Mario Scamardo
I Racconti del Borgo
Stelvio lo gnomo del Ponte di Calatrasi
“Fin dai tempi in cui la Storia gradatamente emerge dalle nebbie della Preistoria, le cause vere o presunte, o giustificative a posteriori della nascita di una città possono essere un “sogno” del capostipite, un “vaticinio” ottenuto nel Tempio, un “volo di uccelli” interpretato da un augure, il verdetto di un aruspice che scruta le “viscere” di un animale sacrificato, il “compimento” da parte dell’eroe di una profezia antica, il ritrovamento di una “bestia” eccezionale, cara a qualche dio, l’apparizione di una “divinità” “ex machina” che è compiacente a favorire l’avvenimento già scritto nel libro del Fato. Il meccanismo psico-sociologico è quasi uguale dappertutto e addirittura si ripete fino all’ossessione, come se non si volessero rendere noti i veri fatti storici, le vere cause. Ogni volta, la stirpe, il popolo che ha conquistato e fatto proprio un territorio qualsiasi, spiega l’avvenimento, frutto di guerre, di esodi e altri motivi non sempre nobili, con un mito edulcorato ed elaborato per dare migliore immagine di sé e giustificare l’ineluttabilità della propria presenza.
L’esempio più noto di questo meccanismo parabolico e leggendario è Troia, tanto che gli stessi dei, adopratisi per la sua nascita, devono intervenire (analogia magica a contrario) nel distruggerla... semplicemente per dare vita a un altro mito, quello della nascita di Roma, grazie all’arte di Omero e di Virgilio, fuse insieme per addomesticare la storia.
Senza dubbio, l’opera di avere inserito nella stessa trama fatti e leggende, per rivestire ogni volta di un’abito più prestigioso i vincitori a scapito dei vinti, non potè essere compiuta se non con la presenza di ottimi sarti, cioè gli aedi e i sacerdoti, e di ottime stoffe, cioè la mentalità del tempo, la difficoltà delle comunicazioni e il sostrato mito-religioso. Quindi, semplice adattamento analogico. Alla nascita della città si sovrappongono gli elementi mito-religiosi che hanno presieduto alla nascita del santuario, del tempio che la città ha inglobato. Il problema non è rinviato in questo modo, ma si può anzi avviare a soluzione.
Quattro pali piantati nel terreno e ricoperti di rami e foglie rappresentano per l’Umanità il distacco dalla caverna, forse solo la delimitazione di un territorio attraverso un mirabile, quasi divino, manufatto. Una cosa è la casa o un agglomerato di costruzioni, un’altra cosa è un luogo preposto a finalità religiose, cioè di ristabilimento di un legame tra terra e cielo.
La casa o l’agglomerato di costruzioni può essere visto come una vera e propria “cattedrale nel deserto”, inutile, se non per il proprietario, e destinata alla conquista e alla distruzione. Persino la possente Mohenjo Daro (4.000 a.C.) con le sue strade diritte, la sua rete fognaria, le sue mura altissime è stata ricoperta dalla terra e dal silenzio per millenni, eppure avrà sicuramente avuto reggia, tempio e organizzazione sociale. Solo che, distruttrice dell’ambiente circostante, per cuocere i mattoni delle sue case si dovettero abbattere gli alberi per un raggio di cinquanta chilometri attorno ad essa, è perita per motivi ecologici prima ancora che per la conquista da parte di altri.
La vita in quell’epoca, in Cina, in India, nell’Asia Minore e in Grecia, non si svolgeva nella città, ma nei campi. L’Egitto è la testimonianza più palese di quest’asserzione, benché l’opulenza e la civiltà legata alla reggia e ai templi possano superficialmente dare l’impressione contraria. Polibio racconta che Elide, fondata giuridicamente come “polis”, nel V secolo a.C. era un semplice punto di riferimento per gli Eleati, alcune famiglie dei quali avevano vissuto per generazioni senza accedere alla città. Le funzioni residenziali e commerciali degli agglomerati urbani non si sono mai confuse con i templi che sorgevano sulle alture ed erano destinati alle rappresentazioni liturgiche e alla conservazione del patrimonio religioso e culturale della città.
I principali racconti mitologici, tuttavia, ci hanno tramandato le cronache di fondazione di varie città, unitamente ai miti d’origine, in cui è descritto il modo in cui un certo atto fu istituito dagli antenati, o da eroi-semidei, o dagli stessi dei che li avevano a cuore. I racconti hanno sempre valore paradigmatico e le pratiche rituali determinano sovente la forma della città, da cui discende anche la sua struttura ad organizzazione, trasformandola così in un codice simbolico che dobbiamo sapere leggere.
Sappiamo che Alessandria fu fondata con orzo sparso al vento e secondo l’orientazione est-ovest; Antiochia fu fondata con grano sparso al vento; Thouroi nacque dove fu trovata una certa fonte prevista dall’oracolo; Messene fu rifondata dopo che sul Monte Ithome, in una fossa all’ombra di un mirto, fu ritrovata un’urna con l’antico rituale di fondazione ivi depositato da un antico re messenico; Alba sorge là dove fu trovata una scrofa bianca con i suoi porcellini; Tebe nacque laddove Cadmo si fermò dopo un inseguimento per miglia e miglia di una vacca; Nefelococciggia, infine fu la fantasiosa città descritta da Aristofane negli “Uccelli”.
Per quanto attiene alle forme della città, due sono le principali: il cerchio e il quadrato, che in Roma e nelle colonie, come pure nelle pianificazioni orientali a scacchiera ippodamea, possono essere presenti insieme in un significato di complementarietà, in forma di mandàla. Un cerchio inserito in un quadrato che unisce Terra e Cielo, divinità ctonie e spiriti dei defunti e divinità iraniche e spiriti dei semidei.
Il modello romano, centralizzato e accentratore, trae spunto da schemi e da rituali preesistenti italioti-etruschi, ripetuti incessantemente nei “castra” e nelle colonie in modo quasi totemico di cui si sono perse le motivazioni e, perciò, insostituibile. Diverso è il modello greco suddiviso in: “acropoli”, luogo alto, città alta, direttamente derivata dalle roccaforti micenee, e città bassa, dove ha sede la necropoli, schema che simboleggia un’organizzazione per differenze qualitative, come quello romano è struttura a spartizioni quantitative. Entrambi gli schemi sono trascrizioni dell’”imago mundi” religiosa, delle idee cosmogoniche e, per riflesso analogico, di organizzazione sociale e politica.
Analogamente a quanto stabilito dai “Libri Rituales” degli Etruschi sulla suddivisione del tempo in “saecula” per multipli di quattro (il “nomen etruscum” rappresenta un ciclo di otto secoli), vi è la concezione di uno spazio suddivisibile in una croce di strade. Queste sono il “cardo” e il “decumanus”, al cui incrocio sta il “mundus” rotondo o coperto con la rotonda “lapis manalis”, destinato a restare vuoto, a essere intangibile come il coperchio del “vaso di Pandora” e sul quale si stabiliscono strani tabù, ricorrenti ancor oggi nelle polemiche che in ogni città, si registrano a proposito del “centro storico”. In ogni caso, al centro sorge il “tabernaculum” e i templi degli dei.
Per i greci, il concetto del tempo è simile a quello etrusco-romano, con le quattro età e il mito dell’eterno ritorno, l’universo non è affatto una struttura, ma una gerarchia di potenze, perciò non può essere descritto (ne imitato) in termini di posizioni, di distanza, di movimento, perché i suoi aspetti spaziali esprimono non tanto proprietà geometriche, quanto differenze di funzioni, di valore, di rango. Da qui la forma disordinata delle città greche. Platone così descrive Atene: “anzi tutto l’Acropoli... Le parti posteriori, sotto i fianchi, erano abitate dagli operai e dagli agricoltori che coltivavano i campi vicino... le parti superiori le aveva occupate la classe militare per sé presso il tempio d’Atena e d’ Efesto dopo averle circondate d’una sola cinta, come l’orto di una sola famiglia”.
Le Mura e i Templi sono gli spazi sacri di ogni “urbs” o “polis” dell’antichità e, le prime come i secondi sono inviolabili per lo straniero. Un nemico che ne varchi l’ingresso ha già determinato analogicamente la disfatta della città e della stirpe che li ha eretti.
Un velo di magia circonda la nascita delle città. Calcoli astrologici, orientazione, cerimonie e inni non erano alla portata di tutti né si potevano compiere in un luogo o in un tempo qualsiasi. Perfino la cerimonia del nome segreto era circondato dal più fitto mistero inviolabile per i profani. Ma da tutto questo scaturisce la “segnatura” di quella città, di quella stirpe. E nome, carattere, destino si fondono in interazioni senza fine di cui la storia, non vede che l’aspetto esteriore.”
Tutto questo aveva ascoltato, con una pazienza da certosino e con interesse estremo Marcellino, dalla bocca dello gnomo Stelvio, era stata la lezione del giorno. Da tre anni, ogni mattino, lo gnomo aveva insegnato al ragazzo quanto avrebbe appreso se avesse avuto la possibilità di frequentare la scuola.
Marcellino, che aveva sette anni, viveva con i suoi genitori la vita di stenti dei contadini in una casa rurale molto vicina al corso d’acqua che passa sotto il Ponte di Calatrasi,[1] un ponte arabo a schiena d’asino che consente d’attraversare il fondo della valle ed arrivare al castello costruito sopra la Rocca di Maranfusa[2]. Il fiume giovane, nel tempo, aveva eroso il suo letto, portando a valle molti detriti, tanto che sulle due rive, sotto il ponte, si erano create due zone asciutte che guardavano a strapiombo nell’alveo. In una di queste c’era un piccolo anfratto, quasi inaccessibile, dove viveva lo gnomo Stelvio. Era un esserino non più alto di una spanna, con una barbetta folta, due piccole manine dai movimenti lesti e i suoi piedi erano infilati in due babbucce rosse che terminavano a punta. Vestiva un pantaloncino in panno marrone, una maglia di colore verde e su di essa un piccolo gilet rosso come il cappello a cono a larghe tese, dove in cima vi era attaccato un campanellino dal suono argentino. Marcellino e Stelvio erano diventati grandi amici e passavano tante ore insieme, seduti sotto il ponte a parlare, o meglio, ad interrogarsi a vicenda. Stelvio, con i suoi occhietti furbi e penetranti era molto colto e, cogliendo le curiosità di Marcellino e la sua grande voglia di apprendere, gli propinava il suo dotto sapere, stante che il bambino, vivendo in campagna ed avendo i genitori analfabeti, non poteva apprendere nulla che il vivere in una città avrebbe potuto dargli. In tutto ciò non era assente un pizzico dell’affascinante magia degli gnomi. Marcellino manteneva il segreto della sua amicizia con lo gnomo e non ne ebbe mai a parlarne con alcuno. Stelvio sapeva che il bambino non aveva mai visitato una città, aveva soltanto visto in lontananza, salendo sopra il ponte, un agglomerato di case e, paragonandolo con la sua, l’aveva trovato enorme, troppo grande per contenere una famigliola come la sua, formata da pochi elementi, due genitori, egli stesso, una capra, due mucche e un asino che il padre impiegava nel lavoro dei campi. Stelvio lo aveva abituato tanto ad un ascolto intelligente che Marcellino, quasi per incanto, recepiva tutto e ricordava ogni termine, ogni luogo, ogni personaggio citato e, quando il giorno dopo si rincontravano sotto il ponte, il ragazzo gli poneva un quesito per volta e immagazzinava le risposte nella sua testolina, accrescendo ogni giorno di più il suo sapere.
Un mattino Marcellino mancò all’appuntamento con lo gnomo, Stelvio lo aspettò per un po’ passeggiando davanti al suo piccolo anfratto ma poi, colto dal dubbio che il suo giovane amico fosse stato impedito da chissà quale evento, decise di andarlo a trovare. Lesto lo gnomo salì in cima al ponte, scrutò in fondo al viottolo che portava a casa del ragazzo, notò che i suoi genitori erano già nei campi a faticare, ed il camino fumava come se fosse stato mezzodì. Intraprese il cammino e si avvicinò alla finestra della cameretta del ragazzo. Era una vecchia casa di pietra con tanti buchi sulla facciata, traboccanti di paglie che i passeri vi deponevano per fabbricare i loro nidi, Stelvio scalò la parete e si pose sul davanzale della finestra, sbirciò all’interno e vide il bambino a letto. Saltò giù e si avvicinò alla porta appena accostata, diede un’occhiata in giro poi, entrò senza fare rumore. Il fuoco nel camino era acceso e un bollitore era posto accanto ad esso, mentre un gatto sonnecchiava sdraiato su un vello di montone posto a terra e una cocorita in una minuscola voliera sgusciava i semi di girasole. In punta di piedi lo gnomo entrò nella cameretta del bambino, i suoi occhi erano chiusi e le sue gote erano colorate come due mele mature, di un rosso scarlatto. Pensando di non svegliarlo, si pose a sedere su una piccola seggiola ai piedi del letto. – Stelvio – disse il bambino ad occhi chiusi, - so che sei qui, sei venuto a trovarmi, a farmi compagnia – lo gnomo si alzò, accostò la seggiola al capezzale di Marcellino, gli sfiorò la fronte e notò che era febbricitante, - dormi pure – gli disse - io sono venuto per stare insieme a te e, quando verrà la tua mamma non si accorgerà della mia presenza, lei non può vedermi. Noi gnomi possiamo essere visti solo da chi crede che esistiamo e non siamo frutto della fantasia della gente.- Marcellino si girò su un fianco e aprì gli occhi – sai Stelvio, hai fatto bene a venire, ti voglio raccontare quanto ho sognato questa notte. Non ti meravigliare, sono stato a Troia, tra guerrieri cimierati e principi che erano alla corte di Priamo, ho assistito ad alcune battaglie, alla morte di Ettore, al pianto di Ecuba, alla fine della guerra ed alla sua distruzione, ed ho visto nel tempo il depositarsi della polvere sui suoi resti. Poi, con te, in groppa ad un cavallo alato, sono andato in Cina, in India, in Grecia e a Roma, ma non quella dei Cesari, nella Roma di oggi, con la sua monumentalità antica e recente, con il suo traffico caotico, con le sue fontane ed i suoi campanili, con le sue strade talvolta larghissime e talvolta anguste, con i suoi negozi, le sue mille luci, i suoi profumi e la sua gente. A mille i bambini che si recavano a scuola e quelli più grandi all’università, e tu eri l’unico gnomo della città, grande, immensa, dove la vita è così come tu me l’hai descritta. Il nostro cavallo alato si posò in cima ad un palazzo nella città universitaria, e tu mi accompagnasti dentro un’aula immensa. Io guardai trasecolato, tra i banchi mi indicasti un giovane alto e robusto e mi dicesti: “sei tu quello studente, sei tu da grande”, ma quell’immagine svanì troppo presto e non ebbi il tempo di guardarmi in viso. Poi il mio sogno mi ha riportato indietro nel tempo, nella Roma imperiale, e poi a Tebe e Atene e l’Egitto dei faraoni, per poi riportarmi sotto il nostro ponte a riprendere i discorsi sulla evoluzione che il mondo ha avuto. – Marcellino tirò da sotto il cuscino il fazzoletto e soffiò il suo nasino. Stelvio lo carezzò e gli disse: - amico mio, i sogni sono qualcosa di irreale, è la fantasia dell’uomo che li costruisce, anche nell’inconscio di un sonno profondo, ma il tuo è un sogno particolare. Marcellino, non mi hai detto se sei stato contento di averti visto da grande dentro un’aula universitaria – il bambino sorrise e rispose: - ma certo che sono contento, pur sapendo che i sogni non ti portano da nessuna parte, il mio desiderio sarebbe quello di poter vivere realmente il mio sogno, ma ciò non potrà mai essere possibile. Questa casa è lontana dalle grandi città, i miei genitori vivono di stenti e l’unica fonte dell’apprendimento è il ponte, dove ci sei tu ed il tuo sapere. – Lo gnomo sorrise, lo carezzò ancora sulla fronte e poi gli disse: - ora sta per venire la mamma, io vado via, tornerò nella notte a farti compagnia, vedi, io ti ho spiegato un po’ la storia del mondo, non tutta, ma certamente quella che ti serviva per capire meglio. Il tuo sogno te l’ha fatta un po’ rivivere, essa è il complesso delle radici di tutta l’umanità, senza storia non c’è vita. Misero è colui che vuol vivere senza affondare le radici nella propria storia! – Guadagnò l’uscita e ritornò all’anfratto sotto il vecchio ponte.
Marcellino passò tre giorni a letto e quando la sua mamma non era al suo capezzale, Stelvio la sostituiva, continuando a parlare al ragazzo e dandogli tutte quelle nozioni che abbisognano ad uno scolaro della sua età.
Fu un mattino di giugno che lo gnomo, quasi impaziente, aspettò sul greto quasi asciutto del fiume Marcellino e, quando questi arrivò, gli disse: - Marcellino, oggi andremo su alla rocca di Maranfusa, ti porterò a visitare i resti dell’antico castello, sai, ormai l’anno scolastico è finito, nelle città le scuole sono chiuse e i ragazzi si godono il loro meritato periodo di riposo. - Il ragazzo accennò un sorriso, poi disse: - Stelvio, allora tu non mi insegnerai più nulla?... Io ho imparato a scrivere e a leggere, ho imparato a capire le logiche matematiche, so far di conto e conosco come è fatta la terra, i suoi movimenti... io desidero che tu continui a parlarmi ancora della storia, se smetto ho paura di dimenticare, io voglio ritornare a sognare le città, com’erano e come sono oggi, ma forse sei tu che sei stanco... - Lo gnomo sorrise, lo prese per mano e gli disse: - hai preso gusto ad imparare, più conosci e più vuoi conoscere, ma attento, anche il cervello ha bisogno di riposare, così come il corpo, alla stessa maniera, ed è per ciò che Iddio, dopo avere creato il cielo, la terra, le stelle, il sole, e tutte le altre cose del creato, il settimo giorno si riposò. La domenica gli uomini l’hanno scelto come il giorno del riposo, del ringraziamento a Dio per essere venuti al mondo, di vivere nella Sua grazia e rilassano sia le membra che il cervello. Anche tuo padre, la domenica la dedica ai lavoretti più leggeri, non ara e non zappa i campi, non fatica come gli altri giorni, si riposa per poi ripigliare il lunedì, in maniera più rilassata, quanto aveva interrotto il sabato. – Marcellino capì ed insieme cominciarono il cammino verso la rocca.
Giunti che furono davanti alle rovine del castello, sedettero su un sasso e riposarono un poco. Stelvio si tolse il cappello a cono di colore rosso, vi infilò dentro una manina, scrutò in fondo e tirò fuori una minuscola trottola, prese la mano di Marcellino e disse: - allargala a palmo in su – il ragazzo eseguì stupito, poi lo gnomo fece girare la trottola sul palmo di quella mano, ma questo procurò al giovinetto un po’ di solletico e cercò quindi di chiudere il pugno. – No, disse lo gnomo, non è nulla, è solo un pizzico di solletico, non chiudere la mano, lascia che la trottola finisca di girare. – Quando la trottola si fermò, la punta su cui aveva girato indicò una direzione e lo gnomo, riponendo il trastullo in fondo al suo cappello, disse a Marcellino: - la trottola ha compiuto settanta giri, quindi, faremo settanta passi nella direzione che ci ha indicato. – Percorsero i due la breve distanza e si trovarono davanti ad un enorme sasso dove sopra se ne stava a pigliare il sole un ranocchio, strano, non c’era acqua sul pianoro, un ranocchio in un posto asciutto doveva vivere male, giù sotto il ponte era pieno di rane, ed era naturale che vi fossero, ma sulla rocca non avrebbero dovuto essercene. Lo gnomo pigliò il ranocchio, se lo pose sul palmo della piccola mano e lo fissò per un paio di minuti. Il ranocchio emise prima degli strani suoni, poi, cominciò a parlare, davanti agli occhi stupiti di Marcellino. – Amici miei, sotto questo sasso c’è una piccola sfera di un materiale che sembra argilla, pigliatela e portatela giù nella valle, un vecchio mago l’ha realizzata imprimendole il potere di esaudire un solo desiderio, ma il mago era così buono che qualunque desiderio voi esprimiate, affinché si compia il miracolo, verrà preceduto da tutti gli eventi che saranno necessari. Stelvio sa dove portarla giù a valle, e sa dove riporla perché tutto si avveri. Portate pure me sul greto del fiume, affinché possa ritrovare la mia serenità, sono seicento anni che sto sopra questo sasso, ho visto passare tante primavere e tanti autunni, finalmente la sfera che ho avuto affidata servirà, una sola volta, per una causa meritevole. – Stelvio infilò il ranocchio nella tasca del suo minuscolo gilet e provò ad alzare il grosso sasso. Non fece alcuna fatica, come per incanto lo sollevò e lo scagliò lontano, poi, si chinò e raccolse la piccola sfera che sembrava d’argilla, la pose in mano a Marcellino e lo invitò a fare la via del ritorno.
Il ragazzo, durante il ritorno a valle non proferì parola, dimenticò il prodigio del ranocchio parlante e del grande sasso sollevato dal minuscolo gnomo e lanciato a lunga distanza, cercò di capire da solo cosa stava succedendo, ma malgrado la strada non fosse breve, non riuscì a pensare a qualcosa di concreto che potesse dipanare la sua matassa. Giunti all’ombra dell’arcata del ponte, Stelvio tirò fuori il ranocchio dalla tasca del suo gilet, si chinò fino al ciglio del fiume e disse: - siamo arrivati, ti ringrazio amico mio, l’uso che farò della sfera farà contento il vecchio mago, dovunque egli si trovi. Grazie per avermi dato la possibilità di esaudire un encomiabile desiderio. – Il ranocchio gracidò e lesto, con un guizzo guadagnò l’acqua e scomparve. Stelvio prese per mano Marcellino, lo portò sotto il ponte accanto al suo piccolo anfratto, lo fece guardare in alto verso la volta e gli fece notare un buco circolare, - è in quel buco che bisogna infilare la sfera, hanno la stessa circonferenza e, una volta infilata, scomparirà e diventerà parte del mattone dell’arcata. – Marcellino continuò a non capire e lo gnomo sapeva ciò, gli si pose davanti e gli disse: - figliolo, io so qual è il tuo più grande desiderio, quando ti sentirai pronto chiudi gli occhi e pensa intensamente a ciò che vuoi, io sistemerò la sfera nel buco e da quel momento si verificheranno tanti fatti che ti porteranno ad esaudire quanto tu desideri ardentemente. – Marcellino allora capì, pose nelle mani dello gnomo la sfera, chiuse gli occhi e disse: - sono pronto! – Lo gnomo scalò la parete del ponte, raggiunse la volta e sistemò la sfera nel buco, un attimo dopo la sfera si fuse nel mattone e lo gnomo si lasciò cadere dalla volta e, come se planasse, si posò accanto al ragazzo. – Ora puoi aprire gli occhi. – Il ragazzo aprì gli occhi e si ritrovò accanto Stelvio che man mano diventava più piccino, fino quasi a scomparire, sentì la sua vocina: - ci rivedremo un giorno, in una grande città, ma sarò solo io a riconoscerti, tu non potrai farlo, perché da adulto perderai la tua innocenza e dubiterai anche sulla mia esistenza. - Non si vide più Stelvio e Marcellino si guardò attorno e si avviò mesto verso casa.
Passarono giorni e settimane e un mattino si presentò un signore, in cappello a tese larghe, su una grande automobile rossa, scese, salutò i genitori di Marcellino che erano nell’aia e propose a suo padre di andare a lavorare a Palermo, a curare i giardini comunali. Il contadino si consultò con la moglie e dopo pochi giorni, quando ripassò il signore in cappello, accettò il lavoro. Vendette il suo campo, le sue mucche, l’asino e la capra e si spostò in città. Tutto andava per il verso giusto, Marcellino venne iscritto a scuola e gli insegnanti erano soddisfatti del suo celere apprendere, tanto che lo proposero per degli esami intermedi e lo promossero per la classe che era consone alla sua età anagrafica, la quarta elementare.
Nel tempo trovò lavoro pure la madre in una panetteria vicino casa, ed il reddito della famiglia si fece tale da consentire a Marcellino la frequenza all’università, egli voleva diventare un fisico. S’impegnò tanto il ragazzo e vinse una borsa di studio a Roma. Quando varcò la soglia dell’ateneo gli sembrò molto familiare quanto vedeva attorno a se, nei suoi ricordi c’erano quelle immagini, quei palazzi, ma soprattutto c’era quell’aula che aveva visto in sogno, allora ripensò a Stelvio e si commosse. Il suo desiderio era stato esaudito, ma ricordò le parole dello gnomo: “solo io ti riconoscerò, tu non potrai, perché avrai perso l’innocenza e dubiterai persino della mia esistenza.” In cattedra c’era un signore alto, robusto, con una barba fluente e tanti libri sul tavolo. Marcellino salì i gradini dell’emiciclo, quando arrivò a metà si guardò, aveva la stessa giacca del ragazzo che aveva visto nel sogno, gli stessi pantaloni, forse gli stessi libri sotto il braccio. Si sedette e ascoltò la lezione. L’austero signore che parlava lo affascinava e lo faceva tornare bambino e discepolo di Stelvio. La lezione era sul finire quando il vecchio docente si fermò e disse: - io sono su questa cattedra sollevata, voi su, tra i banchi, siamo separati. E’ come se un fiume giovane avesse eroso il suo greto e ci avesse lasciato su due pianori in rive opposte, il sapere non può avere ostacoli, bisogna poter passare dall’una all’altra sponda agevolmente per apprendere tutto quanto è necessario, occorrerebbe un ponte tra le rive, un ponte stabile, capace di permettere di trasferire il mio sapere a voi, un ponte che sa di antico, un ponte, come quello di Calatrasi, dove i desideri si possono trasformare in realtà. – Il saggio docente si fermò, raccolse i suoi libri, calzò il suo cappello e scomparve dietro l’uscio. Fuori dalla porta, un ranocchio saltellava per raggiungere un’aiuola. Marcellino era tornato ad essere edotto da Stelvio, ma, non l’aveva riconosciuto.
[1] Ponte arabo a schiena d’asino ad una campata realizzato su un ramo del fiume Belice, collegava la vecchia via Valeria alla Rocca di Maranfusa. Restaurato nel 1985 ad opera della Provincia Regionale di Palermo, è meta di visitatori.