giovedì 30 maggio 2013

LE AMANTI DEL RANNU - Racconto





Mario Scamardo



I RACCONTI DEL BORGO



Le amanti del Rannu



     Adalberto era il primo di quattro figli maschi che differivano in età di ventiquattro mesi ciascuno. I primi due erano nati nella terza decade in giugno, gli altri due nella prima decade di luglio. Adalberto era nato nella mezzanotte tra il ventuno ed il ventidue di giugno, in pieno solstizio d’estate, il sole si trovava alla sua massima declinazione e  sembrava apparentemente fermo sull'eclittica, non modificando la propria declinazione tra un giorno e il successivo. Quando alle elementari la sua maestra gli spiegò la particolarità del giorno della sua nascita, Adalberto si sentì importante, era nato il giorno con la maggiore quantità di luce, la massima insolazione e si  diede anche una spiegazione sul fatto che, rispetto ai suoi fratelli aveva una carnagione più bruna, quasi olivastra, tutta quella luce sin dalla sua nascita lo aveva abbronzato. I quattro fratellini erano affiatati tra loro, e imitando il fratello maggiore, erano venuti su tutti curiosi, facevano tante domande ed aspettavano pazientemente tutte le risposte, avendo cura di confrontarsi tra di loro e tirare poi le conclusioni.

     Adalberto da bambino aveva difficoltà nel pronunziare la lettera gi seguita dalla erre, per cui grata diventava rata, grosso diventava rosso e grande diventava rande, un piccolo problema ma che il bambino superava col suo mimare e col suo gesticolare, per la verità anche la vocale i era un suono a metà strada con la u. All’oratorio i fratellini andavano assieme, e quando il parroco chiedeva in dialetto al bambino: - Tu cu sì? (Tu chi sei?) Adalberto rispondeva: - U rannu ( il grande). Anche in dialetto la risposta avrebbe dovuto essere: U granni, ma quella gi che mancava, permise agli altri bambini di affibbiargli la ‘nciuria, il soprannome, per cui Adalberto perse il suo nome nel tempo e diventò solamente u rannu.

     Finite le elementari, don Ferdinando, suo padre, non essendoci in paese il ginnasio, lo mandò dai Salesiani a Palermo e gli fece fare le medie, quindi il ginnasio ed il liceo classico, conseguita la maturità lo accompagnò a casa di un suo amico medico e si fece consigliare in quale facoltà universitaria inscriverlo. Adalberto aveva imparato a pronunciare la lettera gi accompagnata dalla erre, parlava benissimo ed il suo italiano era perfetto. Fu proprio in casa dell’amico medico, che per la prima volta, si impose di scegliere lui la facoltà universitaria, spiegò le sue ragioni, i suoi desideri, i suoi obiettivi e col plauso prima del medico e conseguentemente del padre, decise che voleva fare il fisico. Cinque anni dopo ragionò la sua tesi, e fresco fresco  di laurea andò ad insegnare in un istituto tecnico.

     Adalberto finito il lavoro rincasava in paese a venti chilometri da casa sua, ma per tutti era sempre u rannu.

     Tre anni dopo convolò a nozze con una maestrina amica d’infanzia e l’anno successivo diventò padre di un maschietto. La sua famigliola era formata, la casetta in periferia gliela aveva regalata il suo papà, e per trentacinque anni la sua vita fu scuola e famiglia, qualche puntatina al circolo per una partitina a ramino o a scacchi e in periodo estivo, fatto il viaggio culturale di rito, spesso all’estero assieme alla famigliola, la grande casa di campagna di suo padre, riuniva tutti i fratelli con le loro famiglie.

     U ranno  a 58 anni andò in pensione; era un bell’uomo, le tempie brizzolate lo rendevano più interessante, possedeva il fascino della parola e non c’era stata collega di lavoro che non gli aveva ronzato attorno, ma Adalberto era un galantuomo, era innamoratissimo di sua moglie, della sua famiglia, che riteneva essere il più grande dei valori, aggirava l’ostacolo e faceva cadere con tatto e dignità la cosa. A u rannu piaceva dialogare, era anche un pizzico vanitoso, ed era sempre attorniato da donne che per un verso o per l’altro gli chiedevano consigli, gli esponevano anche fatti privati, si intrattenevano con lui anche per il piacere di stargli assieme, non disdegnava le attenzioni, elargiva consigli e moniti, ma poi ritornava a casa a godersi i suoi cari. Da pensionato tempo ne aveva da vendere ed essendo la moglie ancora in servizio, il tempo da dedicare alle chiacchere non gli mancava. In paese tutti lo rispettavano, ma tutti avevano il sospetto che fosse un “fimminaru” , un donnaiolo, e pur non avendo mai alcuno uno straccio di prova, tutti giuravano sul suo libertinaggio, a dire il vero più le donne che gli uomini. Adalberto aveva percepito ciò, ma non avendo mai dato possibilità ad alcuno di dimostrarlo, stette al gioco e non si curò mai di avvicinare una donna senza averla colmata prima di inchini, baciamano e sorrisi, di galanterie e complimenti. Più le donne erano brutte, più i complimenti si sprecavano, allora gli occhi diventavano luminosissimi, le mani diafane, le bellezze interiori si decuplicavano. Non era cattiveria quella di Adalberto, egli sosteneva che la donna più brutta del mondo era sempre più armonica di un uomo, e in ciò non aveva torto, e che fare un complimento ad una donna brutta era come regalarle un istante di felicità. Ogni tanto, le colleghe di sua moglie lanciavano una frecciatina:

 - stai attenta, troppe donne fanno la corte a tuo marito, tanto va la gatta al lardo…

La signora che conosceva bene Adalberto, accennava un sorriso e lasciava correre, qualche volta rispondeva con l’ironia che la contraddistingueva:

- Lasciatelo fare, dopo i sessanta speriamo porti una donna giovane a casa, mi aiuterebbe a stirare, spazzare e a rassettare in cucina.

     Un pomeriggio Adalberto pigliava il suo ultimo caffè della giornata al tavolinetto di un bar, proprio sotto il porticato. Una giovane e bella donna sui quaranta dal portamento elegante e dalla chioma biondo oro parcheggiò l’auto davanti al bar e sedette al suo tavolo, non era del luogo, qualche sguardo indiscreto degli astanti e qualche smorfia sui visi, come per dire: “ma guarda il professore che bella donna che ha accanto!” Imperterriti i due si misero a dialogare, poi salirono in macchina e scomparvero lungo il viale che porta sulla statale. La giovane ex collega, nubile, lo aveva contattato, forse era stata una delle poche che non gli aveva ronzato attorno, e la stima di Adalberto era tanta, altrimenti non si sarebbe mai scollato dalla sedia.

Gli incontri si ripeterono, sempre nello stesso bar, sempre una lunga passeggiata, sempre più lui ad ascoltare e lei a parlare. L’idea che fosse nato del tenero tra i due sembrava nelle cose. Adalberto che di solito era logorroico divenne quasi taciturno, e i loro incontri duravano ore od ore. La frase che girò subito in paese fu:

 -u rannu si è innamorato della bionda forestiera, ha perso la testa, povera moglie, come fa a non accorgersene?  L’uomo e quella fantastica donna, non si erano mai sfiorati con un dito, avevano ambedue la passione per l’arte e Palermo soddisfaceva a pieno la loro passione, ad ambedue piaceva la musica classica e passavano interi pomeriggi in macchina, in riva al mare, ad ascoltare brano dopo brano. Adalberto si era invaghito di quella donna? Nemmeno per sogno! Era solo affascinato dal suo carattere dolce, dalla sua sensibilità, dal suo essere bambina ad ogni costo, dalla sua cultura, nulla più di tanto, per lui era quasi diventata il mezzo per godere delle bellezze del creato, e quella musica ascoltata con lei, i loro commenti erano diventati il pane quotidiano.  Un pomeriggio all’ora dell’incontro al solito bar, la moglie arrivò d’improvviso e sedette al suo tavolo sotto il porticato, presero un caffè assieme e, stranamente la ragazza non si fece viva. Adalberto notò un turbamento nella sua compagna di vita, le chiese come mai fosse andata a trovarlo ed ebbe come risposta:

- Io vado a casa, se tu hai voglia di ritornare ne parleremo. Adalberto sulle prime non aveva capito, quasi quasi c’era rimasto male che la sua amica non era arrivata, perché avrebbe voluto presentargliela, poi, chiuse gli occhi, si alzò, prese sottobraccio la moglie:

 - Andiamo assieme a casa, passeremo dal pizzaiolo e ordineremo una pizza, il nostro figliolo è invitato a cena dai nonni.

     Ogni tentativo di spiegazione di Adalberto sortì l’effetto contrario, sua moglie non lo fece parlare, due ore d’inferno, le avevano telefonato in forma anonima decine di persone, poi tirò dalla borsetta una busta con un foglietto anonimo dove gli addossava orge giornaliere, erano annotati luoghi d’incontro, orari. La moglie, pur tentando di mantenere il decoro a cui era abituata, era ridotta senza voce, ed ogni volta che l’uomo accennava a dare spiegazioni, lei lo zittiva e ricominciava da capo. Sua moglie non era stata mai gelosa, o, quantomeno non aveva mai dato tale sensazione, e lui quando si parlava della gelosia, citando Giambattista Marino diceva: “del giardino d’amor loglio ed ortica”. Marcel Proust nel suo romanzo La prigioniera analizza i sentimenti umani più radicali quale l’amore e il senso di solitudine che si manifesta attraverso la gelosia. Adalberto, innamoratissimo della moglie, spasimante della sua famiglia, dà un taglio in maniera cortese al suo rapporto con l’amica, lo fa nella maniera più dolce tale da non farla soffrire, ma perde il sorriso e, soprattutto, non riesce a convincere sua moglie che nulla c’era mai stato con quella donna, oltre al dialogo. La moglie accecata pretende una confessione, oltre alle scuse. Cosa deve confessare u rannu non lo sa, nessuno lo avrebbe creduto, aveva perso, senza commettere nulla che andasse al di là di una irreprensibile condotta, la fiducia.

     Il freddo regnò in quella casa, il freddo di un orfanotrofio e Adalberto si ritrovò randagio in cerca di un padrone.

     Nessuno mai lo aveva visto col sorriso spento, tanto che suo figlio, trentenne ancora in casa, ignaro del vissuto, pensò che suo padre stesse male, così il sabato pomeriggio o la domenica mattina, lo caricava in macchina e lo portava con se in giro nell’intento di farlo svagare. Adalberto lo pregava di portarlo in riva al mare e gli parlava continuamente, non se la sentì mai di raccontargli tutto, lo amava troppo.

     Luisa, una amica della moglie, accolse il randagio, una donna intelligente che aveva capito tutto, che lo conosceva così bene e, forse, era stata segretamente innamorata di lui, riuscì a tirar fuori ogni cosa, e nel momento che cominciò a parlare Adalberto diventò un fiume in piena, non tralasciò una sola sillaba. Lei l’ascoltò con pazienza e, quando l’uomo finì il suo narrato, prese tra le mani il suo capo, lo poggiò al suo petto ed attese che u rannu finisse di piangere. Adalberto finalmente, dopo due anni di silenzio, aveva scaricato la sua rabbia, quel pianto liberatorio era servito ad alleggerire il peso che gli era stato posto sulle spalle, sentì quella presenza amica e presele le mani le poggiò sul suo viso quasi ad elemosinare una carezza. Luisa gli promise che avrebbe convinto sua moglie a ricredersi su quanto sospettato. Tornò a casa e attese speranzoso gli eventi, i giorni si susseguirono ai giorni e la cameretta dove dormiva diventò quasi la sua prigione, amava sua moglie, alla follia, le mancava, eppure vivevano sotto lo stesso tetto, l’unica cosa in comune era quel figliolo ormai grande, laureato, con un lavoro che lo faceva tornare a casa il venerdì sera e lo faceva ripartire all’alba del lunedì.

     Luisa un giorno lo chiamò, quasi senza voce, cercando le parole gli chiese:

 - Adalberto, tu ami ancora tua moglie?

Non esitò un attimo l’uomo:

- Si Luisa, lo sai, io non ho mai amato nessuna altra donna,  per lei da ragazzo ho fatto pazzie, le rifarei oggi, fino all’ultimo respiro.

Luisa prese le sue mani, le strinse forte, poi gli disse:

- Sei disposto a fare un sacrificio, forse il più terribile che si può chiedere ad un essere umano…

- Son pronto a fare qualunque cosa.

- Io so che tu non hai mai tradito tua moglie, sono l’unica ad averne certezza.

- E allora? Cosa devo fare.

- Devi dire una bugia a tua moglie, una grande bugia, forse impossibile anche da dire.

- Una bugia?

- Si Adalberto, devi ammettere di avere avuto rapporti con quella tua ex collega bionda, devi ammettere di essere stato il suo amante.

- Ma non posso! Non ho mai detto una bugia a mia moglie, mi sentirei male, io l’amo!

- Adalberto, noi donne siamo molto strane, tua moglie non è diversa. Il dubbio l’attanaglierebbe tutta la vita, una confessione, anche se falsa, le darebbe la pace che cerca anche lei e la farebbe apparire a se stessa magnanima, capace del perdono. Ricorda Adalberto, il dubbio è una cosa legittima, il sospetto è la cosa più deprecabile, perché non è mai l’anticamera della verità, altresì è l’anticamera della tragedia. Lo so che è contro natura accusarsi di qualcosa che non si è commesso, talvolta lo fanno i genitori per evitare pene ai figli. Per l’Islam il peccato fondamentale è l’orgoglio umano, ma anche per il Cristianesimo e l’Ebraismo, esso è deprecabile e spesso non siamo in grado di appenderlo ad un chiodo assieme alle nostre passioni.

     Dopo notti tormentate, su suggerimento di Luisa, con un cuore d’asino ed uno di leone, u rannu  affrontò il supplizio di confessare quanto non aveva commesso, “subì” il perdono della moglie, ritornò a dormire nella sua camera da letto e a sentirsi dire cosa preferisse per pranzo o cena. Adalberto non ritrovò mai più il suo sorriso, se ne stampò a forza uno finto sulle labbra  e, tutte le volte che incontrò una delle sue vecchie conoscenze ripetè:

- Non ti faccio un complimento, quelli si fanno alle sceme e alle brutte, tu non sei né l’una, né l’altra!

    Un mattino Adalberto  con la moglie accompagnarono il loro figliolo all’altare, tutti i suoi sogni si erano compiuti.

     Incontrò Luisa davanti al supermercato un giorno u rannu, le strinse le mani e le disse:

 - Tu sola conosci la verità, tu sola mi hai creduto, tu sola forse, e non vorrei peccare dinnanzi a Dio, mi hai amato nel silenzio, io non ho potuto darti nulla, solo la mia stima. Io ho amato solo lei, mia moglie, per tutti rimarrò sempre un grande seduttore, ancora per tempo si parlerà delle amanti di Adalberto u rannu. Un uomo nasce, cresce, gioca, impara, discerne, insegna, io ho vissuto l’ultimo atto, ho visto mio figlio crearsi una famiglia, come vedi c’è un tempo per tutte le cose, e quando tutto è compiuto, c’è anche un tempo per morire.

Strinse ancora fortemente le mani della donna, si chinò da quel galantuomo che era e le baciò ambedue.

     Quando l’aurora del giorno dopo squarciò le tenebre, Adalberto si mise in macchina, giunse in riva al mare, infilò un cd di musica classica e l’ascoltò, così come era solito fare con la sua ex collega bionda, poi reclinò il capo, socchiuse gli occhi e …consegnò, al rumor della risacca, la sua anima al Creatore.







Vi è piaciuta?... Se vi va, lasciate un commento.
Non vi è piaciuta? ... Se volete, lasciate un commento. 



2 commenti:

  1. ma che splendida storia....noi donne siamo proprio particolari...un sorriso

    RispondiElimina
  2. Le persone che non hanno fiducia non meritano di essere amate

    RispondiElimina