Mario Scamardo
I RACCONTI DEL BORGO
Le amanti del Rannu
Adalberto era il primo di quattro figli maschi che differivano in età
di ventiquattro mesi ciascuno. I primi due erano nati nella terza decade in
giugno, gli altri due nella prima decade di luglio. Adalberto era nato nella
mezzanotte tra il ventuno ed il ventidue di giugno, in pieno solstizio
d’estate, il sole si trovava alla sua massima declinazione e sembrava apparentemente fermo sull'eclittica,
non modificando la propria declinazione tra un giorno e il successivo. Quando
alle elementari la sua maestra gli spiegò la particolarità del giorno della sua
nascita, Adalberto si sentì importante, era nato il giorno con la maggiore
quantità di luce, la massima insolazione e si
diede anche una spiegazione sul fatto che, rispetto ai suoi fratelli
aveva una carnagione più bruna, quasi olivastra, tutta quella luce sin dalla
sua nascita lo aveva abbronzato. I quattro fratellini erano affiatati tra loro,
e imitando il fratello maggiore, erano venuti su tutti curiosi, facevano tante
domande ed aspettavano pazientemente tutte le risposte, avendo cura di
confrontarsi tra di loro e tirare poi le conclusioni.
Adalberto da bambino aveva difficoltà nel
pronunziare la lettera gi seguita dalla erre, per cui grata diventava rata,
grosso diventava rosso e grande diventava rande, un piccolo problema ma che il
bambino superava col suo mimare e col suo gesticolare, per la verità anche la
vocale i era un suono a metà strada con la u. All’oratorio i fratellini
andavano assieme, e quando il parroco chiedeva in dialetto al bambino: - Tu cu
sì? (Tu chi sei?) Adalberto rispondeva: - U rannu ( il grande). Anche in
dialetto la risposta avrebbe dovuto essere: U granni, ma quella gi che mancava,
permise agli altri bambini di affibbiargli la ‘nciuria, il soprannome, per cui Adalberto perse il suo nome nel
tempo e diventò solamente u rannu.
Finite le elementari, don Ferdinando, suo
padre, non essendoci in paese il ginnasio, lo mandò dai Salesiani a Palermo e
gli fece fare le medie, quindi il ginnasio ed il liceo classico, conseguita la
maturità lo accompagnò a casa di un suo amico medico e si fece consigliare in
quale facoltà universitaria inscriverlo. Adalberto aveva imparato a pronunciare
la lettera gi accompagnata dalla erre, parlava benissimo ed il suo italiano era
perfetto. Fu proprio in casa dell’amico medico, che per la prima volta, si
impose di scegliere lui la facoltà universitaria, spiegò le sue ragioni, i suoi
desideri, i suoi obiettivi e col plauso prima del medico e conseguentemente del
padre, decise che voleva fare il fisico. Cinque anni dopo ragionò la sua tesi,
e fresco fresco di laurea andò ad
insegnare in un istituto tecnico.
Adalberto finito il lavoro rincasava in
paese a venti chilometri da casa sua, ma per tutti era sempre u rannu.
Tre anni dopo convolò a nozze con una
maestrina amica d’infanzia e l’anno successivo diventò padre di un maschietto.
La sua famigliola era formata, la casetta in periferia gliela aveva regalata il
suo papà, e per trentacinque anni la sua vita fu scuola e famiglia, qualche
puntatina al circolo per una partitina a ramino o a scacchi e in periodo
estivo, fatto il viaggio culturale di rito, spesso all’estero assieme alla
famigliola, la grande casa di campagna di suo padre, riuniva tutti i fratelli
con le loro famiglie.
U
ranno a 58 anni andò in pensione; era
un bell’uomo, le tempie brizzolate lo rendevano più interessante, possedeva il
fascino della parola e non c’era stata collega di lavoro che non gli aveva
ronzato attorno, ma Adalberto era un galantuomo, era innamoratissimo di sua
moglie, della sua famiglia, che riteneva essere il più grande dei valori,
aggirava l’ostacolo e faceva cadere con tatto e dignità la cosa. A u rannu piaceva dialogare, era anche un
pizzico vanitoso, ed era sempre attorniato da donne che per un verso o per
l’altro gli chiedevano consigli, gli esponevano anche fatti privati, si
intrattenevano con lui anche per il piacere di stargli assieme, non disdegnava
le attenzioni, elargiva consigli e moniti, ma poi ritornava a casa a godersi i
suoi cari. Da pensionato tempo ne aveva da vendere ed essendo la moglie ancora
in servizio, il tempo da dedicare alle chiacchere non gli mancava. In paese
tutti lo rispettavano, ma tutti avevano il sospetto che fosse un “fimminaru” , un donnaiolo, e pur non
avendo mai alcuno uno straccio di prova, tutti giuravano sul suo libertinaggio,
a dire il vero più le donne che gli uomini. Adalberto aveva percepito ciò, ma
non avendo mai dato possibilità ad alcuno di dimostrarlo, stette al gioco e non
si curò mai di avvicinare una donna senza averla colmata prima di inchini,
baciamano e sorrisi, di galanterie e complimenti. Più le donne erano brutte,
più i complimenti si sprecavano, allora gli occhi diventavano luminosissimi, le
mani diafane, le bellezze interiori si decuplicavano. Non era cattiveria quella
di Adalberto, egli sosteneva che la donna più brutta del mondo era sempre più
armonica di un uomo, e in ciò non aveva torto, e che fare un complimento ad una
donna brutta era come regalarle un istante di felicità. Ogni tanto, le colleghe
di sua moglie lanciavano una frecciatina:
- stai attenta, troppe donne fanno la corte a
tuo marito, tanto va la gatta al lardo…
La
signora che conosceva bene Adalberto, accennava un sorriso e lasciava correre,
qualche volta rispondeva con l’ironia che la contraddistingueva:
-
Lasciatelo fare, dopo i sessanta speriamo porti una donna giovane a casa, mi
aiuterebbe a stirare, spazzare e a rassettare in cucina.
Un pomeriggio Adalberto pigliava il suo
ultimo caffè della giornata al tavolinetto di un bar, proprio sotto il
porticato. Una giovane e bella donna sui quaranta dal portamento elegante e
dalla chioma biondo oro parcheggiò l’auto davanti al bar e sedette al suo
tavolo, non era del luogo, qualche sguardo indiscreto degli astanti e qualche
smorfia sui visi, come per dire: “ma guarda il professore che bella donna che
ha accanto!” Imperterriti i due si misero a dialogare, poi salirono in macchina
e scomparvero lungo il viale che porta sulla statale. La giovane ex collega,
nubile, lo aveva contattato, forse era stata una delle poche che non gli aveva
ronzato attorno, e la stima di Adalberto era tanta, altrimenti non si sarebbe
mai scollato dalla sedia.
Gli
incontri si ripeterono, sempre nello stesso bar, sempre una lunga passeggiata,
sempre più lui ad ascoltare e lei a parlare. L’idea che fosse nato del tenero
tra i due sembrava nelle cose. Adalberto che di solito era logorroico divenne
quasi taciturno, e i loro incontri duravano ore od ore. La frase che girò
subito in paese fu:
-u rannu
si è innamorato della bionda forestiera, ha perso la testa, povera moglie, come
fa a non accorgersene? L’uomo e quella
fantastica donna, non si erano mai sfiorati con un dito, avevano ambedue la
passione per l’arte e Palermo soddisfaceva a pieno la loro passione, ad ambedue
piaceva la musica classica e passavano interi pomeriggi in macchina, in riva al
mare, ad ascoltare brano dopo brano. Adalberto si era invaghito di quella
donna? Nemmeno per sogno! Era solo affascinato dal suo carattere dolce, dalla
sua sensibilità, dal suo essere bambina ad ogni costo, dalla sua cultura, nulla
più di tanto, per lui era quasi diventata il mezzo per godere delle bellezze
del creato, e quella musica ascoltata con lei, i loro commenti erano diventati
il pane quotidiano. Un pomeriggio
all’ora dell’incontro al solito bar, la moglie arrivò d’improvviso e sedette al
suo tavolo sotto il porticato, presero un caffè assieme e, stranamente la
ragazza non si fece viva. Adalberto notò un turbamento nella sua compagna di
vita, le chiese come mai fosse andata a trovarlo ed ebbe come risposta:
- Io
vado a casa, se tu hai voglia di ritornare ne parleremo. Adalberto sulle prime
non aveva capito, quasi quasi c’era rimasto male che la sua amica non era
arrivata, perché avrebbe voluto presentargliela, poi, chiuse gli occhi, si
alzò, prese sottobraccio la moglie:
- Andiamo assieme a casa, passeremo dal
pizzaiolo e ordineremo una pizza, il nostro figliolo è invitato a cena dai
nonni.
Ogni tentativo di spiegazione di Adalberto
sortì l’effetto contrario, sua moglie non lo fece parlare, due ore d’inferno,
le avevano telefonato in forma anonima decine di persone, poi tirò dalla
borsetta una busta con un foglietto anonimo dove gli addossava orge giornaliere,
erano annotati luoghi d’incontro, orari. La moglie, pur tentando di mantenere
il decoro a cui era abituata, era ridotta senza voce, ed ogni volta che l’uomo
accennava a dare spiegazioni, lei lo zittiva e ricominciava da capo. Sua moglie
non era stata mai gelosa, o, quantomeno non aveva mai dato tale sensazione, e
lui quando si parlava della gelosia, citando Giambattista Marino diceva: “del
giardino d’amor loglio ed ortica”. Marcel Proust nel suo romanzo La prigioniera analizza i sentimenti
umani più radicali quale l’amore e il senso di solitudine che si manifesta
attraverso la gelosia. Adalberto, innamoratissimo della moglie, spasimante
della sua famiglia, dà un taglio in maniera cortese al suo rapporto con
l’amica, lo fa nella maniera più dolce tale da non farla soffrire, ma perde il
sorriso e, soprattutto, non riesce a convincere sua moglie che nulla c’era mai
stato con quella donna, oltre al dialogo. La moglie accecata pretende una
confessione, oltre alle scuse. Cosa deve confessare u rannu non lo sa, nessuno lo avrebbe creduto, aveva perso, senza
commettere nulla che andasse al di là di una irreprensibile condotta, la
fiducia.
Il freddo regnò in quella casa, il freddo
di un orfanotrofio e Adalberto si ritrovò randagio in cerca di un padrone.
Nessuno mai lo aveva visto col sorriso
spento, tanto che suo figlio, trentenne ancora in casa, ignaro del vissuto,
pensò che suo padre stesse male, così il sabato pomeriggio o la domenica
mattina, lo caricava in macchina e lo portava con se in giro nell’intento di
farlo svagare. Adalberto lo pregava di portarlo in riva al mare e gli parlava
continuamente, non se la sentì mai di raccontargli tutto, lo amava troppo.
Luisa, una amica della moglie, accolse il
randagio, una donna intelligente che aveva capito tutto, che lo conosceva così
bene e, forse, era stata segretamente innamorata di lui, riuscì a tirar fuori
ogni cosa, e nel momento che cominciò a parlare Adalberto diventò un fiume in
piena, non tralasciò una sola sillaba. Lei l’ascoltò con pazienza e, quando
l’uomo finì il suo narrato, prese tra le mani il suo capo, lo poggiò al suo
petto ed attese che u rannu finisse
di piangere. Adalberto finalmente, dopo due anni di silenzio, aveva scaricato la
sua rabbia, quel pianto liberatorio era servito ad alleggerire il peso che gli
era stato posto sulle spalle, sentì quella presenza amica e presele le mani le
poggiò sul suo viso quasi ad elemosinare una carezza. Luisa gli promise che
avrebbe convinto sua moglie a ricredersi su quanto sospettato. Tornò a casa e
attese speranzoso gli eventi, i giorni si susseguirono ai giorni e la cameretta
dove dormiva diventò quasi la sua prigione, amava sua moglie, alla follia, le
mancava, eppure vivevano sotto lo stesso tetto, l’unica cosa in comune era quel
figliolo ormai grande, laureato, con un lavoro che lo faceva tornare a casa il
venerdì sera e lo faceva ripartire all’alba del lunedì.
Luisa un giorno lo chiamò, quasi senza
voce, cercando le parole gli chiese:
- Adalberto, tu ami ancora tua moglie?
Non
esitò un attimo l’uomo:
- Si
Luisa, lo sai, io non ho mai amato nessuna altra donna, per lei da ragazzo ho fatto pazzie, le
rifarei oggi, fino all’ultimo respiro.
Luisa
prese le sue mani, le strinse forte, poi gli disse:
- Sei
disposto a fare un sacrificio, forse il più terribile che si può chiedere ad un
essere umano…
- Son
pronto a fare qualunque cosa.
- Io
so che tu non hai mai tradito tua moglie, sono l’unica ad averne certezza.
- E
allora? Cosa devo fare.
- Devi
dire una bugia a tua moglie, una grande bugia, forse impossibile anche da dire.
- Una
bugia?
- Si
Adalberto, devi ammettere di avere avuto rapporti con quella tua ex collega
bionda, devi ammettere di essere stato il suo amante.
- Ma
non posso! Non ho mai detto una bugia a mia moglie, mi sentirei male, io l’amo!
-
Adalberto, noi donne siamo molto strane, tua moglie non è diversa. Il dubbio
l’attanaglierebbe tutta la vita, una confessione, anche se falsa, le darebbe la
pace che cerca anche lei e la farebbe apparire a se stessa magnanima, capace
del perdono. Ricorda Adalberto, il dubbio è una cosa legittima, il sospetto è
la cosa più deprecabile, perché non è mai l’anticamera della verità, altresì è
l’anticamera della tragedia. Lo so che è contro natura accusarsi di qualcosa
che non si è commesso, talvolta lo fanno i genitori per evitare pene ai figli.
Per l’Islam il peccato fondamentale è l’orgoglio umano, ma anche per il
Cristianesimo e l’Ebraismo, esso è deprecabile e spesso non siamo in grado di
appenderlo ad un chiodo assieme alle nostre passioni.
Dopo notti tormentate, su suggerimento di
Luisa, con un cuore d’asino ed uno di leone, u rannu affrontò il
supplizio di confessare quanto non aveva commesso, “subì” il perdono della
moglie, ritornò a dormire nella sua camera da letto e a sentirsi dire cosa
preferisse per pranzo o cena. Adalberto non ritrovò mai più il suo sorriso, se
ne stampò a forza uno finto sulle labbra e, tutte le volte che incontrò una delle sue
vecchie conoscenze ripetè:
- Non
ti faccio un complimento, quelli si fanno alle sceme e alle brutte, tu non sei
né l’una, né l’altra!
Un mattino Adalberto con la moglie accompagnarono il loro figliolo
all’altare, tutti i suoi sogni si erano compiuti.
Incontrò Luisa davanti al supermercato un
giorno u rannu, le strinse le mani e
le disse:
- Tu sola conosci la verità, tu sola mi hai
creduto, tu sola forse, e non vorrei peccare dinnanzi a Dio, mi hai amato nel
silenzio, io non ho potuto darti nulla, solo la mia stima. Io ho amato solo
lei, mia moglie, per tutti rimarrò sempre un grande seduttore, ancora per tempo
si parlerà delle amanti di Adalberto u
rannu. Un uomo nasce, cresce, gioca, impara, discerne, insegna, io ho
vissuto l’ultimo atto, ho visto mio figlio crearsi una famiglia, come vedi c’è
un tempo per tutte le cose, e quando tutto è compiuto, c’è anche un tempo per
morire.
Strinse
ancora fortemente le mani della donna, si chinò da quel galantuomo che era e le
baciò ambedue.
Quando l’aurora del giorno dopo squarciò
le tenebre, Adalberto si mise in macchina, giunse in riva al mare, infilò un cd
di musica classica e l’ascoltò, così come era solito fare con la sua ex collega
bionda, poi reclinò il capo, socchiuse gli occhi e …consegnò, al rumor della
risacca, la sua anima al Creatore.
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ma che splendida storia....noi donne siamo proprio particolari...un sorriso
RispondiEliminaLe persone che non hanno fiducia non meritano di essere amate
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