Una favola colma di semplicità deve portare il lettore su un piano soavemente romantico, coinvolgendolo sino a farlo diventare partecipe e personaggio stesso del racconto. Io ci provo, sarete voi a giudicare.
Il
diavoletto del campanile
(Tratto
da “Il Favoliere” di Mario Scamardo e
Sara Riolo – Ediz. ila palma)
Nella vecchia cappella delle Anime Sante a San Cipirello, da centinaia
di anni, nessuno aveva aperto la botola che c’era al centro del pavimento,
nessuno s’era calato giù tra le migliaia di corpi mummificati, deposti con
ordine nel sepolcreto sotterraneo. Il silenzio vi imperava sovrano, l’unica
cosa che tremolava era la fiamma della candela che un visitatore solitario teneva
in mano attraversando il cunicolo buio. C’erano due diramazioni, che
culminavano con due porte murate in mattoni pieni.
Non fu meraviglia per il visitatore, uno studioso del periodo
post-arabo, non si meravigliò neppure quando alle pareti, sotto la luce della
tremolante fiammella, intravide una serie di nicchie e sotto di esse i colatoi.
Qualcosa accomunava quel posto alle catacombe dei Cappuccini di Palermo..
Percorrendo i cunicoli a ritroso avvertì un rumore alle spalle, si girò,
scrutò nella penombra. Tutto era immobile. Proseguendo il suo cammino sortì
fuori dalla botola col cero in mano ancora acceso, spense la candela e ripose
il coperchio, una pesante lastra di marmo con al centro un grosso anello per
maniglia.
Lo studioso era un bell’uomo di mezza età, una folta barba grigia e due
sopracciglia ispide, si accompagnava ad un giovanotto che lo chiamava
professore e portava con sé una grande borsa di cuoio traboccante di carte, non
una parola tra i due, soltanto un cenno con gli occhi e insieme infilarono il
portone, guadagnando l’uscita.
Troppi misteri in quella cappella, la gente che abitava nei pressi aveva
notato parecchie volte le luci accese in piena notte, ma tutti ne avevano
addossato al sacrista, troppo avanti negli anni, colpa e sbadataggine. Quello che
era strano erano i rintocchi dell’unica campana penzolante da un vecchio
abbaino in mattoni, adattato a campanile. Il batacchio era lì, senza
cordicella, nessuno ricordava di avere mai visto il sacrista salire in cima all’abbaino,
ma i rintocchi, ben scanditi, rompevano il silenzio soprattutto di giorno. Nessuno
seppe mai spiegarsi quello scampanio ed ognuno si inventò un santo
mattacchione, uno spiritello capriccioso, un topo saltimbanco, gioioso di
dondolarsi attaccato al batacchio.
L’area su cui era sorta la chiesetta, in tempi remoti, era stato un
avamposto per il pagamento dei tributi all’Arcivescovado di Monreale, ma ancor
prima, in periodo arabo, fu un caravanserraglio, un fondaco dove le carovane si
fermavano per ristorarsi ed era possibile trovarvi alloggio per muli, asini e
cavalli e poterli abbeverare ad una fontana che zampillava copiosamente al
centro di un largo spiazzo. Essendo stato posto di ristoro, era stato anche
posto di divertimenti, di gozzoviglie, di giochi d’azzardo, dove non mancavano
i ladri, i bari e gentaglia del genere.
Si racconta che, una sera, in una stanza del fondaco si riunirono alcuni
malviventi per rapinare tutte le bestie e mercanzie. Fu una notte di terrore, i
mercanti avvertiti da una spia, prima che i malavitosi potessero compiere i
loro misfatti, ben nascosti sotto i porticati e dietro le colonne, ebbero
ragione di ladri e malfattori, sgozzandoli con le loro scimitarre. Mille urla
squarciarono il silenzio. Quando l’ultimo malvivente cadde, l’aria diventò acre
e irrespirabile. Naccalone, il diavolo più grosso dell’inferno, a capo di uno
stormo di demoni, squassando grosse catene, si abbattè sui corpi ancora sanguinanti,
legò le loro anime nere e le trascinò giù nell’inferno. Caccabrino, il diavolo
più piccolo dell’inferno, non più grande di una gazza, fu colto dalla curiosità
e giunto sul posto dell’eccidio si incantò davanti a un somarello appena nato,
tanto da non accorgersi che i diavoli con cui era venuto erano già andati via
col loro pesante bottino, le anime incatenate dei malvagi.
Caccabrino era un diavoletto buono, provò a ritrovare la via per
ritornare all’inferno, ma fu tentato di rimanere sulla terra a giocare, si
adagiò accanto al somarello per un riposino.
Passarono i giorni, i mesi, gli anni e i secoli, il piccolo diavolo
assistette alla distruzione del vecchio fondaco, alla costruzione del banco per
la riscossione dei tributi e all’opera dei monaci che edificarono la cappella. Quanta
gente aveva conosciuto! Ma non resisteva al desiderio di veder giocare i
bambini e di godere dei loro sorrisi, che lo facevano impazzire. Lui, in un
cantuccio ben nascosto, assisteva ai loro giochi, all’innocenza dei loro gesti,
alla semplicità dei loro sorrisi. Era tanto affascinato dai fanciulli che
talora provava le loro stesse sensazioni, sentiva i morsi della fame, batteva i
denti dal freddo e si asciugava gli occhietti vispi quando essi piangevano. Una
piccola coda biforcuta, due cornetti rossi sulla fronte e due alucce come un
pipistrello, raccolte dietro la schiena.
Quando fu terminata la chiesetta, pensò di doversene andar via, ma non
ebbe il coraggio di allontanarsi. Tutti i giorni stuoli di marmocchi erano
attorno alla chiesa. Altrove, forse, non c’erano bambini e pensò a quale vita
sarebbe stata la sua se non l’avesse vissuta accanto ai fanciulli. Salì su in
cima alla torre, dove c’era la campana, e si sistemò nella rientranza di un architrave.
Gli inverni si alternarono alla bella stagione, Caccabrino aveva già
perso l’istinto di tentare i suoi amichetti a far marachelle e a comportarsi da
monelli, e tutte le volte che qualcuno di loro compiva una buona azione, si
attaccava al batacchio e si dondolava fino a far rintoccare la campana.
La gente che passava guardava l’uscio serrato della cappella e
rivolgendo gli occhi alla campana scorgeva il batacchio dondolante senza
cordicella, si segnava o faceva scongiuri e si allontanava scuotendo il capo.
Solo i bambini festanti battevano le mani e gioivano per quel suono.
Un giorno un fanciullo si staccò dal gruppo dei coetanei e si diresse al
portone della cappella; il battente era solo accostato e lo spinse, entrò in
punta di piedi e dritto dritto raggiunse la botola al centro del pavimento, si
chinò per sollevarne il coperchio ma non ebbe la forza.
Caccabrino, incuriosito, si alzò e saltò giù sul pavimento; il bambino
non fece trapelare meraviglia o paura. Davanti a quell’esserino cornuto e con
la piccola coda, allungò la mano, lo colse da terra e lo interrogò: <<
Chi sei? Io ti vedo tutti i giorni sul campanile.>>
Caccabrino non ebbe risposta, era la prima volta che qualcuno gli
parlava, i suoi occhietti brillarono nella penombra e la sua coda biforcuta si
mosse come quella dei cagnolini che fanno le feste.
<<Come ti chiami?>> Riprese
il fanciullo.
Timidamente il diavoletto rispose con
un filo di voce: << Caccabrino. Ma tu non hai paura di me?>>
<<Perché dovrei aver paura? Tu sei
mio amico, nessuno dei miei compagni ti ha mai visto, io soltanto ti vedo
dondolare sulla campana, ma tutti ci riempiamo di gioia quando ne sentiamo il
suono.>>
<<Tu come ti chiami?>> chiese
Caccabrino.
<<Arturo>>, rispose
prontamente il ragazzo. <<Sono curioso di sapere cosa c’è sotto questo
coperchio, tutti parlano di misteri, ma la fantasia dei grandi serve solo a non
far capire a noi piccoli qual è la verità.>>
<<I grandi hanno una spiegazione per
tutte le cose,>> replicò il diavolo, <<generando nei fanciulli
paure e timori. Anche da grandi non riescono a smaltire i loro pregiudizi e non
si accorgono che spesso mentono a loro stessi pur di giustificare il loro
operato.>>
Arturo ascoltò con interesse, poi chiese: <<Come
si chiama la tua mamma?>>
Caccabrino chinò il capo, gli occhietti
diventarono tristi, gli si afflosciarono le orecchie e la coda. Con voce mesta
rispose: << Non ho mai avuto la mamma, a me è stato negato questo
privilegio di cui godete voi bambini, ma da secoli desidero che una mano amica
mi accarezzi e mi faccia sentire una sola volta bambino.>> Due lacrimucce
gli solcarono il viso.
Arturo gli si accostò e lo baciò sulla
piccola guancia, poi lo posò a terra. <<Devo andar via, la mia mamma sarà
in pensiero.>> Aspettò che il diavoletto raggiungesse il buco del
campanile e tirandosi dietro la porta andò via.
L’indomani arrivò per primo sul sagrato. Non
era mai arrivato da solo prima, non attese i suoi amichetti per giocare e
correre attorno alla chiesa, spinse il grande portone, lo riaccostò dietro di
se, alzò gli occhi verso il buco che portava al campanile ma non scorse il suo
amico diavoletto. Pensò allora che dormisse ancora e portatosi sulla botola,
afferrò l’anello del coperchio e tentò di sollevarlo. Quell’enorme lastra di
marmo era troppo pesante, ma il ragazzo riprese fiato e tentò invano ancora un
paio di volte, poi si diresse verso l’altare polveroso, alzò gli occhi verso la
statua della Madonna col Bambino posta in fondo all’abside, tirò fuori dalla
tasca una trottola e la posò ai suoi piedi, poi sottovoce: << E’ per
Caccabrino, te la lascio in custodia, lui non ha la mamma, nessuno gli ha mai
voluto bene.>> Chinò il capo e pian piano guadagnò l’uscita. Fuori , i
bambini avevano cominciato i loro giochi di sempre e sul batacchio della
campana non c’era il diavoletto a dondolarsi.
Era passato gran tempo. La porta della
chiesa si spalancò ed entrò lo studioso barbuto del periodo arabo, che aveva
visitato già una volta i sotterranei della cappella. Aveva con sé una grossa
torcia elettrica e dalla borsa di cuoio tirò fuori un grosso quaderno e una
matita, sollevò il coperchio di marmo, lo accostò al muro, accese la torcia e
si calò giù per la scaletta.
Il silenzio regnava sovrano e i corpi
mummificati rimanevano immobili, sistemati in quel grande sepolcro comune. Il sapiente
studioso scrutò ogni angolo, appuntò sul suo quaderno parecchie cose, poi, alla
biforcazione dei corridoi, sentì un rumore e ascoltò attentamente per percepire
meglio. Il rumore gli arrivava chiaro alle orecchie, un suono che gli era amico
e gli ricordava qualcosa del suo passato. Tornò indietro, si fermò e trattenne
il respiro quando il fascio di luce della torcia puntò una trottola che girava
sul pavimento.
<<Arturo,>> disse una vocina
tremolante, poi ripetè: <<Arturo, sono io, Caccabrino.>>
L’uomo dalla barba brizzolata rimase di
ghiaccio, gli tremarono polsi e gambe, il suo amico diavoletto era ancora lì,
giocava con la sua trottola, si riebbe per un attimo e chiamò:
<<Caccabrino, amico mio…>>
Il diavoletto dagli occhietti dolci fermò
la trottola e volò sul braccio di Arturo, poggiò la testolina sulla manica
della giacca e mosse la codina per manifestare la sua gioia. Arturo puntò la
torcia verso l’uscita e quando furono fuori il diavoletto volò sulla sua spalla
e lo baciò sulla guancia.
<<Arturo,>> disse Caccabrino,
<<ti ho atteso quasi cinquant’anni, sapevo che dovevi ritornare, ho
trascorso tutto il tempo a girare la trottola che mi hai donato e a suonare la
campana per allietare i bambini sul sagrato.>> Poi, indicando la statua
della Madonna col Bambino: <<Quella signora mi ha consegnato il tuo
giocattolo, ed io tutte le sere lo ripongo ai suoi piedi affinché lo
custodisca; a me è stato negato di avere una mamma, ma ho capito dal suo
sguardo che un giorno anch’io avrò lei come madre.>>
Arturo, commosso, lo accarezzò dolcemente
e vide i suoi occhietti inumidirsi.
<<Perché>>, chiese l’uomo al
diavoletto, <<ti sei rintanato nel sotterraneo? Come hai fatto ad
entrare?>>
<<Sappi, mio buon amico, che noi diavoli possediamo una grande
forza, e quando tu, fanciullo, tentavi di aprire la botola, io non volli mai
aiutarti, eri solo un bambino che voleva interessarsi delle cose dei grandi.
Sappi che c’è un tempo per tutte le cose, un tempo per nascere, un altro per
crescere e giocare, un tempo ancora per imparare e saper discernere, poi c’è un
tempo per insegnare, e quando tutto è compiuto, c’è anche un tempo per morire.
Tu allora eri nel tempo dei giochi; aiutarti ad aprire la botola sarebbe stato
come aiutarti a rubare alla tua vita un pezzo della tua naturale crescita. Io continuo
tutti i giorni a suonare la campana per allietare i giochi dei bambini e far sì
che la loro gioia sia completa: nessuno deve turbare la loro serenità, i
giovani sono la vita. Poi, da grandi, è giusto che ognuno apra la propria
botola e scopra come il cammino dell’uomo culmini nella pace di un sonno
eterno, in attesa della resurrezione. Solo il candore dei bimbi non turba il
sonno dei morti, ed io di notte, quando i fanciulli giacciono tra le calde
braccia delle madri, allieto il sonno dei morti col fruscio della trottola…>>
Arturo ascoltò estasiato e poi chiese: <<Ma tu, anche se buono,
sei sempre un diavolo…>>>
Caccabrino posò ancora una volta la mano sulla barba fluente, gliela
lisciò teneramente, poi saltò ai piedi della statua della Madonna e disse:
<< Arturo, è lei che mi ha suggerito quanto ti ho detto, e più seguo i
suoi consigli, più sento vicino il giorno in cui anch’io diventerò bambino e
potrò chiamarla mamma.>> Il diavoletto volò verso il buco del campanile,
saltò sul batacchio e si dondolò, facendo sentire il suono ridondante della
campana. Fuori i bambini gioivano battendo le mani e urlando di gioia.
Che vi sia piaciuta o meno, lasciate un vostro commento, mi aiuterà a fare meglio, grazie!
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