L'amore dei genitori verso i figli è incommensurabile, quello dei figli verso i genitori tende a subire metamorfosi!
(Tratto da “IL FAVOLIERE”- Cucù e
le sue storie- di Mario Scamardo e Sara Riolo ed.Ila palma)
CUCU’ E IL GIARDINO DEI
SENTIMENTI
Nella buona
provincia siciliana era difficile cercare qualcuno col proprio nome e cognome;
talvolta, non bastava averne l’indirizzo o conoscere tutta la parentela, si
brancolava nel buio, si perdeva il proprio tempo, spesso si rinunciava. C’era
solo un modo per non perdere tempo a cercare qualcuno: conoscere il suo
soprannome, in dialetto a ‘nciuria.
Nomignolo affibbiato chissà con quale motivazione ma che nascondeva spesso
piccole e curiose realtà al limite dell’inverosimile. A Trapani, per esempio,
ancora oggi, pur chiamandosi Giacalone, alcune famiglie hanno il soprannome di stivali di ferru, altre spara frati, altre ancora affuca sardi. A Termini Imerese i
Diodato vengono appellati, alcuni carcarazzi,
altri strascinati, altri ancora quattro culi, poi esistono nomignoli di
ogni fatta, le fantasie si sono sbizzarrite e ritroviamo ancora oggi: scarpi scionti nel nisseno, in quanto il
capo famiglia, negli anni passati, dimenticava spesso di annodare le stringhe
delle scarpe, quindi, per generazioni, i discendenti saranno figli di scarpi scionti, il fratello di scarpi scionti, la nipote di scarpi scionti; indipendentemente dal
nome e cognome che il soggetto porta, quello sarà il suo nome per gli atti ufficiali;
la società, per generazioni, riconoscerà i membri di quella famiglia come scarpi scionti. Ad Alcamo troviamo: cardinali, affibbiato a un chierichetto
che aveva calzato il tricorno del suo parroco, e poi funcia, perché qualcuno aveva le labbra un po’ più pronunciate, paracqua vecchiu, perché andava in giro
con un ombrello malconcio, lampia, perché
apriva e chiudeva spesso le palpebre, o, forse perché aveva un tic all’occhio, papanova, perché la sua mamma, dopo un
periodo di vedovanza, si era risposata e gli aveva dato un nuovo papà, e tante
e tante altre ‘nciurii da poterne
fare delle raccolte.
A Piana degli
Albanesi, un comune dell’entroterra palermitano, c’era Cucù, il nomignolo che si portò dietro tutta la vita glielo aveva
affibbiato una bambina che, osservando il suo profilo, lo aveva assimilato a
quello di un’aquila, e più lo guardava più se lo ripeteva, fino a quando non lo
chiamò in pubblico, era piccina, parlava a malapena ed esclamò: <<Signor
Cucù, Signor Cucù>>; l’uomo si girò e le sorrise, poi, chissà perché,
fece il verso del cucù degli orologi. I bambini sorrisero e Nicolina, in
grembiulino rosa e occhietti neri e furbi, gli andò incontro e gli disse:
<<Ripeti, signor Cucù.>> L’uomo rifece il verso dell’orologio, ma
da quel momento il suo nome fu Cucù,
ed i suoi figli divennero i figli di Cucù,
pure sua moglie perse il suo cognome e divenne per tutti donna Cucù.
Il signor Cucù era un uomo semplice, buono,
comprensivo, talvolta fino alla commozione, ed era da tutti benvoluto,
possedeva quella cultura contadina che lo caratterizzava come sapiente, e
quanto di saggio gli veniva per tradizione orale tramandato, diventava suo
patrimonio ed egli si preoccupava di trasferirlo ai posteri facendolo rientrare
nelle storie che raccontava, d’inverno attorno al fuoco e d’estate fuori dalla
porta di casa, al tepore della brezza, alla luce bianca della luna, a quel
vicinato che spesso era fatto di persone care, di rapporti senza interessi di
sorta, di calore umano che lo faceva apprezzare talvolta più delle stesse
parentele carnali.
Se una sera, per
una ragione qualsiasi il signor Cucù
non narrava, il vicinato tutto soffriva, e soprattutto ai bambini veniva a
mancare la fiaba che li mandasse a letto.
Il signor Cucù era contadino e conosceva bene il
suo mondo. Una sera volle iniziare il racconto di un contadino suo amico, anche
se più grande di lui, che era già passato all’altra vita.
<<<C’era
una volta un contadino,>>> così iniziò, <<<che possedeva una
bella casa in mezzo a un giardino che, oltre ad avere tanti alberi da frutto
aveva magnifici roseti, variopinte aiuole, ricche fontane d’acqua. Le erbe d’intorno
erano olezzanti tanto che i grilli e le cicale rimanevano silenti per
inebriarsi del loro profumo. Lungo i viali c’erano fitte siepi di rosmarino e
mirtilli, dove si intravedevano le paglie nuove dei nidi di cardellino e si
udiva il pigolare degli implumi che, a bocca aperta, aspettavano le loro madri.
Don Carmelo, così si chiamava il contadino, aveva sempre vissuto nel suo
giardino assieme alla moglie e ai suoi due figli, e prima di lui, là, in quel
posto di sogno, erano vissuti suo padre e suo nonno. Da quella terra don
Carmelo aveva tratto di che vivere lui con la sua famiglia, e non si era
risparmiato per niente nel lavoro, bagnando la terra col suo sudore. Iddio lo
aveva sempre premiato, facendo sì che il suo giardino producesse i frutti più
belli e fosse sempre carico. Non si era fatto mancare niente don Carmelo, aveva
coltivato le piante più strane: corbezzoli, azzeruoli, melograni, sorbi,
carrubi, cotogni e nespole d’inverno, così era possibile conservare il ricordo
dei sapori antichi, e far sì che i figli lo tramandassero, e con esso, la
cultura dei padri che era sapienza. Della frutta di ogni albero aveva sempre
mandato un cesto alla mia famiglia,>>> disse il signor Cucù, <<<ed uno lo aveva sempre
mandato alle suore del convento di Santa Chiara. Sembrava che le sue mani
fossero magiche, anche se callose e segnate dal tempo, appena toccava una
pianta, la stessa diventava più rigogliosa, e quando gli si chiedeva il perché,
don Carmelo sorrideva e diceva: “Le piante sono come i figli, se le allevi e le
educhi bene ti danno soddisfazione, altrimenti non crescono, rinsecchiscono,
perdono le foglie e diventano sterpi. La terra va amata, tutto proviene dalla
terra e tutto alla terra deve ritornare, si, come l’uomo, che spesso perde la
ragione, perde il buon senso, si monta la testa, diventa superbo e dimentica
che è soltanto un impasto di polvere, quindi, destinato a ritornare nella
polvere.”>>>
Quando il signor Cucù raccontava, coinvolgeva gli astanti
e spesso si fermava, conscio della sua capacità di novellatore, per ribadire
che sovente qualcuno gli dava dell’ignorante, senza rendersi conto che
sbagliava in questo azzardato giudizio, in quanto, secondo lui, la scuola era
un mezzo per imparare, ma non il solo mezzo; ci voleva una grande capacità d’ascolto
e la voglia di immagazzinare nel cervello tutta la saggezza dei vecchi. Cucù si difendeva dall’accusa di
ignorante e attaccava, sostenendo di avere frequentato per ben tre volte la
prima classe della scuola elementare, ed aveva interrotto gli studi per
lavorare col padre nei campi e per portare al pascolo una capra e mezza dozzina
di pecore, così diceva: <<Al mattino uscivo di casa col buio per andare
nei campi, alla sera rincasavo col buio, ma con tutta la voglia di imparare che
avevo, la sera la scuola era già chiusa e, quindi, non potei
frequentarla.>>
Dopo lo sfogo non
richiesto, il signor Cucù ripigliò il
racconto prima interrotto.
<<< Don
Carmelo aveva due figli, un maschio ed una femmina, ambedue avevano avuto la
possibilità di andare a scuola, avevano frequentato l’università e si erano
laureati, il maschio era diventato un bravo chimico, la femmina si era laureata
in farmacia. Don Carmelo, abituato a vederseli crescere sotto gli occhi, questi
figli, era diventato sempre più ansioso e insofferente da quando questi
ragazzi, che abitavano in città, ritornavano nella villa del padre, dentro quel
giardino curato e ubertoso da sembrare l’Eden, prima ogni settimana, poi ogni
quindici giorni. Poi le settimane diventarono più di tre e quattro e cinque, e
il sabato sera e la domenica il vecchio agricoltore e la moglie saltavano cena
e pranzo, accontentandosi di un bicchiere di latte e qualche buona frutta; man
mano, erano sempre più demotivati e la donna non preparava più manicaretti.
Pur diventando don
Carmelo sempre più vecchio, il giardino non perdeva mai la sua rigogliosità: i
frutti pendevano lucidi dai rami e i fiori olezzavano. Don Carmelo si sentì per
la prima volta solo, le visite dei figli, ormai sposati, si contavano in un
anno sulle dita di una mano, la signora passava ore ed ore seduta davanti al
grande scalone a guardare il cancello, chissà, forse in attesa che qualcuno
battesse all’inferriata e la chiamasse mamma o nonna.
Un mattino il
vecchio contadino raccolse un bel cesto di frutta, lo coprì con un foglio di
carta, si lavò le mani, calzò il suo cappello di paglia a tese larghe e si
avviò verso il cancello, lo varcò e lo richiuse dietro di sé. A breve distanza
dal giardino c’era il convento delle clarisse, ormai liberate dal voto della
clausura, e all’interno l’orfanotrofio. Non c’erano molti bambini, una ventina
tra maschi e femmine, e il più grande non superava i sette anni. Don Carmelo,
giunto che fu davanti al portone, posò a terra il cesto di frutta, si tolse il
cappello e diede un strattone alla corda della campana che avvertiva le suore
che qualcuno era alla porta. Una suora magrissima dagli occhi luminosi fece
accomodare il visitatore, lo accompagnò in una grande sala con le porte a vetri
che lasciavano intravedere il cortile dove i bambini giocavano su un prato ben
curato. Nell’attesa che arrivasse la badessa, don Carmelo piazzò il naso sulla
grande vetrata e lo staccò solo quando entrò la madre superiora. I due
parlarono per pochi minuti, poi don Carmelo salutò e si avviò verso casa.
In un angolo del
giardino, proprio dietro un grosso albero di ulivo, c’era un melograno nano;
dai rami sempre coperti di foglie, contro ogni legge di natura, e i fiori color
corallo non erano mai diventati frutti, come per incanto, per il melograno nano
era sempre primavera. Don Carmelo aveva ritenuto tutto ciò un prodigio della
natura, e da quel melograno subiva il fascino dell’eterna giovinezza, ma
soprattutto subiva lo stimolo a far si che tutto il giardino fosse curato
sempre da sembrar primavera.
Un mattino don
Carmelo e sua moglie si sedettero comodi all’ombra di una siepe di gelsomino
davanti all’enorme scalone di casa, quando, tra le sbarre del cancello,
cominciarono a brillare gli occhietti dei venti orfanelli ospiti delle
clarisse, accompagnati dalla badessa e dalla suora magrissima dalle pupille
luminose.
I due vecchi si
guardarono negli occhi, si alzarono ed andarono incontro ai bambini, apersero
il cancello e li guidarono per il giardino, invitandoli a mangiare tutta la
frutta che potevano raccogliere. Lei entrò in casa, mise sul fuoco un grande
bollitore pieno di latte, imbandì una lunga tavola e tirò fuori gli ultimi
biscotti che aveva preparato per i suoi ragazzi, poi sedette con i bimbi e le
suore e sorbì assieme a loro una buona cioccolata. Don Carmelo volle che i
piccoli ospiti rimanessero a pranzo e sembrò, assieme a sua moglie, diventare
più arzillo. Di lì a poco, prese per mano il più piccolo dei bambini e lo
condusse dietro il vecchio ulivo.
Abbozzò un sorriso
e carezzò il capo del bimbo, poi disse: “Vedi questo melograno? Sembra avere
sfidato tutte le leggi della natura, è sempre carico di foglie tenere e verdi e
di fiori carnosi color corallo, è stato per la mia famiglia il simbolo della
vita, dell’amore e del bene, lo abbiamo curato, concimato, irrorato e, qualche
volta, pur senza proferire parola, abbiamo parlato con lui e, passandogli
davanti, abbiamo ammirato la sua bellezza e abbiamo sempre sorriso. Mio padre
lo piantò lo stesso giorno in cui sono venuto al mondo, tanti anni fa, ma in
esso è impossibile leggere l’età. Io sono stato come lui, fino a quando i miei
figli avevano la tua età, non mi sono mai accorto che passavano gli autunni e
gli inverni, poi, man mano che i miei figli sono diventati adulti, li ho visti
sempre meno e non voglio nemmeno preoccuparmi di capirne il perché, però ho
avuto più tempo per guardarmi attorno e per avere contezza che sono diventato
come gli altri alberi, normale, con tutti i cicli vegetativi, ed ho vissuto
tutte le stagioni. Ora, io e te, io e voi bimbi, viviamo la stessa sofferenza,
siamo orfani, ci manca qualcuno e soffriamo della stessa freddezza, voi
soffrite la mancanza dei genitori, io soffro la mancanza dei figli, essi sono
una parte di me che è andata via, così come i vostri genitori sono una parte
importante di voi che non c’è più.”
Don Carmelo accompagnò
il bambino assieme agli altri che giocavano nel viale, poi entrò nel fienile,
prelevò un grosso seracco, si recò dietro il vecchio ulivo e cominciò a segare
il tronco del melograno nano. Gli occhi del vecchio agricoltore si inumidirono,
poi puntò lo sguardo verso il cancello e lo fissò a lungo, e così fece tutte le
mattine assieme a sua moglie, seduti davanti al grande scalone, aspettando che
qualcuno battesse all’inferriata.
Un giorno si sentì
lo stridere delle cerniere arrugginite del cancello, che venne spalancato. Entrò
una carrozza cigolante tirata da quattro morelli, bardati in gualdrappa nera
bordata in oro, e il ritmo degli zoccoli sul selciato venne intercalato dal
battere anticipato di un ferro allentato di uno dei cavalli. Il cocchiere
indossava una mantella nera e una enorme feluca piumata in giallo, che lo
faceva sembrare un ufficiale della marina di Sua Maestà Britannica. Sopra la
carrozza una bara: il vecchio aveva chiuso gli occhi per sempre. Dietro l’inferriata,
attaccati alle sbarre, i venti orfanelli erano venuti a dare l’ultimo saluto a
don Carmelo, e quando un passante chiese al più piccino chi fosse morto, il
bimbo rispose: “E’ morto un amico, il più vecchio degli orfanelli di questa
città. Già nel suo giardino dei sentimenti vanno cadendo tutte le foglie!”
Il signor Cucù finì così la sua storia e non
volle, come era solito fare, cavarne la morale. Ognuno di noi è orfano di
affetti, e sembra destino che più amore si profonde agli altri, meno se ne
riceve… Citando il comandamento “onora il padre e la madre”, il signor Cucù non pretese di essere ascoltato.
Malgrado il suo
profilo d’aquila che gli avrebbe consentito un carattere rapace, era la bontà
fatta persona, carico di contadina saggezza fatta di detti, proverbi, aneddoti,
piccole storie vissute, carico di tanto carisma al punto da far sentire la
gente a lui vicina, pronto a trovare rimedi, anche tra le erbe, per alleviare
piccole sofferenze, o costruire un discorso rasserenante nei momenti di
sconforto. E dire che Cucù, era
appena alfabetizzato, rozzo, non rude, e ispirava tanto sentimento.
Nel campicello di don Carmelo, quello che più attecchiva, era
la pianta della comprensione. D’altra parte l’amore dei genitori per i figli è
sconfinato; al contrario, quello dei figli per i genitori tende nel tempo a
metamorfosi, facendo sì che anche i giardini più belli, senza la magia del
melograno sempre in fiore, diventino sterpaglia.
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Che atoria bellissima, raccontata con amore e passione. COMPLIMENTISSIMI! Bravo!!!
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