giovedì 30 maggio 2013

LE AMANTI DEL RANNU - Racconto





Mario Scamardo



I RACCONTI DEL BORGO



Le amanti del Rannu



     Adalberto era il primo di quattro figli maschi che differivano in età di ventiquattro mesi ciascuno. I primi due erano nati nella terza decade in giugno, gli altri due nella prima decade di luglio. Adalberto era nato nella mezzanotte tra il ventuno ed il ventidue di giugno, in pieno solstizio d’estate, il sole si trovava alla sua massima declinazione e  sembrava apparentemente fermo sull'eclittica, non modificando la propria declinazione tra un giorno e il successivo. Quando alle elementari la sua maestra gli spiegò la particolarità del giorno della sua nascita, Adalberto si sentì importante, era nato il giorno con la maggiore quantità di luce, la massima insolazione e si  diede anche una spiegazione sul fatto che, rispetto ai suoi fratelli aveva una carnagione più bruna, quasi olivastra, tutta quella luce sin dalla sua nascita lo aveva abbronzato. I quattro fratellini erano affiatati tra loro, e imitando il fratello maggiore, erano venuti su tutti curiosi, facevano tante domande ed aspettavano pazientemente tutte le risposte, avendo cura di confrontarsi tra di loro e tirare poi le conclusioni.

     Adalberto da bambino aveva difficoltà nel pronunziare la lettera gi seguita dalla erre, per cui grata diventava rata, grosso diventava rosso e grande diventava rande, un piccolo problema ma che il bambino superava col suo mimare e col suo gesticolare, per la verità anche la vocale i era un suono a metà strada con la u. All’oratorio i fratellini andavano assieme, e quando il parroco chiedeva in dialetto al bambino: - Tu cu sì? (Tu chi sei?) Adalberto rispondeva: - U rannu ( il grande). Anche in dialetto la risposta avrebbe dovuto essere: U granni, ma quella gi che mancava, permise agli altri bambini di affibbiargli la ‘nciuria, il soprannome, per cui Adalberto perse il suo nome nel tempo e diventò solamente u rannu.

     Finite le elementari, don Ferdinando, suo padre, non essendoci in paese il ginnasio, lo mandò dai Salesiani a Palermo e gli fece fare le medie, quindi il ginnasio ed il liceo classico, conseguita la maturità lo accompagnò a casa di un suo amico medico e si fece consigliare in quale facoltà universitaria inscriverlo. Adalberto aveva imparato a pronunciare la lettera gi accompagnata dalla erre, parlava benissimo ed il suo italiano era perfetto. Fu proprio in casa dell’amico medico, che per la prima volta, si impose di scegliere lui la facoltà universitaria, spiegò le sue ragioni, i suoi desideri, i suoi obiettivi e col plauso prima del medico e conseguentemente del padre, decise che voleva fare il fisico. Cinque anni dopo ragionò la sua tesi, e fresco fresco  di laurea andò ad insegnare in un istituto tecnico.

     Adalberto finito il lavoro rincasava in paese a venti chilometri da casa sua, ma per tutti era sempre u rannu.

     Tre anni dopo convolò a nozze con una maestrina amica d’infanzia e l’anno successivo diventò padre di un maschietto. La sua famigliola era formata, la casetta in periferia gliela aveva regalata il suo papà, e per trentacinque anni la sua vita fu scuola e famiglia, qualche puntatina al circolo per una partitina a ramino o a scacchi e in periodo estivo, fatto il viaggio culturale di rito, spesso all’estero assieme alla famigliola, la grande casa di campagna di suo padre, riuniva tutti i fratelli con le loro famiglie.

     U ranno  a 58 anni andò in pensione; era un bell’uomo, le tempie brizzolate lo rendevano più interessante, possedeva il fascino della parola e non c’era stata collega di lavoro che non gli aveva ronzato attorno, ma Adalberto era un galantuomo, era innamoratissimo di sua moglie, della sua famiglia, che riteneva essere il più grande dei valori, aggirava l’ostacolo e faceva cadere con tatto e dignità la cosa. A u rannu piaceva dialogare, era anche un pizzico vanitoso, ed era sempre attorniato da donne che per un verso o per l’altro gli chiedevano consigli, gli esponevano anche fatti privati, si intrattenevano con lui anche per il piacere di stargli assieme, non disdegnava le attenzioni, elargiva consigli e moniti, ma poi ritornava a casa a godersi i suoi cari. Da pensionato tempo ne aveva da vendere ed essendo la moglie ancora in servizio, il tempo da dedicare alle chiacchere non gli mancava. In paese tutti lo rispettavano, ma tutti avevano il sospetto che fosse un “fimminaru” , un donnaiolo, e pur non avendo mai alcuno uno straccio di prova, tutti giuravano sul suo libertinaggio, a dire il vero più le donne che gli uomini. Adalberto aveva percepito ciò, ma non avendo mai dato possibilità ad alcuno di dimostrarlo, stette al gioco e non si curò mai di avvicinare una donna senza averla colmata prima di inchini, baciamano e sorrisi, di galanterie e complimenti. Più le donne erano brutte, più i complimenti si sprecavano, allora gli occhi diventavano luminosissimi, le mani diafane, le bellezze interiori si decuplicavano. Non era cattiveria quella di Adalberto, egli sosteneva che la donna più brutta del mondo era sempre più armonica di un uomo, e in ciò non aveva torto, e che fare un complimento ad una donna brutta era come regalarle un istante di felicità. Ogni tanto, le colleghe di sua moglie lanciavano una frecciatina:

 - stai attenta, troppe donne fanno la corte a tuo marito, tanto va la gatta al lardo…

La signora che conosceva bene Adalberto, accennava un sorriso e lasciava correre, qualche volta rispondeva con l’ironia che la contraddistingueva:

- Lasciatelo fare, dopo i sessanta speriamo porti una donna giovane a casa, mi aiuterebbe a stirare, spazzare e a rassettare in cucina.

     Un pomeriggio Adalberto pigliava il suo ultimo caffè della giornata al tavolinetto di un bar, proprio sotto il porticato. Una giovane e bella donna sui quaranta dal portamento elegante e dalla chioma biondo oro parcheggiò l’auto davanti al bar e sedette al suo tavolo, non era del luogo, qualche sguardo indiscreto degli astanti e qualche smorfia sui visi, come per dire: “ma guarda il professore che bella donna che ha accanto!” Imperterriti i due si misero a dialogare, poi salirono in macchina e scomparvero lungo il viale che porta sulla statale. La giovane ex collega, nubile, lo aveva contattato, forse era stata una delle poche che non gli aveva ronzato attorno, e la stima di Adalberto era tanta, altrimenti non si sarebbe mai scollato dalla sedia.

Gli incontri si ripeterono, sempre nello stesso bar, sempre una lunga passeggiata, sempre più lui ad ascoltare e lei a parlare. L’idea che fosse nato del tenero tra i due sembrava nelle cose. Adalberto che di solito era logorroico divenne quasi taciturno, e i loro incontri duravano ore od ore. La frase che girò subito in paese fu:

 -u rannu si è innamorato della bionda forestiera, ha perso la testa, povera moglie, come fa a non accorgersene?  L’uomo e quella fantastica donna, non si erano mai sfiorati con un dito, avevano ambedue la passione per l’arte e Palermo soddisfaceva a pieno la loro passione, ad ambedue piaceva la musica classica e passavano interi pomeriggi in macchina, in riva al mare, ad ascoltare brano dopo brano. Adalberto si era invaghito di quella donna? Nemmeno per sogno! Era solo affascinato dal suo carattere dolce, dalla sua sensibilità, dal suo essere bambina ad ogni costo, dalla sua cultura, nulla più di tanto, per lui era quasi diventata il mezzo per godere delle bellezze del creato, e quella musica ascoltata con lei, i loro commenti erano diventati il pane quotidiano.  Un pomeriggio all’ora dell’incontro al solito bar, la moglie arrivò d’improvviso e sedette al suo tavolo sotto il porticato, presero un caffè assieme e, stranamente la ragazza non si fece viva. Adalberto notò un turbamento nella sua compagna di vita, le chiese come mai fosse andata a trovarlo ed ebbe come risposta:

- Io vado a casa, se tu hai voglia di ritornare ne parleremo. Adalberto sulle prime non aveva capito, quasi quasi c’era rimasto male che la sua amica non era arrivata, perché avrebbe voluto presentargliela, poi, chiuse gli occhi, si alzò, prese sottobraccio la moglie:

 - Andiamo assieme a casa, passeremo dal pizzaiolo e ordineremo una pizza, il nostro figliolo è invitato a cena dai nonni.

     Ogni tentativo di spiegazione di Adalberto sortì l’effetto contrario, sua moglie non lo fece parlare, due ore d’inferno, le avevano telefonato in forma anonima decine di persone, poi tirò dalla borsetta una busta con un foglietto anonimo dove gli addossava orge giornaliere, erano annotati luoghi d’incontro, orari. La moglie, pur tentando di mantenere il decoro a cui era abituata, era ridotta senza voce, ed ogni volta che l’uomo accennava a dare spiegazioni, lei lo zittiva e ricominciava da capo. Sua moglie non era stata mai gelosa, o, quantomeno non aveva mai dato tale sensazione, e lui quando si parlava della gelosia, citando Giambattista Marino diceva: “del giardino d’amor loglio ed ortica”. Marcel Proust nel suo romanzo La prigioniera analizza i sentimenti umani più radicali quale l’amore e il senso di solitudine che si manifesta attraverso la gelosia. Adalberto, innamoratissimo della moglie, spasimante della sua famiglia, dà un taglio in maniera cortese al suo rapporto con l’amica, lo fa nella maniera più dolce tale da non farla soffrire, ma perde il sorriso e, soprattutto, non riesce a convincere sua moglie che nulla c’era mai stato con quella donna, oltre al dialogo. La moglie accecata pretende una confessione, oltre alle scuse. Cosa deve confessare u rannu non lo sa, nessuno lo avrebbe creduto, aveva perso, senza commettere nulla che andasse al di là di una irreprensibile condotta, la fiducia.

     Il freddo regnò in quella casa, il freddo di un orfanotrofio e Adalberto si ritrovò randagio in cerca di un padrone.

     Nessuno mai lo aveva visto col sorriso spento, tanto che suo figlio, trentenne ancora in casa, ignaro del vissuto, pensò che suo padre stesse male, così il sabato pomeriggio o la domenica mattina, lo caricava in macchina e lo portava con se in giro nell’intento di farlo svagare. Adalberto lo pregava di portarlo in riva al mare e gli parlava continuamente, non se la sentì mai di raccontargli tutto, lo amava troppo.

     Luisa, una amica della moglie, accolse il randagio, una donna intelligente che aveva capito tutto, che lo conosceva così bene e, forse, era stata segretamente innamorata di lui, riuscì a tirar fuori ogni cosa, e nel momento che cominciò a parlare Adalberto diventò un fiume in piena, non tralasciò una sola sillaba. Lei l’ascoltò con pazienza e, quando l’uomo finì il suo narrato, prese tra le mani il suo capo, lo poggiò al suo petto ed attese che u rannu finisse di piangere. Adalberto finalmente, dopo due anni di silenzio, aveva scaricato la sua rabbia, quel pianto liberatorio era servito ad alleggerire il peso che gli era stato posto sulle spalle, sentì quella presenza amica e presele le mani le poggiò sul suo viso quasi ad elemosinare una carezza. Luisa gli promise che avrebbe convinto sua moglie a ricredersi su quanto sospettato. Tornò a casa e attese speranzoso gli eventi, i giorni si susseguirono ai giorni e la cameretta dove dormiva diventò quasi la sua prigione, amava sua moglie, alla follia, le mancava, eppure vivevano sotto lo stesso tetto, l’unica cosa in comune era quel figliolo ormai grande, laureato, con un lavoro che lo faceva tornare a casa il venerdì sera e lo faceva ripartire all’alba del lunedì.

     Luisa un giorno lo chiamò, quasi senza voce, cercando le parole gli chiese:

 - Adalberto, tu ami ancora tua moglie?

Non esitò un attimo l’uomo:

- Si Luisa, lo sai, io non ho mai amato nessuna altra donna,  per lei da ragazzo ho fatto pazzie, le rifarei oggi, fino all’ultimo respiro.

Luisa prese le sue mani, le strinse forte, poi gli disse:

- Sei disposto a fare un sacrificio, forse il più terribile che si può chiedere ad un essere umano…

- Son pronto a fare qualunque cosa.

- Io so che tu non hai mai tradito tua moglie, sono l’unica ad averne certezza.

- E allora? Cosa devo fare.

- Devi dire una bugia a tua moglie, una grande bugia, forse impossibile anche da dire.

- Una bugia?

- Si Adalberto, devi ammettere di avere avuto rapporti con quella tua ex collega bionda, devi ammettere di essere stato il suo amante.

- Ma non posso! Non ho mai detto una bugia a mia moglie, mi sentirei male, io l’amo!

- Adalberto, noi donne siamo molto strane, tua moglie non è diversa. Il dubbio l’attanaglierebbe tutta la vita, una confessione, anche se falsa, le darebbe la pace che cerca anche lei e la farebbe apparire a se stessa magnanima, capace del perdono. Ricorda Adalberto, il dubbio è una cosa legittima, il sospetto è la cosa più deprecabile, perché non è mai l’anticamera della verità, altresì è l’anticamera della tragedia. Lo so che è contro natura accusarsi di qualcosa che non si è commesso, talvolta lo fanno i genitori per evitare pene ai figli. Per l’Islam il peccato fondamentale è l’orgoglio umano, ma anche per il Cristianesimo e l’Ebraismo, esso è deprecabile e spesso non siamo in grado di appenderlo ad un chiodo assieme alle nostre passioni.

     Dopo notti tormentate, su suggerimento di Luisa, con un cuore d’asino ed uno di leone, u rannu  affrontò il supplizio di confessare quanto non aveva commesso, “subì” il perdono della moglie, ritornò a dormire nella sua camera da letto e a sentirsi dire cosa preferisse per pranzo o cena. Adalberto non ritrovò mai più il suo sorriso, se ne stampò a forza uno finto sulle labbra  e, tutte le volte che incontrò una delle sue vecchie conoscenze ripetè:

- Non ti faccio un complimento, quelli si fanno alle sceme e alle brutte, tu non sei né l’una, né l’altra!

    Un mattino Adalberto  con la moglie accompagnarono il loro figliolo all’altare, tutti i suoi sogni si erano compiuti.

     Incontrò Luisa davanti al supermercato un giorno u rannu, le strinse le mani e le disse:

 - Tu sola conosci la verità, tu sola mi hai creduto, tu sola forse, e non vorrei peccare dinnanzi a Dio, mi hai amato nel silenzio, io non ho potuto darti nulla, solo la mia stima. Io ho amato solo lei, mia moglie, per tutti rimarrò sempre un grande seduttore, ancora per tempo si parlerà delle amanti di Adalberto u rannu. Un uomo nasce, cresce, gioca, impara, discerne, insegna, io ho vissuto l’ultimo atto, ho visto mio figlio crearsi una famiglia, come vedi c’è un tempo per tutte le cose, e quando tutto è compiuto, c’è anche un tempo per morire.

Strinse ancora fortemente le mani della donna, si chinò da quel galantuomo che era e le baciò ambedue.

     Quando l’aurora del giorno dopo squarciò le tenebre, Adalberto si mise in macchina, giunse in riva al mare, infilò un cd di musica classica e l’ascoltò, così come era solito fare con la sua ex collega bionda, poi reclinò il capo, socchiuse gli occhi e …consegnò, al rumor della risacca, la sua anima al Creatore.







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mercoledì 15 maggio 2013

CUCU' E IL GIARDINO DEI SENTIMENTI
















L'amore dei genitori verso i figli è incommensurabile, quello dei figli verso i genitori tende a subire metamorfosi!






(Tratto da “IL FAVOLIERE”- Cucù e le sue storie- di Mario Scamardo e Sara Riolo ed.Ila palma)



CUCU’ E IL GIARDINO DEI SENTIMENTI



     Nella buona provincia siciliana era difficile cercare qualcuno col proprio nome e cognome; talvolta, non bastava averne l’indirizzo o conoscere tutta la parentela, si brancolava nel buio, si perdeva il proprio tempo, spesso si rinunciava. C’era solo un modo per non perdere tempo a cercare qualcuno: conoscere il suo soprannome, in dialetto a ‘nciuria. Nomignolo affibbiato chissà con quale motivazione ma che nascondeva spesso piccole e curiose realtà al limite dell’inverosimile. A Trapani, per esempio, ancora oggi, pur chiamandosi Giacalone, alcune famiglie hanno il soprannome di stivali di ferru, altre spara frati, altre ancora affuca sardi. A Termini Imerese i Diodato vengono appellati, alcuni carcarazzi, altri strascinati, altri ancora quattro culi, poi esistono nomignoli di ogni fatta, le fantasie si sono sbizzarrite e ritroviamo ancora oggi: scarpi scionti nel nisseno, in quanto il capo famiglia, negli anni passati, dimenticava spesso di annodare le stringhe delle scarpe, quindi, per generazioni, i discendenti saranno figli di scarpi scionti, il fratello di scarpi scionti, la nipote di scarpi scionti; indipendentemente dal nome e cognome che il soggetto porta, quello sarà il suo nome per gli atti ufficiali; la società, per generazioni, riconoscerà i membri di quella famiglia come scarpi scionti. Ad Alcamo troviamo: cardinali, affibbiato a un chierichetto che aveva calzato il tricorno del suo parroco, e poi funcia, perché qualcuno aveva le labbra un po’ più pronunciate, paracqua vecchiu, perché andava in giro con un ombrello malconcio, lampia, perché apriva e chiudeva spesso le palpebre, o, forse perché aveva un tic all’occhio, papanova, perché la sua mamma, dopo un periodo di vedovanza, si era risposata e gli aveva dato un nuovo papà, e tante e tante altre ‘nciurii da poterne fare delle raccolte.



     A Piana degli Albanesi, un comune dell’entroterra palermitano, c’era Cucù, il nomignolo che si portò dietro tutta la vita glielo aveva affibbiato una bambina che, osservando il suo profilo, lo aveva assimilato a quello di un’aquila, e più lo guardava più se lo ripeteva, fino a quando non lo chiamò in pubblico, era piccina, parlava a malapena ed esclamò: <<Signor Cucù, Signor Cucù>>; l’uomo si girò e le sorrise, poi, chissà perché, fece il verso del cucù degli orologi. I bambini sorrisero e Nicolina, in grembiulino rosa e occhietti neri e furbi, gli andò incontro e gli disse: <<Ripeti, signor Cucù.>> L’uomo rifece il verso dell’orologio, ma da quel momento il suo nome fu Cucù, ed i suoi figli divennero i figli di Cucù, pure sua moglie perse il suo cognome e divenne per tutti donna Cucù.

     Il signor Cucù era un uomo semplice, buono, comprensivo, talvolta fino alla commozione, ed era da tutti benvoluto, possedeva quella cultura contadina che lo caratterizzava come sapiente, e quanto di saggio gli veniva per tradizione orale tramandato, diventava suo patrimonio ed egli si preoccupava di trasferirlo ai posteri facendolo rientrare nelle storie che raccontava, d’inverno attorno al fuoco e d’estate fuori dalla porta di casa, al tepore della brezza, alla luce bianca della luna, a quel vicinato che spesso era fatto di persone care, di rapporti senza interessi di sorta, di calore umano che lo faceva apprezzare talvolta più delle stesse parentele carnali.

     Se una sera, per una ragione qualsiasi il signor Cucù non narrava, il vicinato tutto soffriva, e soprattutto ai bambini veniva a mancare la fiaba che li mandasse a letto.

     Il signor Cucù era contadino e conosceva bene il suo mondo. Una sera volle iniziare il racconto di un contadino suo amico, anche se più grande di lui, che era già passato all’altra vita.

     <<<C’era una volta un contadino,>>> così iniziò, <<<che possedeva una bella casa in mezzo a un giardino che, oltre ad avere tanti alberi da frutto aveva magnifici roseti, variopinte aiuole, ricche fontane d’acqua. Le erbe d’intorno erano olezzanti tanto che i grilli e le cicale rimanevano silenti per inebriarsi del loro profumo. Lungo i viali c’erano fitte siepi di rosmarino e mirtilli, dove si intravedevano le paglie nuove dei nidi di cardellino e si udiva il pigolare degli implumi che, a bocca aperta, aspettavano le loro madri. Don Carmelo, così si chiamava il contadino, aveva sempre vissuto nel suo giardino assieme alla moglie e ai suoi due figli, e prima di lui, là, in quel posto di sogno, erano vissuti suo padre e suo nonno. Da quella terra don Carmelo aveva tratto di che vivere lui con la sua famiglia, e non si era risparmiato per niente nel lavoro, bagnando la terra col suo sudore. Iddio lo aveva sempre premiato, facendo sì che il suo giardino producesse i frutti più belli e fosse sempre carico. Non si era fatto mancare niente don Carmelo, aveva coltivato le piante più strane: corbezzoli, azzeruoli, melograni, sorbi, carrubi, cotogni e nespole d’inverno, così era possibile conservare il ricordo dei sapori antichi, e far sì che i figli lo tramandassero, e con esso, la cultura dei padri che era sapienza. Della frutta di ogni albero aveva sempre mandato un cesto alla mia famiglia,>>> disse il signor Cucù, <<<ed uno lo aveva sempre mandato alle suore del convento di Santa Chiara. Sembrava che le sue mani fossero magiche, anche se callose e segnate dal tempo, appena toccava una pianta, la stessa diventava più rigogliosa, e quando gli si chiedeva il perché, don Carmelo sorrideva e diceva: “Le piante sono come i figli, se le allevi e le educhi bene ti danno soddisfazione, altrimenti non crescono, rinsecchiscono, perdono le foglie e diventano sterpi. La terra va amata, tutto proviene dalla terra e tutto alla terra deve ritornare, si, come l’uomo, che spesso perde la ragione, perde il buon senso, si monta la testa, diventa superbo e dimentica che è soltanto un impasto di polvere, quindi, destinato a ritornare nella polvere.”>>>

     Quando il signor Cucù raccontava, coinvolgeva gli astanti e spesso si fermava, conscio della sua capacità di novellatore, per ribadire che sovente qualcuno gli dava dell’ignorante, senza rendersi conto che sbagliava in questo azzardato giudizio, in quanto, secondo lui, la scuola era un mezzo per imparare, ma non il solo mezzo; ci voleva una grande capacità d’ascolto e la voglia di immagazzinare nel cervello tutta la saggezza dei vecchi. Cucù si difendeva dall’accusa di ignorante e attaccava, sostenendo di avere frequentato per ben tre volte la prima classe della scuola elementare, ed aveva interrotto gli studi per lavorare col padre nei campi e per portare al pascolo una capra e mezza dozzina di pecore, così diceva: <<Al mattino uscivo di casa col buio per andare nei campi, alla sera rincasavo col buio, ma con tutta la voglia di imparare che avevo, la sera la scuola era già chiusa e, quindi, non potei frequentarla.>>

     Dopo lo sfogo non richiesto, il signor Cucù ripigliò il racconto prima interrotto.

     <<< Don Carmelo aveva due figli, un maschio ed una femmina, ambedue avevano avuto la possibilità di andare a scuola, avevano frequentato l’università e si erano laureati, il maschio era diventato un bravo chimico, la femmina si era laureata in farmacia. Don Carmelo, abituato a vederseli crescere sotto gli occhi, questi figli, era diventato sempre più ansioso e insofferente da quando questi ragazzi, che abitavano in città, ritornavano nella villa del padre, dentro quel giardino curato e ubertoso da sembrare l’Eden, prima ogni settimana, poi ogni quindici giorni. Poi le settimane diventarono più di tre e quattro e cinque, e il sabato sera e la domenica il vecchio agricoltore e la moglie saltavano cena e pranzo, accontentandosi di un bicchiere di latte e qualche buona frutta; man mano, erano sempre più demotivati e la donna non preparava più manicaretti.

     Pur diventando don Carmelo sempre più vecchio, il giardino non perdeva mai la sua rigogliosità: i frutti pendevano lucidi dai rami e i fiori olezzavano. Don Carmelo si sentì per la prima volta solo, le visite dei figli, ormai sposati, si contavano in un anno sulle dita di una mano, la signora passava ore ed ore seduta davanti al grande scalone a guardare il cancello, chissà, forse in attesa che qualcuno battesse all’inferriata e la chiamasse mamma o nonna.

     Un mattino il vecchio contadino raccolse un bel cesto di frutta, lo coprì con un foglio di carta, si lavò le mani, calzò il suo cappello di paglia a tese larghe e si avviò verso il cancello, lo varcò e lo richiuse dietro di sé. A breve distanza dal giardino c’era il convento delle clarisse, ormai liberate dal voto della clausura, e all’interno l’orfanotrofio. Non c’erano molti bambini, una ventina tra maschi e femmine, e il più grande non superava i sette anni. Don Carmelo, giunto che fu davanti al portone, posò a terra il cesto di frutta, si tolse il cappello e diede un strattone alla corda della campana che avvertiva le suore che qualcuno era alla porta. Una suora magrissima dagli occhi luminosi fece accomodare il visitatore, lo accompagnò in una grande sala con le porte a vetri che lasciavano intravedere il cortile dove i bambini giocavano su un prato ben curato. Nell’attesa che arrivasse la badessa, don Carmelo piazzò il naso sulla grande vetrata e lo staccò solo quando entrò la madre superiora. I due parlarono per pochi minuti, poi don Carmelo salutò e si avviò verso casa.



     In un angolo del giardino, proprio dietro un grosso albero di ulivo, c’era un melograno nano; dai rami sempre coperti di foglie, contro ogni legge di natura, e i fiori color corallo non erano mai diventati frutti, come per incanto, per il melograno nano era sempre primavera. Don Carmelo aveva ritenuto tutto ciò un prodigio della natura, e da quel melograno subiva il fascino dell’eterna giovinezza, ma soprattutto subiva lo stimolo a far si che tutto il giardino fosse curato sempre da sembrar primavera.

     Un mattino don Carmelo e sua moglie si sedettero comodi all’ombra di una siepe di gelsomino davanti all’enorme scalone di casa, quando, tra le sbarre del cancello, cominciarono a brillare gli occhietti dei venti orfanelli ospiti delle clarisse, accompagnati dalla badessa e dalla suora magrissima dalle pupille luminose.



     I due vecchi si guardarono negli occhi, si alzarono ed andarono incontro ai bambini, apersero il cancello e li guidarono per il giardino, invitandoli a mangiare tutta la frutta che potevano raccogliere. Lei entrò in casa, mise sul fuoco un grande bollitore pieno di latte, imbandì una lunga tavola e tirò fuori gli ultimi biscotti che aveva preparato per i suoi ragazzi, poi sedette con i bimbi e le suore e sorbì assieme a loro una buona cioccolata. Don Carmelo volle che i piccoli ospiti rimanessero a pranzo e sembrò, assieme a sua moglie, diventare più arzillo. Di lì a poco, prese per mano il più piccolo dei bambini e lo condusse dietro il vecchio ulivo.

     Abbozzò un sorriso e carezzò il capo del bimbo, poi disse: “Vedi questo melograno? Sembra avere sfidato tutte le leggi della natura, è sempre carico di foglie tenere e verdi e di fiori carnosi color corallo, è stato per la mia famiglia il simbolo della vita, dell’amore e del bene, lo abbiamo curato, concimato, irrorato e, qualche volta, pur senza proferire parola, abbiamo parlato con lui e, passandogli davanti, abbiamo ammirato la sua bellezza e abbiamo sempre sorriso. Mio padre lo piantò lo stesso giorno in cui sono venuto al mondo, tanti anni fa, ma in esso è impossibile leggere l’età. Io sono stato come lui, fino a quando i miei figli avevano la tua età, non mi sono mai accorto che passavano gli autunni e gli inverni, poi, man mano che i miei figli sono diventati adulti, li ho visti sempre meno e non voglio nemmeno preoccuparmi di capirne il perché, però ho avuto più tempo per guardarmi attorno e per avere contezza che sono diventato come gli altri alberi, normale, con tutti i cicli vegetativi, ed ho vissuto tutte le stagioni. Ora, io e te, io e voi bimbi, viviamo la stessa sofferenza, siamo orfani, ci manca qualcuno e soffriamo della stessa freddezza, voi soffrite la mancanza dei genitori, io soffro la mancanza dei figli, essi sono una parte di me che è andata via, così come i vostri genitori sono una parte importante di voi che non c’è più.”

     Don Carmelo accompagnò il bambino assieme agli altri che giocavano nel viale, poi entrò nel fienile, prelevò un grosso seracco, si recò dietro il vecchio ulivo e cominciò a segare il tronco del melograno nano. Gli occhi del vecchio agricoltore si inumidirono, poi puntò lo sguardo verso il cancello e lo fissò a lungo, e così fece tutte le mattine assieme a sua moglie, seduti davanti al grande scalone, aspettando che qualcuno battesse all’inferriata.



     Un giorno si sentì lo stridere delle cerniere arrugginite del cancello, che venne spalancato. Entrò una carrozza cigolante tirata da quattro morelli, bardati in gualdrappa nera bordata in oro, e il ritmo degli zoccoli sul selciato venne intercalato dal battere anticipato di un ferro allentato di uno dei cavalli. Il cocchiere indossava una mantella nera e una enorme feluca piumata in giallo, che lo faceva sembrare un ufficiale della marina di Sua Maestà Britannica. Sopra la carrozza una bara: il vecchio aveva chiuso gli occhi per sempre. Dietro l’inferriata, attaccati alle sbarre, i venti orfanelli erano venuti a dare l’ultimo saluto a don Carmelo, e quando un passante chiese al più piccino chi fosse morto, il bimbo rispose: “E’ morto un amico, il più vecchio degli orfanelli di questa città. Già nel suo giardino dei sentimenti vanno cadendo tutte le foglie!”



     Il signor Cucù finì così la sua storia e non volle, come era solito fare, cavarne la morale. Ognuno di noi è orfano di affetti, e sembra destino che più amore si profonde agli altri, meno se ne riceve… Citando il comandamento “onora il padre e la madre”, il signor Cucù non pretese di essere ascoltato.

 Malgrado il suo profilo d’aquila che gli avrebbe consentito un carattere rapace, era la bontà fatta persona, carico di contadina saggezza fatta di detti, proverbi, aneddoti, piccole storie vissute, carico di tanto carisma al punto da far sentire la gente a lui vicina, pronto a trovare rimedi, anche tra le erbe, per alleviare piccole sofferenze, o costruire un discorso rasserenante nei momenti di sconforto. E dire che Cucù, era appena alfabetizzato, rozzo, non rude, e ispirava tanto sentimento.

Nel campicello di don Carmelo, quello che più attecchiva, era la pianta della comprensione. D’altra parte l’amore dei genitori per i figli è sconfinato; al contrario, quello dei figli per i genitori tende nel tempo a metamorfosi, facendo sì che anche i giardini più belli, senza la magia del melograno sempre in fiore, diventino sterpaglia.




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