giovedì 26 febbraio 2015

LA SANGUISUGA - Racconto breve - 27. febbraio. 2015


















I Racconti del Borgo

Mario Scamardo



La sanguisuga


         Francesco un giorno ritornò dai campi in groppa al mulo, davanti casa smontò, tirò dalla bisaccia un fascio di biete selvatiche e le porse a sua madre perché le cucinasse, poi liberò il mulo dal basto, gli lavò gli zoccoli infangati, lo abbeverò e lo fece entrare nella stalla.

Dopo essersi lavato, attese che anche suo padre ritornasse con l’altro mulo dai campi. Le biete, pulite, risciacquate e sminuzzate vennero buttate nella pentola e quando la madre vi buttò dentro pure le fettuccine fresche, che con sapienza aveva  ottenuto da una sfoglia di pasta, sedette a tavola in attesa dell’unico piatto. A fine pasto, timidamente, annunciò ai genitori che era nelle sue intenzioni fidanzarsi, stante che aveva già assolto all’obbligo di leva da due anni, e il piccolo vigneto che aveva impiantato, era pronto a dare i suoi frutti.

Una sera Francesco, in compagnia di papà e mamma, dopo avere comprato un fascio di rose rosse, si recò a casa dei futuri suoceri e si fidanzò con Cristina, figlia unica anch’essa di due contadini così come erano i suoi genitori.

Il piccolo vigneto cominciò a produrre frutti, Francesco vendemmiò per tre anni di fila senza spendere un centesimo di quanto ricavato dalla vendita dell’uva, e una sera, davanti ad un unico piatto di ceci, chiese ai suoi genitori il permesso di sposarsi. Conti alla mano, centesimo su centesimo, pochi parenti per il convivio di nozze, mobili accomodati e casetta di due vani a piano terra, accanto alla stalla, e la sua famiglia si spostò il giorno successivo, in casa di Cristina, per concordare la data delle nozze.

Per i primi due anni la famigliola ebbe vita facile, poi, la bufera! Il mercato dell’uva crollò, il lavoro di bracciante scarseggiava e la gente si muniva di passaporto per emigrare nei paesi dell’America del sud, Argentina, Brasile, Venezuela, Uruguay. La vita in paese era diventata difficile, i soldi non bastavano mai, il lavoro nei campi non dava utili e il pancione pronunciato di Cristina che era in attesa di un lieto evento faceva andare in fibrillazione Francesco. Alla nascita della bambina i due giovani coniugi si videro costretti a trasferirsi a casa dei genitori di lui, vendere la loro casetta, munirsi di passaporto ed attendere; undici mesi dopo, la partenza della nave che li avrebbe portati prima a Caracas e poi in Brasile, a Rio de Janeiro, dove li attendevano dei conoscenti, partiti prima di loro, per una prima sistemazione.

La bambina venne affidata alla mamma di Cristina.

- Torneremo, lo facciamo per lei, la ripagheremo del dolore che stiamo per darle, qua non possiamo darle che miseria! Torneremo per riprenderla!

Non ebbe altre parole Cristina, col cuore straziato svezzò la bambina, la teneva stretta al seno anche quando dormiva, pur sapendo che con i nonni non avrebbe mai sofferto di nulla.



Valigie di cartone legate con spaghi, due zaini con gli alimenti e l’acqua e due biglietti di sola andata sul ponte di una motonave diretta in Venezuela! Straziante fu il distacco al molo di Palermo, si sentì mancare Cristina, Francesco staccò dal suo collo la catenina da cui penzolava un minuscolo Crocefisso e la mise al collo di sua figlia, poi si persero tra la folla che sventolava fazzoletti bianchi, tutti uguali, tutti con lo stesso ritmo. Dodici giorni di traversata, dodici di stenti, dodici di pianti, poi Caracas. Rimasti sulla nave Cristina e Francesco attesero che la stessa ripartisse il giorno dopo per Rio e novantasei ore dopo sbarcarono a Rio, incontrarono i conoscenti che li aspettavano e furono ospitati per una settimana, poi furono accompagnati a bordo di un camioncino a Teresopolis una piccola cittadina verso l’interno. Scesero dal camion in una azienda agricola e, presi gli accordi, senza conoscere la lingua portoghese, si misero al lavoro, lui come contadino, lei aiutava altre donne nella stalla e nella lavorazione del latte. Furono assegnate due stanzette e a fine settimana il capoccia del posto consegnò a Cristina 70 Real e a Francesco 95 Real, in totale 165 Real pari a circa 103.000 lire. Negli anni ’50 erano in Italia lo stipendio di un funzionario di banca, loro lo avevano guadagnato in una settimana. Considerando che la casa era gratis e che per il mangiare ci si poteva arrangiare, Francesco e Cristina cominciarono a sognare, progettando di ritornare in Italia con un bel gruzzolo e dare così un avvenire alla propria creatura. Il sogno durò un paio di semestri, poi la crisi! La fattoria in cui lavoravano andò in malora e l’inflazione colpì il Paese sudamericano, di lavori precari ne trovarono pochi e, prima che i loro risparmi finissero divorati dall’inflazione, comprarono due biglietti di terza classe, sul ponte della stessa nave patirono per sedici giorni gli stenti ed un mattino di marzo si ritrovarono sul Molo Santa Lucia a Palermo.

Ospitati dai genitori di Francesco, ricominciò la lotta per la sopravvivenza, ma in compenso potevano stringere al petto la loro bambina che già parlava e camminava.

Non avevano più la loro casa, ma rimaneva il piccolo vigneto che a malapena il padre di lui riusciva a coltivare. Una prozia di Francesco la zia Nunzia, si mosse a compassione, offrì gratuitamente una casetta di tre vani alla giovane coppia, i mobili erano vecchi, ma la cucina ed il forno erano funzionanti, gli fece attaccare la corrente elettrica, l’acqua c’era, gli regalò quattro sacchi di grano e si preoccupò di vestirgli la bambina, poi lo assunse come bracciante nella sua azienda. Francesco nei pomeriggi e nei festivi cercava di riattivare il suo fondo a vigneto, ma ci volevano i concimi, le arature, gli anticrittogamici e gli antiparassitari, non avendo un soldo, pensò bene di chiederli al fratello di sua madre, benestante in quanto strozzino, senza figli, che tutti chiamavano Pippinu a sancisuca, Peppino la sanguisuga, Zecchi per l’anagrafe, come sua madre. Nessuno avrebbe mai pensato che all’unico nipote, per giunta in difficoltà, avrebbe negato il prestito che gli sarebbe stato restituito ad ottobre, a vendemmia ultimata, a distanza di sette mesi. La sanguisuga titubò un po’, ma stretto dalla morsa delle pressioni della sorella e dalla signora Nunzia, concedette il prestito al nipote, centomila lire, però con un interesse di diecimila lire al mese, per cui ad ottobre Francesco avrebbe dovuto rendere allo zio centosettantamila lire. Francesco ritornò in campagna il mattino seguente, passò filare per filare le sue viti, e si rese conto che se trattate a dovere, avrebbe ottenuto almeno il doppio della cifra richiesta, se non li avesse accudite, non avrebbe raccolto nulla e il vigneto sarebbe andato perduto. Accettò il denaro dallo zio e si impegnò a pagare al trenta ottobre, capitale ed interessi.

La giornata di Francesco cominciava all’alba, due ore tra i filari del suo vigneto, poi fino alle sedici del pomeriggio, nei campi della signora Nunzia e, fino a quando faceva buio, ritornava al suo campo e la domenica si concedeva il pomeriggio libero e si godeva la sua bambina. Sia i suoi genitori che quelli di Cristina, aiutavano la coppia come potevano, un paio di scarpe per lei, un pantalone per lui, un vestitino alla bambina. A giugno il papà di Francesco mietette il suo modesto campo di grano e dopo la battitura ne portò dieci sacchi al figlio. Peppino la sanguisuga ogni tanto si faceva vedere in campagna, controllava se l’uva fosse ben curata e regolarmente ricordava al nipote:

- Ricordati che l’uomo ha una parola sola, preso l’impegno deve mantenerlo! Io con te sono stato benevolo, sei figlio di mia sorella, non ti ho chiesto di firmarmi delle cambiali per il prestito che ti ho fatto, ti ho fatto risparmiare anche il loro costo, ma alla puntualità ci tengo, il trenta di ottobre voglio che tu mi ritorni il denaro e gli interessi!

Sdegnato Francesco, non lo cacciava via per non fare un torto a sua madre, ma era tentato di mandarlo a quel paese in malo modo.

- Te li renderò fino all’ultima lira, anche se dovessi patire la fame!

Venne settembre e il venti di quel mese, aiutato dal suocero, dal padre e dalla moglie, Francesco vendemmiò per tre giorni interi la sua vigna, una produzione da record e quando andò a riscuotere presso la cantina a cui aveva venduto l’uva, intascò novecentonovantamila lire, aggiunse la settimana di paga che la signora Nunzia gli doveva e si presentò da sua moglie:

- Cristina, siamo milionari! Un milione e ventimila lire!

Portò i soldi allo zio, centosettantamila, con un mese di anticipo, la sanguisuga sostenne che l’impegno era per sette mesi e che i suoi soldi li prendeva tutti, senza alcuno sconto, il pattuito era pattuito! Francesco uscì per strada e riflettendo sul comportamento della sanguisuga decise che mai più avrebbe voluto incontrarlo!

La coppia comprò un altro terreno limitrofo al primo e con sacrifici lo impiantò e tre anni dopo, dopo la prima vendemmia della nuova vigna, consegnò la caparra alla signora Nunzia che vendette loro la casa rateizzando il pattuito in cinque anni senza alcun interesse e tutto sulla parola. Quando Peppino sanguisuga passava a far visita alla mamma di Francesco, qualcuno lo avvertiva e lui aspettava che uscisse per potere abbracciare i suoi cari. Era odio? No! Era solo sdegno per un usurario!

La bambina passò a comunione, Francesco invitò i pochi parenti che aveva tranne la sanguisuga e sua moglie, ricordava bene che quando era passato lui a comunione, lo zio si era scusato della sua assenza, e tutto perché avrebbe dovuto fargli un regalino, sostenendo che compleanni, onomastici, battesimi e quant’altro andavano festeggiati solo con i genitori e nessun altro!

Il tempo passa, a volte anche velocemente, Francesco si guardò allo specchio e notò che le sue tempie si coloravano di bianco, ma il tempo passava pure per lo zio Peppino, sempre più ricco e sempre più avaro, e quando la pesantezza degli anni cominciò a farlo barcollare, a capo chino si rivolse al nipote.

- Francesco, ricordati che nelle nostre vene scorre lo stesso sangue, io sono il fratello di tua madre, tu non mi parli da tanti anni, io non ti ho fatto nulla, solo del bene, quando hai avuto di bisogno me li sono tolti dalla bocca i soldi per darli a te, certo tu mi hai reso quei soldi, ma sono stati la tua fortuna. Ti ho chiesto gli interessi? Nessuna banca da soldi senza interessi, poi sappi che gli interessi che mi hai dato sono quell’utile che mi serve per vivere. Ora sono anziano, non vecchio ma anziano, andare dal medico o in ospedale mi costa fatica, non possiedo un’automobile, non so guidarla e acquistarla sarebbe stato un pessimo investimento, costo, manutenzione, carburante, bollo e assicurazione, garage da impegnare, una perdita secca! Quei soldi non avrebbero mai dato utili! Chiedo a te, anche dietro ricompensa del costo del carburante, di accompagnarmi se ce ne sarà di bisogno.

Francesco non rispose, quell’uomo gli faceva solo pena, schiavo del suo denaro! Non era mai entrato in un bar la sanguisuga, tranne che qualcuno non lo invitasse a prendere un caffè, per paura che toccasse a lui andare alla cassa. Spesso si fermava davanti la vetrina del pasticciere, ammirava le torte, i dolci, i grandi vassoi con i cannoli, ma non si era degnato mai di entrare, acquistarne due per portarli a sua moglie, ormai assuefatta a quel vivere. La banca in cui depositava i suoi denari l’aveva di fronte a casa sua, dieci passi, quella era la sua seconda casa, la sua chiesa, il suo circolo ricreativo, e anche se non doveva fare operazioni entrava, si avvicinava alla cassa, chiedeva informazioni e, forse, respirava a pieni polmoni il puzzo nauseabondo del denaro! Un Lunedi mattino uscendo di casa Francesco vide suo zio sull’uscio della banca, ne usciva o forse stava entrando, lo vide portarsi una mano al cuore e lo vide barcollare. Gli corse incontro e lo sostenne, lo aiutò a sedersi su uno scalino, non gli usciva la voce a Peppino sanguisuga, quasi un rantolo, allora cercò di sbottonargli la camicia, di allargargli la cravatta, ma Peppino aveva quella mano inchiodata sul cuore, pensò ad una angina pectoris, ad un infarto, lo caricò in macchina e lo portò al pronto soccorso. Peppino non volle togliersi la giacca, non riuscirono i medici a staccarli la mano che pigiava forte sul cuore, ma diagnosticarono un forte dolore intercostale dovuto ad un raffreddore, gli diedero qualcosa e lo dimisero. Quella mano destra sembrava immobilizzata sul costato. Dopo qualche chilometro nella via di ritorno, Peppino sanguisuga, reclinato sul seggiolino sembrò sonnecchiare e il suo braccio perse la rigidezza e scivolò lentamente. La mano non sosteneva il costato, ma il suo portafoglio gonfio come un otre e un rotolo di fogli da centomila grosso più di un pugno. Perse i sensi Peppino e Francesco prelevò dalla tasca interna della giacca ottanta milioni di lire in cartamoneta di grosso taglio e vaglia cambiari al portatore, li intascò e si fece aiutare a scendere suo zio dall’auto, constatandone l’avvenuto decesso.

Quei soldi erano maledetti, erano stati rubati con l’usura ai poveretti di quel paese, tanti, tanti e per troppi anni. Il mattino dopo la inumazione di Peppino sanguisuga, Francesco, senza dir nulla ad alcuno, si recò all’orfanotrofio delle Servi dei Poveri, contattò la superiora e le affidò la somma inventandosi che il dono era nelle ultime volontà dello zio.

- Madre, pregate per la sua anima! Questi erano soldi dei poveri, prima di morire ha voluto renderli ai legittimi proprietari, ai poveri che assistite, agli orfani. Cristo regni!

- Sempre, figliolo!

Francesco tornò a casa, abbracciò sua figlia e sua moglie, ma non disse nulla di quanto aveva fatto.

La vedova della sanguisuga ereditò un paio di miliardi di lire e per la prima volta si comprò un abito decente e, quando chiamò il nipote per dargli un ricordo dello zio, un bel po’ di banconote, Francesco le rifiutò e la convinse a donarle alla casa di riposo per anziani, affinché i vecchietti potessero godere di un po’ di benessere.

Quando fu ultimata la tomba di Peppino Zecchi, la moglie la abbellì con una grande lastra di marmo di Carrara dove campeggiava in cima un angelo dalle grandi ali, davvero una imponente scultura! Sulla lapide un epitaffio bugiardo: “Qui giace Peppino Zecchi uomo buono e generoso”. Pochi giorni dopo, qualcuno volle rendere l’epitaffio  veritiero, aggiunse con gli stessi caratteri: Tutti lo conobbero bene come “la sanguisuga”. Nessuno mai cambiò quella lapide, anche la moglie l’accettò, Peppino anche per lei, in vita, non aveva mai lasciato spazio alla spesa per un mazzo di fiori, e lei ne depose mai su quella tomba!




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