Mario
Scamardo
I
RACCONTI DEL BORGO
Gli
amori di Lucia
Gracile, con i piccoli
gomiti poggiati sullo stipite della finestra e lo sguardo fisso all’orizzonte,
un po’ più su del monte che sovrasta il
paese, ad aspettare che sulla cima spuntasse la luna, immensa, chiara come i
suoi capelli fini e sottili, legati alla nuca da un fiocco bianco e, quando
l’astro sembrava toccare la cima, lei abbozzava un sorriso, quel monte che
sembrava un pupazzo, finalmente aveva la testa.
I suoi occhi grandi si riempivano di quella luce, lei agitava la sua
manina e salutava soddisfatta, poi richiudeva la finestra, scendeva dallo
sgabello e saltava sulle ginocchia di suo padre per guadagnarsi una carezza e
un bacio. La nonna le aveva raccontato che la luna era figlia di una fornaia
che scopando il forno prima di mettervi dentro le forme di pane a cuocere,
inavvedutamente le aveva sfiorato il viso e le aveva procurato delle macchie
sul volto e, non avendo acqua per pulirle la faccia, le macchie si erano
fissate e non erano andate più via. Lucia ascoltava le storie che le venivano
raccontate e le fissava alla sua mente.
Il suo primo giorno di scuola la vide in un grembiulino nero,
colletto bianco ed un fiocco rosa, allora pretese che anche il fiocco che le
legava i capelli fosse di color rosa. Fu una bambina diligente ed attenta,
imparò e prima che si completasse l’anno scolastico, sapeva leggere, scrivere,
sommare e sottrarre. Non era di tante parole Lucia, ma era attentissima a
quanto si svolgeva attorno a lei. I suoi capelli fini e biondi le arrivano al
bacino e quando finì le elementari chiese di averli tagliati. Sotto il
caschetto biondo due occhi grandi e dolcissimi suscitavano tenerezza. Già alla
seconda classe della scuola media cominciò a pigliare forma il suo corpo e
quando compì tredici anni, scoprì da sola di essere diventata adulta. Il tempo
matura ogni cosa, e quel fuscello biondo diventò una bellissima donna
aggraziata, capace di intrattenersi in conversazioni, sempre nel pieno rispetto
di una tolleranza che nessuno le aveva spiegato. Amica con tutti, docile,
generosa, sincera, si guadagnò la stima di quanti la conoscevano. Aveva sedici
anni quando qualcosa la turbò, percepì che dentro di se qualcosa stava
cambiando, Emilio, un ventenne che lei aveva guardato come uno dei tanti amici,
era diventato il padrone dei suoi sogni, il padrone dei suoi pensieri, proprio
lui che molto delicatamente la salutava ossequiosamente, la fissava di
continuo, si preoccupava di qualche suo piccolo contrattempo e sorrideva
compiaciuto quando lei parlava. Che le stava succedendo? Razionalmente capì che
l’amore aveva bussato alla sua porta. I due giovani vissero momenti bellissimi,
progettarono il loro futuro, sognarono, si, sognarono i mondi delle favole che
la nonna aveva raccontato a Lucia.
La ragazza completò
gli studi di media superiore, poi trovò un lavoro da segretaria presso uno
studio professionale. Emilio era un ottimo artigiano e lavorava presso una
piccola azienda in un paesino a dieci chilometri di distanza. I genitori di
ambedue approntarono una casetta, l’ammobiliarono secondo i gusti semplici ma
raffinati di Lucia ed un mattino quella donna, dai tratti di una venere,
indossò il suo abito bianco e convolò a nozze. Lucia, curiosa, si immerse a
capo fitto nella lettura, bastava un solo ritaglio di tempo libero per
ripigliare il libro che teneva sempre sul mobile del suo soggiorno, lesse
Kafka, Tolstoj, Orwel, Staimbeck, Pirandello, Verga, poi tentò di capire alcune
filosofie orientali, intanto il suo ventre cresceva e venti mesi dopo le sue
nozze nacque Dario. Una sera, preparò per cena e pose accanto al tavolo la cesta
col bambino che rosicchiava la sua tettarella poi, con i suoi grandi occhi
belli, incrociò compiaciuta lo sguardo del marito, che era sempre di poche
parole:
-
Emilio,
ora siamo una famiglia! Tu, Dario ed io!
Il marito sorrise, si alzò e la baciò sulla fronte:
-
Si
Lucia, questa è la nostra famiglia.
Emilio sedette, cenò, aiutò a sparecchiare e quando Lucia
accese il televisore, lui infilò la mano della tasca dei pantaloni e tirò fuori
un mazzo di chiavi, le porse alla moglie:
-
Tieni,
sono le chiavi della macchina che ti ho comprato stamattina, non è nuova, ma è
come se lo fosse, una Cinquecento Fiat, è qui davanti la porta.
Lucia ebbe un attimo di smarrimento, poi sorrise, lo
abbracciò e corse fuori a vedere la sua macchinetta.
Quando Dario compì tre anni, Lucia comunicò al marito che fra
otto mesi una nuova vita si sarebbe affacciata nella loro casa. Il tempo fu
puntuale e nacque Carla, bruna come il fratellino, paffuta come mai la madre lo
fu da piccola. Ancora una volta Lucia ricordò al marito che la loro era una
famiglia, non più di tre ma di quattro componenti.
Quello della famiglia per Lucia era un chiodo fisso, la sua
d’origine era granitica, ma anche quella di suo marito, lei non vedeva altro che
questa aggregazione come valore unico e indispensabile, dove ogni componente
doveva avere un ruolo.
Le maternità centuplicarono la bellezza ed il fascino di
Lucia, ed i suoi figlioli crebbero in un ambiente di serenità, di cure, di
attenzioni e di grandi sentimenti. Il lavoro per lui non fu sempre costante,
periodi di magra si alternarono a periodi floridi, lei continuava a lavorare ed
era diventata il pilastro certo su cui potere contare. Il tempo passò senza mai
scalfire né il sorriso della donna né il suo fascino.
Dario compì diciotto anni, e Carla quindici, grandi, del
tutto autonomi, ma quando parlava di loro Lucia diceva “i me picciriddi”, i
miei bambini. Per lei non erano mai cresciuti, non era invadente, ma li
controllava ed era gelosa di ambedue.
Il legame morboso alla casa, ai figli, nel tempo, aveva fatto
si che le attenzioni per il marito erano passate in secondo piano, come se
fosse scontato che la passione continuasse a bruciare senza essere alimentata.
La donna sottovalutò questo aspetto, non si rese conto che tutti i componenti
della famiglia meritavano la medesima attenzione. Il dialogo col marito
cominciò ad essere blando, fatto di monosillabi, freddo a tal punto che anche
la stessa routine del cucinare diventò solo un impegno per i figli. Troppo
tardi per raddrizzare il rapporto? Lei pensò di no e organizzò ricevimenti a
casa sua di amiche, qualche piccola escursione di fine settimana, nella
speranza di coinvolgere il marito che tendeva a diventare apatico. Il rapporto
coniugale, quando emicranie e malesseri si ripetevano spesso, finì per
diventare qualcosa di meccanico, fino allo spegnersi definitivamente. Emilio
subì ma non affrontò il problema, Lucia lo sottovalutò e un giorno si trovò
davanti a qualcuno che cominciò a corteggiarla e si innamorò di lei
perdutamente, anche lei fu attratta, forse lo amò, ma non si abbandonò mai tra
le braccia del suo spasimante. L’uomo la amò al punto, che pur di starle
vicino, si accontentò di vederla e di poterla accarezzare con gli occhi. Per
Lucia quell’uomo avrebbe fatto tutto, avrebbe sfidato l’impossibile, ma da quel
gran signore che era, se ne stette lì a tenerle compagnia, a rincuorarla, a
consigliarla, senza che mai fu tentato di sfiorarla con un dito. Capì mai Lucia
la devozione di quell’uomo? Capì quanto era sconfinato l’amore per lei? Forse
si, ma non lo sapremo mai, di certo lei gli voleva un gran bene e lo stimava.
Emilio ritornava dal lavoro, faceva una doccia, sedeva a tavola con moglie e
figli, pochissime parole, poi davanti alla tv ad aspirare una sigaretta dopo
l’altra e il sonno lo coglieva, magari aspettando che la moglie lo invitasse ad
andare a letto. Pian piano il divano davanti il televisore diventò il letto
dell’uno o dell’altra e in quella casa si respirò aria di orfanotrofio, fredda,
dove l’uno non avvertiva l’altra quando andava a dormire o viceversa. Gli
incontri con quel galantuomo che l’amava, ma che la rispettava fino a
soffrirne, avevano risvegliato in lei antiche voglie e, fu tentata più volte di
appagarle, forse faranno parte del suo bagaglio di rimpianti, e tutte le volte
si castigò rinunziandoci. L’uomo tutte le volte capì, ma continuò a godersi lo
spettacolo dei suoi occhi in silenzio e, tutte le volte, mentendo a se stesso,
fece capire che la sua presenza nella vita di Lucia non andava oltre una
sincera amicizia. Il suo compagno di vita era stato messo da lei
in un angolo e, ferito nell’orgoglio,
viveva in castità come un asceta. Conscia della sua bellezza ed
avvenenza, si sentì offesa dalle mancate avances del marito, senza riflettere
sul fatto che quando Emilio la cercava lei era assente. Dubitò Lucia che Emilio
fosse appagato dalle grazie di un’altra donna, magari un’amante nel paese dove
lavorava, ma non indagò mai, si chiuse in un assoluto mutismo e temendo la
disgregazione di quella famiglia che lei aveva voluto, costruito ed amato,
attese gli eventi. Quanto questo stato di stallo poteva durare? I figli
coglievano il disagio a casa, soffrivano senza mai dire una parola. Anche le
visite di amici, le piccole sortite di fine settimana scemarono; quel
galantuomo innamorato non la lasciò mai sola, la incontrava con una scusa e la
sosteneva, fino a quando lei, un giorno gli confidò quello stato di disagio che
l’uomo aveva colto sin dal suo nascere. L’ancora che le impediva il naufragio,
un vero amico, non la spalla su cui piangere!
Un pomeriggio al bar davanti ad un supermercato Lucia si
intrattenne con l’amico davanti ad un caffè, raccontò il diverbio al limite
della rissa col marito e, trattenendo a stento le lacrime implorò aiuto. Emilio
aveva minacciato di voler andar via da casa; il grande pilastro si andava
sgretolando e, quando il marito l’accusava di essere assente, lei non aveva
giustificazioni. L’uomo pazientemente la fece sfogare, poi con calma socratica
le disse:
-
Dammi
un po’ di tempo per riflettere, domani ti vengo a trovare sul lavoro,
nell’intervallo parleremo sul da farsi, tu prova a fare una cosa, prova a
riflettere sul bene che vuoi ai tuoi figli, sul valore di quella famiglia che a
forza hai voluto e difeso, sui tuoi sentimenti nei confronti di Emilio,
interrogati su cosa vuoi fare da grande! Evita qualunque discussione, accantona
l’ira se ti ha pervaso, domani
serenamente affronteremo il problema, poi farai delle scelte che saranno
ponderate, tu sei una gran donna, non ti manca la razionalità, non permettere
al caso che la tua imbarcazione vada alla deriva, prova a riprendere il timone
e a puntare su un porto sicuro.
L’uomo prese i sacchetti della spesa, accompagnò Lucia alla
macchina, glieli caricò, le chiuse lo sportello e la salutò con un sorriso.
Ritornato al bar risedette allo stesso tavolinetto, ordinò ancora un caffè e se
ne stette lì, pensoso, con lo sguardo ad una vetrata che lasciava intravedere
all’orizzonte il mare. Il sole si era immerso da pochi istanti e le nubi
rossastre tendevano al grigio scuro, il cameriere ritirò il vassoio dal tavolo
e porse lo scontrino. L’uomo aveva
notato dei vistosi graffi al polso destro della donna, anche una piccola tumefazione,
non le chiese neppure la causa, la risposta sarebbe stata bugiarda, gli avrebbe
detto che se li era procurati da sola per un attacco improvviso di prurito o
qualcos’altro, questo lo rese ancor di più pensieroso.
Il mattino seguente squillò il telefono di Lucia che era in
ufficio, all’altro capo, l’unico vero amico che le era rimasto:
-
Come
stai?
-
Bene,
grazie, e tu?
-
Bene
anch’io! Ti va di parlare?
-
Si,
ne ho una gran voglia, chiedo un’ora di permesso, aspettami giù, mi va di fare
una passeggiata, solo cinque minuti.
Sempre raggiante, con i suoi occhi luminosi, Lucia varcò la
soglia del portone e diede un bacio sulla guancia al suo amico:
-
Andiamo,
arriviamo in fondo al viale, poi piglieremo un caffè e mi riaccompagnerai fin
sotto il portone.
-
Hai
riflettuto?
-
Si,
tantissimo, sulle prime ero quasi convinta di dare un calcio a tutto, di dare
un taglio e dedicarmi anima e corpo ai ragazzi, ma sono stati loro che,
tempestandomi di domande, mi hanno messo in crisi. Mi hanno parlato della
disperazione del loro papà, da uomo di poche parole si era trasformato in un
muto che vaga per casa come un automa, alle sue crisi di pianto in mia assenza,
alla disperazione di un lavoro precario e mal retribuito, alla rinuncia anche a
cercar conforto presso la sua famiglia di origine. La domanda ricorrente di mia
figlia è stata quella di sapere se amavo ancora suo padre e, quando per più
volte non diedi risposta ambedue all’unisono mi chiesero se amavo un altro
uomo. Non risposi neppure a questa domanda e Carla ebbe il dubbio che io avessi
un’amante. Fu allora che mi sentii sola e fragile, quel dubbio avrebbe
allontanato forse i miei figli. Stamattina, dopo che mio marito ha varcato la
soglia per andarsene al lavoro, erano le cinque e quaranta minuti, preparai
caffè e colazione e svegliai i ragazzi, li invitai in cucina, li feci sedere e
diradai ogni loro dubbio. La passione è lunga o breve, ma è destinata a
soccombere per far ampiamente posto all’amore, quello è la malta legante in una
coppia, svanito anche quello si può confidare nell’affetto e nel rispettò, ma
non c’è più legame, non c’è più la famiglia! Amo mio marito? Lo amo si! Cosa ho
fatto per allontanarlo da me? Non lo so, ma certamente non sono stata presente,
almeno fisicamente nella sua vita, e ciò sin dalla nascita del primo figlio sul
quale ho scaricato ogni mia attenzione, e poi sulla bambina, dimenticandomi di
lui, senza più fargli una moina, senza più chiedergli come era andata la sua
giornata o quale camicia desiderasse che gli facessi trovare pronta per essere
indossata, così come facevo prima. Senza dolo, ma ho sbagliato, lasciando che
il ghiaccio, come una parete divisoria, si ponesse tra me e lui. Ammisi i miei
errori, in maniera cosciente, ma confessai che non sapevo come e da dove
ricominciare a costruire un processo di ritorno al passato. E lui? Ancora un
problema da affrontare, forse il problema!
Si zittì Lucia, a capo chino percorse, in compagnia
dell’amico che non proferì parola, l’ultimo tratto del viale, poi ambedue
sedettero ad un tavolinetto di un bar ed ordinarono due caffè. Lucia chiedeva,
in modo non esplicito, aiuto. Testarda, orgogliosa, fiera di se, aveva concluso
il suo narrare, certa che l’amore infinito che l’amico nutriva per lei, prima o
poi, avrebbe costretto l’uomo ad aiutarla. Mancava un tassello al racconto di
Lucia, il motivo di una collera malcelata. L’amico consumò assieme a lei il
caffè, non aveva smesso un istante di fissarla, prima di alzarsi dal tavolino:
-
Lucia, c’è
qualcosa che non mi hai detto, sei stata brava ad ammettere i tuoi errori, io
posso solo immaginare e ti risparmierò di dirlo, proverò a dirtelo io, mi
basterà guardarti negli occhi per capire. Qualcuno, incautamente, ti ha raccontato
di qualche conoscenza femminile di tuo marito, tu continui a sostenere che non
te ne importa proprio nulla, ma tutti e due sappiamo che non è così. Nessun fatto accertato, solo un sospetto! Mia cara, il
sospetto non è mai l’anticamera della verità, è soltanto una tragedia che fa
male al sospettato ed al sospettante, ma in te ha generato la collera, una
brutta bestia che non ti aiuta a riprendere il timone della tua nave. La
collera è una passione velocissima puntata contro chi ci ha arrecato un torto o
si presume che l’abbia fatto, essa amareggia l’anima, ci impedisce di
riflettere, soggioga la nostra mente ponendoci davanti il volto di chi ci ha
rattristato. Non devi consentire alla collera di persistere in te, perché
potrebbe soffocarti, facendoti perdere il fiato. Pur non avendone certezza, ti
senti aggredita, rischi di veder trasformata la tua ira in un sentimento
permanente e nella memoria di un offesa mai perdonata, con conseguenze nefaste
per ogni relazione. Per quanto riguarda la lotta contro questa passione,
ricorda che cedere costantemente alla collera è il segno di una vita
scarsamente umana, non sufficientemente ritmata dal riposo e dal silenzio. Solo
chi vive nel silenzio a lungo sarà anche capace di spegnere la collera che ha
dentro. Dobbiamo avere quella capacità di pazienza di sentire in grande, il che
significa, convivere con l’imperfezione e l’inadeguatezza presenti nell’uomo e
nella realtà; pazienza che significa anche sopportare, cioè, supportare e
sostenere gli altri nelle loro debolezze che prima o poi sono anche le nostre.
Non disse altro
quell’uomo, fissò gli occhi splendidi di Lucia e sperò che quelle parole
raggiungessero il cuore della donna. Poi passeggiarono in silenzio e sotto il
portone dell’ufficio fumarono una sigaretta lasciando che le spire di fumo si
incontrassero nell’aria.
Per due
settimane l’uomo sparì, non chiamò al telefono, non passò davanti al portone
dell’ufficio in cui la donna lavorava. Lucia fece una lunga riflessione, ma le
mancavano le riflessioni di quell’unico amico che si ritrovava. All’imbrunire,
proprio come quando era bambina, si affacciava alla finestra che guardava la
montagna, con i suoi capelli biondi mossi dalla brezza della sera e con quegli
occhi grandi e luminosi ammirava il sorgere della luna. Prese il telefono e
chiamò l’amico, alla risposta:
-
Ho bisogno
di parlarti, ti chiederò domani dove sei stato e perché non mi hai chiamato.
Domani non lavoro, ma ci incontreremo alle dieci davanti il portone
dell’ufficio, solo il tempo di consegnare un plico.
Il mattino
seguente, elegante come sempre, con un abito turchese e i capelli sparsi sulle
spalle, scese dalla sua macchinina color aragosta e si diresse verso l’amico
che l’aspettava, lo baciò come era solita fare sulla guancia e gli chiese di
attenderlo per infilare il suo plico nella cassetta della posta, poi, passo
passo, percorsero il lungo viale alberato:
-
Amico mio,
devo comunicarti le mie scelte, tu mi hai fatto riflettere su molte cose, il
silenzio in cui mi sono immersa mi ha aiutato tantissimo a decidere. L’amore
per i figli, l’amore per la famiglia, mi hanno indotto a ricominciare, anche il
rapporto con Emilio non è più turbinoso, non è idilliaco ma tende a migliorare.
I ragazzi sono più sereni, la mia collera è svanita e il mio sospettare non era
per nulla l’anticamera della verità. Senza di te, sarei ora una donna sola a
vagare in un pelago di problemi, tu sei stato come un computer, un acceleratore
di processi, che senza le tue riflessioni, senza i tuoi consigli, avrebbero
impiegato troppo tempo a compiersi, o, forse, si sarebbero arenati. Io debbo
salvare la mia famiglia!
-
Lucia, son
felice delle tue decisioni, guardo i tuoi occhi e leggo gioia e soddisfazione.
Ora sediamoci al bar, pigliamo un caffè, ho da darti il mio ultimo
suggerimento, mentre ti riaccompagnerò alla tua macchina ne parleremo, tu sarai
libera di ponderarlo, accettarlo o buttarlo alle ortiche, io mi sento obbligato
a dartelo.
Ordinarono
due cornetti e due caffè, li consumarono parlando dei nuovi libri che Lucia
aveva acquistato, parlarono del mare e dei tramonti, poi si alzarono e
cominciarono a ripercorrere a ritroso il viale.
-
Cara amica
mia, ascolta il mio ultimo suggerimento, tu sei una donna intelligente,
ricordati che per riconquistare il compagno della vita, non puoi essere solo
moglie, devi essere amante, passionale, se occorre anche qualcosa al di là
dell’amante. Non devo dirti più nulla, la tua felicità, la tua serenità,
rendono felici gli amici che ti stanno attorno, io sono solo uno di loro, non
so se il più caro o il più lontano. Ti occorre ancora silenzio, con gran dolore
uscirò dalla tua vita, ma lo faccio con amore, mi mancherà il tuo sorriso, la
luce che sprigionano i tuoi occhi, il tuo fascino antico, le tue incertezze e i
tuoi dubbi, ma sarò felice di saperti felice.
Lucia capì
che non lo avrebbe più rivisto, non disse una parola, solo una lacrima solcò il
suo viso, aveva capito l’entità dell’amore che quell’uomo provava per lei. Si
mise in macchina, asciugò gli occhi, e prima di andar via abbassò il
finestrino:
-
Grazie Luca,
sarai sempre nel mio cuore.
Mise in moto
e, piano piano, si allontano sotto lo sguardo serioso dell’amico.
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Grazie!
Molto bella Mario ,un buon insegnamento di quello che puo' essere una vera amicizia che trasformata in amore rinuncia per amore
RispondiEliminaAmicizia con la A maiuscola!
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