I Racconti del Borgo
Mario Scamardo
Giorgio Zimma, sin da ragazzo aveva sempre fatto il
maniscalco, aveva ferrato muli, asini e cavalli, aveva forgiato zappe, picconi,
rastrelli e qualche vomere di aratro a traino animale. Figlio unico, aveva
perso il padre in guerra e la madre l’aveva lasciato quando era ritornato dal
servizio militare. Il lavoro, nella vecchia bottega, che era stata del padre,
gli consentiva di sopravvivere, ma con l’avvento della meccanizzazione
agricola, muli e cavalli cedettero il posto a sferraglianti trattori, e di
zappe da forgiare se ne vedevano poche, fino a quando Giorgio spense la forgia
e cercò un’occupazione presso un deposito di legnami. A cinquant’anni suonati,
il lavoro di accatastare tronchi e di spostare assi di legno era diventato
pesante, allora, per sopravvivere, si adoperò a fare dei servigi, piccoli
lavoretti, pulire e rigovernare un pollaio, andare a fare la spesa a degli
anziani, recarsi alla posta per spedire delle raccomandate o ritirare dei pacchi,
rigovernare una stalla con tre o quattro mucche. Il compenso? Un uovo, due lenticchie cucinate, un pezzo di
pane, allora mangiava altrimenti, al calar delle ombre, era un cercare nei
cassonetti per racimolare gli avanzi. Pensione? Non l’aveva neppure richiesta,
non aveva versato nessun contributo, e quando aveva faticato presso il deposito
di legnami, lo aveva fatto in nero. Per fortuna non era stato mai male, e
l’unica medicina che aveva usato erano i limoni che crescevano nel piccolo orto
abbandonato, proprio limitrofo alla sua bottega, rimedio per mal i testa,
diarrea, influenza, prurito, usato come disinfettante e per condire talvolta
un’insalata. Solo una volta gli era capitato di trovare una banconota da
diecimila lire a terra, saggiamente piegata in quattro, si era abbassato,
l’aveva raccolto e, tenendola in mano, sperava che qualcuno ne rivendicasse la
proprietà. Nessuno gliela chiese e la intascò. Da quel giorno, i suoi occhi
scrutarono ogni centimetro quadrato delle strade che percorreva, e si abbassava
a raccogliere qualunque cosa luccicasse, una monetina, un tappo a corona, un
frammento di vetro, tanto da meritarsi l’appellativo di “Giorgio a
carcarazza”, (Giorgio la gazza).
L’inverno si avvicinava, e il vecchio
maniscalco aveva riempito l’ampio vano della propria bottega di fascine
racimolate per le strade di campagna, piccoli tronchi rinsecchiti dalle siepi e
i rami che il vento aveva strappato agli eucalipti. In un angolo, il carbone
che nel tempo gli era servito per azionare la forgia, e che poi aveva
adoperato, anche se di rado, per lessare qualche patata, qualche manciata di
legumi, qualche ciuffo di verdure raccolte qua e la per i viottoli, che poi
condiva con appena quattro o cinque gocce d’olio e un pizzico di sale, era agli
sgoccioli, ancora sette o otto secchi ammonticchiati da decenni in quell’angolo
nero dove nemmeno i ragni tessevano le loro tele.
Era
l’imbrunire di un giorno piovoso, Giorgio era appoggiato allo stipite della
porta cigolante della bottega, aspettò che fumasse il camino della casa di
fronte, prese la paletta che nel tempo gli era servita a prendere il carbone e
bussò, uscì di li a poco con una palettata di brace, la depose in una vecchia
bacinella di zinco e vi pose sopra alcuni piccoli ramoscelli che prelevò da una
fascina, vi soffiò e subito una fiamma illuminò l’oscuro ambiente, poi mise
sopra una palettata di carbone e aspettò che covasse per portarselo su nella
camera in cui dormiva. Accese un moccolo di candela ed attese il sonno a pancia
vuota, l’unico pasto lo aveva fatto nel primo pomeriggio, due fette di melone
bianco e un pezzo di pane raffermo. Portò fuori la bacinella, ormai colma di
cenere, soffiò sul moccolo e si mise a letto ricoprendosi con una vecchia trapunta.
Sognò Giorgio, di solito non ricordava i sogni, diceva sempre che non sognava,
che l’entità soprannaturale che gestiva i sogni non gliene mandava, perché
sapeva che lui non avrebbe potuto pagare il sogno. Quella notte la gazza sognò
di trovarsi alla corte del Regno di Napoli, riccamente vestito, imparruccato,
profumato ed incipriato, al cospetto di Sua Maestà Ferdinando II che salutava
una gran dama vestita di seta ricamata in oro, sua madre, si, così come l’aveva
vista l’ultima volta, cinquantenne, compita, sorridente.
-
Mamma…
-
Giorgio,
figliolo, avvicinati.
-
Si
mamma, cosa facciamo qua, al cospetto di Sua Maestà?
-
Stai
sereno figlio mio, Re Ferdinando ci ha invitato, non potevamo rinunciarci.
-
Ma,
io sono un povero maniscalco, cosa potrà volere da me il Re.
-
Giorgio,
noi siamo stati leali sudditi, Sua Maestà ci ha invitati perché vuole premiare
la nostra devozione, porgimi la tua mano, è arrivato il nostro turno.
-
Cosa
dobbiamo fare?
-
Nulla,
dobbiamo solo inginocchiarci davanti a lui, poi dobbiamo attendere.
Madre e figlio, mano nella mano, fecero
i passi che li portarono davanti al trono, si inchinarono e poi si
inginocchiarono. Ferdinando II assentì col capo, sorrise e:
-
Alzatevi,
so della vostra devozione, e voglio ringraziarvi come solo un Re può ringraziare.
Fece un
cenno al ciambellano di corte che prelevò uno scrigno da un forziere, lo aprì e
presi due pezzi di carbone li mise in mano a Giorgio.
-
Tieni
figliolo, intasca questi due pezzi di carbone, sono la mia ricompensa, li
tirerai fuori quando sarai uscito dal palazzo reale, non buttarli, nel carbone
sta nascosta la forza dell’uomo, quel carbone che si trasforma in fuoco, che
riscalda e poi, pian piano si consuma diventando cenere. Ora andate, Dio vi
accompagni!
Giorgio e
sua madre fecero tre passi indietro, si inchinarono e guadagnarono l’esterno
della grande sala del trono.
-
Mamma,
ci ha fatto venire fin qua per due pezzi di carbone!
-
Abbi
fiducia figliolo, tu segui quanto ti è stato detto, ripensa sempre alle parole
che hai sentito, ora usciamo dal palazzo, io devo ritornare nel posto dove sono
stata tanti anni, tu ritorna alla tua bottega. Quando accenderai questi due
carboni, fanne buon uso, fai che chi sente freddo possa riscaldarsi con te,
dividi con gli altri il suo calore, vedrai, si consumerà più lentamente e,
forse, si rigenererà dalle stesse ceneri. A Chi sta al di sopra di noi, tutto è
possibile, anche quello che potrà sembrarti assurdo!
Varcarono la
soglia del palazzo, ma Giorgio, come per incanto, si ritrovò vestito di stracci
e sua madre era sparita, nelle tasche della vecchia giacchetta a quadri, solo i
due pezzi di carbone e nulla più. Il
gallo dei vicini lo svegliò e Giorgio si ritrovò ricoperto della sua trapunta
sdrucita, senza aver nulla da mettere sul fuoco. Quel sogno lo tormentò tutta
la mattinata e, dopo essersi guadagnato tre uova per avere pulito un pollaio e
rigovernato tre mucche, andò per i viottoli di campagna a raccogliere rape da
mettere in pentola.
Quando il vecchio maniscalco andò a
ripigliare la palettata di brace nella casa di fronte, raccontò il suo sogno
senza omettere nulla, tutti gli fecero notare che né lui né sua madre avevano
potuto conoscere Ferdinando II che aveva regnato due secoli prima. La presenza
della madre nel sogno fece fantasticare chi lo ascoltava e tutti tirarono fuori
i numeri da giocare al lotto per tre settimane consecutive, otto la madre, dieci
il re, quarantadue il carbone, un bel terno sulla ruota di Napoli! Il
botteghino del lotto non ebbe pace per tre settimane di fila, i più furbi
giocarono il terno su Palermo e Napoli, perché il sovrano aveva avuto i natali
nel capoluogo siciliano, ed era morto nella reggia di Caserta, qualcuno giocò
la cinquina, aggiungendo il trentuno e il quarantasette, morto che parla! Le
tre settimane passarono, i numeri non uscirono e il sogno di Giorgio sprofondò
nell’oblio.
La primavera
stentava ad arrivare dopo un inverno pesante, nella bottega rimaneva poca
legna, anche il vento non era stato bravo a rompere i rami di eucalipto e
qualche stocco inzuppato stentava ad accendere, inondando di acre fumo tutto
l’ambiente. Giorgio pensò allora di dar fondo al suo carbone, e quando fu
davanti alla piccola catasta, si ricordò del sogno, dei due carboni che Sua
Maestà Ferdinando II gli aveva regalato, si soffermò a pensare un po’, vide la
sua giacchetta appesa al mantice della forgia, si avvicinò, infilò le mani
nelle tasche e, con suo grande stupore trovò i due pezzi di carbone. Ma non era
un sogno? Giorgio Zimma, inteso la gazza, scosse la testa, si recò sull’uscio e
tirò a pieni polmoni un paio di boccate di aria fresca, o meglio, freddissima.
La sua mente era confusa, si portò una mano alla testa e si grattò tra i
capelli, come a volere uscire da uno stato confusionale, poi scosse il capo e
ritornò all’angolo nero, prese la paletta e riempì la bacinella, qualcosa
luccicò tra i pezzetti di carbone, Giorgio si fermò, abituato com’era a
raccattare da terra ogni cosa, si abbassò e prese quel dischetto giallo che
luccicava, una moneta d’oro, la strofinò saggiamente sulla manica della giacca
da ambo le facce. Era proprio lui, Sua Maestà Ferdinando II, bello, pasciuto,
con la barba, una moneta d’oro da quindici ducati, una piccola fortuna! Un
fremito lo colse, il suo sogno, lui e sua madre tra i fasti di una corte e, due
minuti dopo, la miseria imperante e la triste realtà del risveglio! Si pose
sulla soglia e guardò la sua moneta alla luce del giorno, la intascò e tornò
alla catasta di carbone per cercare di capire come c’era finita in quella
catasta, piano piano scostò altri due pezzi di carbone, ancora un luccichio,
poi un altro e un altro ancora, ne contò cinquanta, tutte d’oro, dodici da
quindici ducati di Ferdinando II, dodici da trenta ducati con l’effige di
Francesco I, sedici da trenta ducati con l’effige di Ferdinando I e dieci da
sei ducati dove era raffigurato Carlo di Borbone, tutte d’oro, un tesoro
inestimabile! Chiuse la porta cigolante
della bottega, salì per le scale e sedette sul letto, confuso ma contento,
bevve un bicchiere d’acqua e cercò il calzino più integro che aveva in un
cassetto, controllò che fosse adatto a contenere il suo tesoro, vi infilò le
monete e baciò la calza, poi ne estrasse una a caso, una da sei ducati e,
sistemata la sua calza sotto la camicia, con la moneta in mano si recò dal
parroco. Don Fulgenzio, indaffarato in sacrestia a riporre i paramenti della
messa, lo fece accomodare:
-
Giorgio,
è un po’ che non ti si vede in chiesa.
-
Don
Fulgenzio, il maltempo, il freddo, e spesso la fame mi hanno costretto a casa,
anche se non dimentico mai di segnarmi prima di mettermi a letto e quando il
gallo dei vicini mi sveglia al mattino.
-
Dimmi,
cosa posso fare per te.
-
Reverendo,
io ho avuto tra le mie tante disgrazie, una piccola fortuna, sbirciando tra le
cataste di immondizie, ho visto luccicare qualcosa, mi sono chinato e l’ho
raccolta.
L’anziano
maniscalco, dopo la piccola bugia sul ritrovamento, infilò la mano in tasca e
tirò fuori la moneta da sei ducati in oro, la porse a don Fulgenzio che la
guardò con espressione di meraviglia.
-
Caspita!
Sei ducati di Carlo di Borbone! Un collezionista la pagherebbe una fortuna!
-
Don
Fulgenzio, io non conosco collezionisti, nemmeno gioiellieri, chiunque
vedendomi così male in arnese mi accontenterebbe con una manciata di lire, io
per la fame che mi ritrovo sarei costretto ad accettare e questa piccola fortuna non riuscirebbe a soddisfare
neppure la mia fame arretrata.
-
Giusto!
Approfitterebbero di te.
-
Reverendo,
io mi fido solo di lei, di un uomo capace
di dividere la sua minestra col primo mendicante che bussa alla sua porta. Le
lascio la mia moneta, a lei difficilmente la piglierebbero in giro, io
continuerò a riscaldarmi col carbone che mi è rimasto, troverò delle verdure
per i viottoli di campagna poi, quando mi chiamerà, comprerò cinque ceri di
quelli grandi, uno lo porterò sulla tomba di mia madre, gli altri quattro li
accenderò ad altrettanti santi, poi le dirò a quali.
-
Cercherò
di trarre il massimo profitto, lasciami andare in città, mi farò consigliare
dal vescovo.
Intascò la moneta don Fulgenzio, si
segnò, batté una mano sulla spalla di Giorgio, lo accompagnò alla porta della
sacrestia e lo vide inginocchiarsi a pregare. Quattro giorni dopo il sacerdote
si recò alla bottega del maniscalco, lo trovò seduto su uno sgabello davanti al
fuoco, lo salutò e sedette sul cippo che prima portava l’incudine.
-
Amico
mio, il buon Dio mi ha accompagnato nel delicato cammino che mi hai affidato,
una fortuna! Cinque milioni e trecentomila lire.
Tirò dalla tasca un libretto al
portatore di una banca cittadina con cinque milioni e glielo diede, poi uscì
dalla tasca della tunica sei biglietti da cinquantamila e glieli mise in mano.
-
Giorgio,
tu mi hai dato la tua fiducia, io ho adempiuto ad un dovere. Ora vado via, vado
a confessare i fedeli prima che cominci la messa vespertina.
Giorgio la gazza si alzò, baciò la
mano del parroco e lo accompagnò all’uscio. Infilò la mano sotto la camicia,
toccò la calza piena di monete, chiuse la porta e si recò da un merciaio, acquistò
cinque grossi ceri e ne accese uno al cimitero, ai piedi della tomba di sua
madre. Ritornato a casa, estrasse da sotto la camicia la calza, la aprì e
prelevò quattro monete con le effigi di Carlo di Borbone, di Ferdinando I, di
Francesco I e di Ferdinando II, le poggiò al muro sul tavolo, distanziate l’una
dall’altra, per ognuna accese un cero e recitò un requiem per ciascuno, e così
tutti i giorni fin che i ceri non si consumarono. Si recò in città e comprò
scarpe e vestiario decenti, poi riempì uno stipo di generi alimentari e chiamò
un muratore e lo aiutò a fare le piccole riparazioni di casa sua. Liberò di
ogni cosa la sua vecchia bottega e la imbiancò a calce di colore azzurro. Prima
che finissero i soldi sul suo libretto, si recò in città e vendette una seconda
moneta, stavolta era un trenta ducati di Francesco I, da un collezionista
ricavò il triplo di quanto aveva realizzato don Fulgenzio, tanti soldi! Giorgio
da buon parsimonioso spendeva il giusto necessario per poter vivere in maniera
dignitosa. Quando incontrò un senzatetto che viveva di stenti, se lo portò a
casa, gli approntò un letto e divise con lui la sua mensa. La gente del luogo
spesso si chiese perché e come era cambiato lo stato di Giorgio, e lui:
-
Diventate
carcarazze come me, gazze dovete diventare, io guardo sempre a terra, raccolgo
tutto quello che luccica, lo metto in tasca e siccome raccatto ogni cosa, ho
trovato una vecchia giocata al lotto, una quaterna, otto, dieci, quarantadue e
quarantasette, la madre, il re, il carbone e il morto che parla, sulla ruota di
Napoli, quaterna secca!
Gli interlocutori, convinti dalla
piccola bugia di Giorgio, gli facevano gli auguri e si complimentavano con lui.
-
E
quanto hai vinto?
-
Quanto
basta a non saltare più i pasti, a far attaccare la corrente elettrica e ad
invitare qualche poveraccio a consumare con me una cena.
Gli anni passarono, Giorgio la gazza
diventò calvo e sdentato, le sue gambe cominciarono a vacillare, appoggiandosi
ad un bastone, davanti ad un negozio di alimentari, si accorse di una donna
giovane, vestita a lutto, che portava per mano un fanciullino di quattro anni
con ciabattine di plastica in una giornata fredda e piovosa, l’avvicinò e
chiese alla donna perché quel bambino infreddolito non aveva un paio di scarpe
chiuse. La donna abbassò lo sguardo, strinse a se il bambino e, con le lacrime
agli occhi, allargò una borsetta di plastica mostrandola a Giorgio:
-
Signore,
questo pezzo di pane raffermo è tutto quello che abbiamo, quando sarà buio ci
recheremo al vecchio casello ferroviario per passare la notte, tra i cartoni e
una vecchia coperta.
Giorgio tirò dalla tasca un fazzoletto e si asciugò una
lacrima, prese il bambino per mano:
-
Accompagnatemi
a fare la spesa, io ho una casa, avevo un’ospite ma il buon Dio proprio dieci
giorni fa lo ha chiamato a se, io son vecchio e solo, vi ospiterò nella mia
casa, divideremo il cibo, in cambio non mi dovete nulla, solo la vostra
compagnia. Poi, dopo aver pranzato mi racconterete la vostra storia. Io sono
Giorgio Zimma, ma tutti mi chiamano carcarazza, la gazza.
-
Lui
è Marco, ha quattro anni, io sono Adele, mio marito è morto solo due mesi fa,
non abbiamo una casa, non ho un lavoro, viviamo di carità. Accetto il vostro
invito, questo bambino al freddo, che piange per la fame, mi strazia il cuore.
Giorgio prese per mano il bambino e
trascinandosi sul suo bastone entrò nel negozio, fecero la spesa e pian pianino
si avviarono. Adele prese possesso
dell’abitazione, sistemò la stanza di Giorgio e sistemò la sua con due lettini,
si diede da fare per rendere funzionale la cucina, il piccolo bagno, il locale
a piano terra, e quella casa ebbe di nuovo una famiglia. Un giorno si fermò
davanti l’uscio una vettura di grossa cilindrata, scese un signore ben vestito
con una grossa borsa in cuoio marrone, entrò, salutò e si accomodò dietro un
tavolo, era il notaio che raccoglieva le volontà di Giorgio, il quale donava
alla sua morte la casa ad Adele. Quando Giorgio capì che mancava poco alla sua
dipartita, lucidissimo, raccontò minuziosamente la sua storia, alzò un mattone
dal pavimento e tirò fuori la sua calza con il piccolo tesoro, ancora quaranta
monete, le consegnò alla donna.
-
Adele,
sono quaranta monete, un tesoro, io te lo consegno, fanne uso solo per fare del
bene, dividi sempre il tuo fuoco con chi ha freddo. Io non ti chiedo nulla,
solo di ricordarti di comprare cinque ceri all’anno, uno lo accenderai sulla
tomba di mia madre il giorno dei morti, gli altri quattro li accenderai in
casa, fino a che non si consumeranno del tutto, i Borbone sapranno ognuno quale
è il proprio cero, reciterai un requiem per loro.
Poi prese il suo libretto al portatore, glielo
diede e raccomandò di far studiare Marco, il suo figliolo, quel bambino che col
suo amore e il suo sorriso, aveva alleviato la sua vecchiaia, lo aveva reso
felice. Cenò con loro e si mise a letto, il mattino seguente, il giovane prete
che aveva sostituito don Fulgenzio, fu chiamato per benedire la sua salma.
un po' fiaba..
RispondiEliminaun racconto semplice lineare da leggere tutto d 'un fiato , ma che insegna anche di non essere egoisti , ma di dividere quello che si è avuto in regalo con chi ha meno
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