarita, molti pomeriggi viene, si mettono in macchina e mancano fino a ora di cena, fino al ritorno dell’ingegnere. Un pomeriggio del mio giorno libero mi trovavo all’altro capo della città quando vidi uscire dall’hotel Experius la signora Annarita in compagnia di un signore distinto, lui l’accompagnò all’auto, le chiuse la portiera e rientrò in albergo, non ho capito chi fosse, forse un parente, un conoscente.
-         Forse un’amante?
La ragazza alzò le spalle e le arcate sopracciliari, non disse nulla.
-         Scusi signorina, lei sapeva dell’esistenza di una pistola nel cassetto del mobile accanto a lei?
-         Si, signore, l’ingegnere diceva che era un pezzo da collezione, l’impugnatura d’avorio la rendeva preziosa, ma non ho mai notato cartucce in questo cassetto, l’ho pulito decine di volte, mai un proiettile.
-         Bene signorina, grazie, ho notato in fondo al corridoio che da sul retro del giardino un paio di scarpe da donna nere di serpente, sa di chi sono?
-         Sono della signora, ma lei non lascia mai le sue scarpe in giro, le ripone sempre ordinate nella scarpiera.
-         Le pigli e le conservi in un posto sicuro, non le tiri fuori, se avrò bisogno gliele chiederò. Ora vado in ospedale, all’ingegnere Fais è stata estratta la pallottola, non ha leso organi vitali, è vivo e vegeto, un paio di giorni e tornerà a casa, lui può darmi informazioni maggiori.
Il commissario Parelli guadagnò l’uscita e volutamente guardò le scarpe che indossava Annarita, un paio di scarpette in tela che per nulla si intonavano al suo abito e, stranamente, Gemma portava un paio di scarpe identiche. Strano? Si, una coincidenza? Forse. Si avvicinò ad Annarita:
-         Signora, suo marito sta bene, mi hanno chiamato dall’ospedale, pallottola estratta e nessun danno rilevante. Lei potrà andare solo domattina, io vado subito per interrogarlo.
Fece un inchino alla signora, poi salutò gli altri che si congratulavano con Annarita e mentre stava per raggiungere il cancello si incontrò con un signore distinto che varcò la soglia e si salutò per primo con Gemma e poi con Annarita. Stranamente la cameriera fece cadere di mano un vassoio, Parelli si girò di scatto e notò la ragazza che faceva un segno come per dirgli qualcosa. Il commissario si appartò e fece segno ad un agente di fotografare l’uomo distinto che era da poco entrato nel giardino.
Un’ora dopo l’agente lo raggiunse con la foto dell’uomo e con altre che lo ritraevano in compagnia sia di Annarita che di Gemma, Parelli le intascò e si recò in ospedale. L’ingegnere era fasciato, certamente provato, ma in grado di rispondere lucidamente alle domande. Il commissario lo salutò, si congratulò per lo scansato pericolo, poi tirò fuori dalla tasca la foto che ritraeva l’uomo da solo, gliela mise sotto gli occhi:
-         Ingegnere, lei conosce quest’uomo?
-         Mai visto!
-         Cerchi nella sua mente, provi a ricordare.
-         Proprio nulla, non ho mai visto quest’uomo! Perché me lo chiede.
-         No, è una foto che ho trovato fuori, per strada, a terra davanti al cancello del suo giardino, sarà caduta a qualcuno passando nei paraggi.
Ingegnere, io non voglio stancarla, le chiederò soltanto se lei ha visto chi le ha sparato e se ha notato l’assenza di qualcuno dal salotto immediatamente prima dello sparo.
Corrugò la fronte il Fais, come se volesse scrutare nella mente.
-         Per favore commissario, passatemi un tovagliolino, mi hanno fasciato la spalla destra, anche il comodino è sulla destra.
L’uomo passò il tovagliolo sul viso, quasi volesse nascondere un filo di emozione o una lacrima, e per farlo fece finta di soffiarsi il naso. Era strano che non avesse chiesto della moglie, degli ospiti di casa sua, nulla di nulla! Poi:
-         Non ho visto chi mi ha sparato, continuo a non capire perché qualcuno lo ha fatto, non ricordo chi si sia allontanato degli ospiti.
-         Sua moglie ci ha mostrato, prelevandola da un cassetto, l’arma con cui è stato sparato il proiettile che l’ha colpita, una Colt calibro 32 con l’impugnatura in madreperla. Stranamente era stata caricata con un proiettile soltanto, quell’unico che l’ha colpita.
-         Quell’arma è solo un pezzo da collezione, non ho mai tenuto delle cartucce in casa.
-         Ingegnere, le devo chiedere se lei conosce bene i suoi ospiti e se conosce la signora Gemma.
-         Si, nessuno entra a casa mia senza che io mi fidi. Gemma era compagna di liceo di mia moglie, hanno vissuto in simbiosi, qualcuno le ha scambiate per gemelle, anche se non si somigliano per nulla, si incontrano spesso, direi spessissimo.
-         Ha notato se qualcuno ha manifestato interessi per la sua azienda?
-         La mia è una azienda quasi a carattere artigianale, piccola produzione anche se di ottima qualità, le maestranze sono una famiglia.
Si fermò l’uomo, con la mano destra si stropicciò gli occhi, corrugò la fronte:
-         Commissario, mi fa rivedere quella foto?
Parelli tirò la foto dalla tasca e gliela porse, Fais la fissò lungamente.
-         Le torna alla mente qualcosa?
-         Non so, forse l’ho visto ad una fiera, non ne sono sicuro, forse a Sassuolo o altrove ma potrei anche sbagliarmi, di certo non ho mai parlato con quest’uomo, c’era Gemma con noi, mia moglie ha insistito affinché venisse in fiera. Abbiamo pranzato nello stesso ristorante, lui, se è la stessa persona, era solo ad un tavolo accanto al nostro, ma nessuna certezza.
Entrò l’infermiera col carrello dei medicinali, somministrò un antibiotico e un antidolorifico. Uscendo:
-         Le allevierà il dolore, per stasera dovrà digiunare, ma domattina le porteranno la colazione, dopo la visita del primario la verrò a medicare.
Fais riprese la foto, la guardò ancora un po’, poi la porse al commissario.
-         Mi dispiace dottore, forse non le sono stato di grande aiuto.
-         Forse, ma forse si. La lascio riposare. Scusi ingegnere, capisco lo stato di confusione, il trauma, ma lei non ha chiesto di sua moglie.
-         Ottima domanda! Annarita è una persona forte, Gemma non si sarebbe staccata da lei, fino al suo interrogatorio non le avrebbero consentito di vedermi, ma credo che domattina verrà a trovarmi.
Lapidaria la risposta! Il commissario fece un cenno di saluto con la mano e uscì sul corridoio dando ordini ai due agenti di guardia di consentire il mattino seguente la visita della moglie, lei soltanto e nessun’altra persona.
Diramata la foto dell’uomo, arrivò in commissariato l’informativa. L’uomo della foto era Remo Guidotti, piccolo industriale del ravennate, cinquantenne, divorziato e senza figli. Produceva da una ventina di anni manufatti in argilla per l’edilizia, quindici tra dipendenti e maestranze, aveva insegnato matematica per cinque anni in Sicilia, proprio nello stesso istituto dove continuava a svolgere la sua professione Gemma. Che ci faceva quell’uomo il giorno dello sparo in quella città di provincia?  La cameriera aveva riconosciuto in lui l’uomo dell’hotel Experius con cui si accompagnava Annarita? Semplice saperlo! Parelli andò a letto con quel bagaglio di informazioni, stanco si addormentò, ma la sveglia alle sette del mattino lo destò.
Si recò a casa Fais, chiese ai due poliziotti di guardia ragguagli sulla notte, la signora era uscita per andare in ospedale, era andata via da sola in automobile, Gemma era andata via alle sette e mezzo per recarsi a scuola, dentro c’era solo la cameriera, che vedendolo in giardino accorse a salutare.
-         Signorina, credo che lei abbia qualcosa da dirmi.
-         Commissario, quell’uomo che ieri è entrato quando lei stava per andar via, è lo stesso che si è incontrato con la signora Annarita all’hotel Experius, io ho fatto cadere volutamente il vassoio per attirare la sua attenzione, ha salutato la signorina Gemma e poi ha trascorso una buona mezzora in un angolo del giardino a parlare con la signora Annarita, sembrava preoccupato lui, la consolava, le accarezzava le mani, lei parlava concitatamente, poi ha salutato Gemma ed è andato via. Stamattina facendo le pulizie ho trovato qualcosa proprio davanti all’uscita posteriore che immette in giardino.
Infilò la mano nella tasca e tirò fuori un proiettile, calibro 32, lo porse al commissario.
-         Ho cercato in tutto il prato, questo è l’unico che ho trovato.
-         Bene signorina, lei è stata di grande aiuto. Mi accompagni nel salotto, voglio ancora vedere qualcosa.
Riprese il posto dell’ingegnere e riguardò la finestra, poi si girò e guardò la porta alle spalle, riaprì il cassetto dove era riposta la pistola, riguardò attentamente i posacenere ancora colmi, poi chiese alla domestica di accompagnarlo nella camera della signora. Aprì un po’ di cassetti sotto l’occhio vigile della ragazza, un guanto lungo da abito da sera di colore bianco. Perché solo un guanto? Lo prese e lo rivoltò, dentro un biglietto arrotolato da entrare in un dito, lo srotolò e lo lesse: “La tua barca sta per partire, abbi forza e tanto coraggio, devi remare con un solo Remo”. Sibillino il messaggio? Forse! Arrotolò il foglietto, lo ripose dov’era, rivoltò il guanto e richiuse il cassetto. Pian pianino si indirizzò verso il salotto e lasciò che la cameriera continuasse a svolgere il suo servizio. Dalla finestra vide arrivare in macchina la signora e la vide andare a passo lesto verso l’uscita posteriore. A passo felpato il commissario percorse il corridoio e trovò Annarita china come se cercasse qualcosa.
-         Signora Fais, ha perso qualcosa?
La donna sorpresa ed impacciata:
-         Mi saranno cadute le chiavi, in borsa non le trovo.
Il commissario tira fuori dalla tasca il proiettile e glielo mostra:
-         Forse cercava questo!
Fortemente sorpresa, dopo un attimo di smarrimento:
-         Cos’è?
-         Un proiettile, signora, calibro 32, il secondo proiettile che avrebbe dovuto colpire suo marito, ma che nella foga di fare rapidamente è andato smarrito.
-         E lei sospetta di me?
-         Forse! Le ripeto la domanda, prima dello sparo ha visto uscire qualcuno dal salotto?
-         Nessuno, fuori c’era solo la donna di servizio che preparava un tavolo per il buffet.
-         Ne è certa?
-         Si che sono certa, siamo accorsi tutti allo sparo.
-         Bene signora, da questo momento in poi non esca più di casa, non le verrà consentito dai poliziotti.
Rientrò nel salotto il commissario, come a cercare qualcosa che gli era sfuggita, si avvicinò al camino, poi guardò in una vetrina colma di statuine di giada, di onice e di soldatini d’argento. Si girò e qualcosa lo colpì, la scacchiera non era come l’aveva lasciato, era come se qualcuno avesse giocato e notò che la regina era sotto scacco! Scacco alla regina! Pensò che la cameriera avesse intuito qualcosa. La chiamò e la portò davanti alla scacchiera.
-         E’ lei che ha mosso i pezzi?
-         Si commissario, scacco alla regina!
-         Mi spieghi.
-         Io ero in giardino al momento dello sparo, le uniche che potevano muoversi liberamente per la casa erano la signora Annarita e la signorina Gemma, due regine in questa casa, una stava giocando a canasta, l’altra non l’avrebbe notato nessuno se si fosse allontanata per un istante, ambedue conoscevano la casa. E’ il movente che io non vedo, ma una delle due ha sparato, dalla porta dietro le spalle dell’ingegnere.
-         Il movente? Tutto chiaro! La signora Fais aveva visto spegnere la passione per suo marito, si era innamorata di Remo Guidotti che la invitava a remare con un solo Remo, fuggire con lui, ricorda il biglietto dentro il guanto? Non era facile, bisognava liberarsi del marito. E’ stata Gemma a presentarglielo, era stato suo collega nel passato, era morbosamente legata ad Annarita fino al punto di sacrificarsi per lei, facendo per tanto tempo la paraninfo ed essendo disposta anche a commettere un crimine. Ancora un movente? L’odio che provava Gemma per il Fais, lei era d’ingombro, l’ingegnere, innamorato della moglie, la sopportava e lei lo sapeva.
La ragazza prese sottobraccio il commissario, lo riportò davanti la scacchiera e mosse una torre.
-         Scacco alla regina, ma stavolta è matto!
Il commissario la guardò e sorrise.
-         Cosa c’è che non so?
-         Mi aspetti un attimo.
La ragazza imboccò il corridoio, poi rientrò con in mano le scarpe di serpente che aveva nascoste.
-         Sono numero 39, identiche a quelle della signora Fais, ma lei porta il 38 e le sue sono ben riposte nella scarpiera, Gemma porta il 39, son sue le scarpe, spesso le due donne compravano capi identici. Nel corridoio con i tacchi a spillo qualcuna l’avrebbe sentita, le cambiò con le scarpe in tela, ma non è una donna ordinata, percorse il corridoio e aperta la porta sparò e si mescolò alla folla, poi con calma ripose l’arma nel cassetto dove l’aveva presa. Annarita rientrando non cercava il proiettile ma queste scarpe, quelle di Gemma, la prova del loro crimine.
-          
Le due donne vennero arrestate e processate per tentato omicidio. 




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