mercoledì 28 marzo 2012

IL GIULLARE DI CARLO V
















"Il potere logora chi non ce l'ha!" (Giulio Andreotti)

Sembra una di quelle frasi fatte, buttate giù ad effetto, magari nella foga di un discorso. Non è così! Non è così perchè non c'è nulla di più vero! Alla "carica", al "potere", vengono tributati onore, rispetto, obbedienza ma, al cessare della carica, al cessare del potere, allora tutto svanisce, perchè svaniscono le aspettative di chi si inchinava, di chi strisciava, di chi sperava, di chi profittava. Galantuomo per quanto abbia potuto essere un uomo di potere, finita la carica, si riesce anche a dubitare della sua benevolenza, del suo essere signore, del suo essere corretto, della sua capacità. Avviene perfettamente il contrario di quando qualcuno muore; in vita lo hanno beffeggiato, deriso, insultato, denigrato, ma una volta morto, tutti si tolgono il cappello, tutti si inchinano ed al suo passaggio si segnano ed cominciano a tessere la tela delle sue virtù lodandolo, tanto, il morto non può più nuocere, allora i vivi partoriscono la pietà. Invece da un uomo che ha perso la carica, il potere, non ci si aspetta più nulla e la vigliaccheria degli uomini diventa cieca, e financo chi ha goduto dei suoi favori, trova il modo per parlarne male, per bistrattarlo, per vendicarsi di qualcosa di cui non si conosce neppure il nome.




Mario Scamardo




 I Racconti del Borgo




Il giullare di Carlo V

 
  Olderico era un omino non più alto di tre spanne, e dopo i componenti della famiglia reale, era la persona più vicina all’imperatore Carlo V d’Asburgo. Le sue giornate trascorrevano a corte, tra le ampie sale, con addosso il suo abbigliamento ridicolo, variopinto, dai colori accesi e sul suo capo portava un cappello con tre appendici come tre code di gatto, ornate in punta con tre campanellini lucenti dal suono argentino. Le sue scarpe erano due zoccoli di legno di colore giallo, ornati anch’essi da campanelli che testimoniavano la sua presenza in ogni angolo del palazzo.
  Tenere allegra la corte era il mestiere non facile di Olderico, farla ridere, inventarsi piccole burle, piccoli scherzi e, muoversi come un pagliaccio da circo. Per tanto era stato educato e, pur se di misere origini, la corte d’Asburgo era diventata la sua casa e la sua famiglia.
  Fuori dal palazzo, in una stradina angusta, dove c’erano più mosche che mattoni, abitava sua madre. Un basso composto da due angusti vani, umidi e maleodoranti, pieni di fuliggine, col pavimento sotto il livello della strada e, quando le piogge erano copiose, l’acqua entrava dentro e la vecchina dagli occhi sorridenti, si vedeva costretta a raccoglierla con secchi e stracci e a ributtarla sulla strada. La madre era vissuta anch’essa a palazzo, nelle cucine, quando un giorno il vecchio giullare se ne innamorò, le fece la corte, la sposò e da quell’unione nacque il piccolo Olderico. Suo padre era anch’esso di bassa statura ma era un uomo forte, non resisteva un solo minuto senza stare accanto alla sua donna ed alla sua creaturina, la corte lo impegnava molto e per ciò chiese di congedarsi. La regina madre, Giovanna la Pazza, volle ascoltare di persona le sue ragioni, sensibile verso i grandi sentimenti, intercedette in suo favore e il vecchio giullare, avutone il consenso, uscì con la sua famigliola dal palazzo reale, si trovò una casetta nella stradina angusta e lavorò come aiutante di un fabbro fra non poche difficoltà.
  Carlo V d’Asburgo aveva una grande simpatia per Olderico e, quando rimaneva solo con lui, gli faceva togliere quel ridicolo copricapo e lo faceva sedere sul suo stesso divano. Con lui parlava di tutto, dei discorsi che da ragazzo aveva avuto col padre Filippo il Bello d’Austria, delle sue scorribande durante le battute di caccia, del rigore con cui la madre aveva curato la sua educazione e formazione, delle emozioni che aveva provato alla nascita dei suoi figli e delle responsabilità che ciò gli procurava,  ed ogni tanto, delle difficoltà in cui i cortigiani lo cacciavano o di qualche sua incertezza nell’amministrare la giustizia che gli provocava un confronto continuo con la sua coscienza.
Olderico lo ascoltava pazientemente, senza perdere un sol passaggio e, sorrideva e si commuoveva al sorridere ed al commuoversi del suo interlocutore. Quando nella famiglia reale qualcuno mostrava qualche piccola disistima per Carlo, il giullare si turbava, si appartava, rifletteva e, da quel grande amico che era, gli proponeva una passeggiata nel parco, ma questo suo comportamento era noto al re che gli sorrideva ed apprezzava le sue testimonianze di stima e di rispetto.
  Quante burle si era inventato per sollevare l’animo del suo re Olderico, e quanti scherzi per tenere gai i suoi figli e tutti i componenti della sua famiglia. Carlo V era un uomo molto generoso, spesso infilava le sue dita in una borsetta di renna che portava attaccata alla sua cintura e tirava fuori alcune monete che elargiva ad Olderico. – Maestà –  disse  un  giorno il giullare, perché siete così generoso con me? – Carlo lo guardò negli occhi, sorrise e gli battè una mano sulla spalla – amico mio, noi abbiamo circa la stessa età, tu sei nato come me a palazzo, siamo prigionieri tutti e due delle regole che questa corte ci impone, non possiamo esimerci dai nostri compiti. Il tuo impegno è più importante e più arduo del mio, riesci a farmi sentire un uomo qualunque con tutte le sue debolezze e, mentre io vivo  i momenti più tristi delle continue congiure di palazzo, tu ti sforzi di rendermi gaia la vita. Allora, accetta con lo stesso amore con cui te le do queste monete, tu ne hai più bisogno di me.- Olderico abbassò gli occhi, si chinò davanti al suo re ed aspettò che lo stesso lo sollevasse da terra, come era solito fare, e gli sorridesse.
  Un giorno Olderico chiese alcune ore di permesso per andare a visitare sua madre, lo faceva spesso, almeno una volta ogni settimana. Carlo, uscendo dalla sua camera, lo notò in fondo ad uno degli immensi corridoi, lo vide pensieroso, tanto che il giullare non si accorse neppure del suo arrivo. – Olderico, amico fidato, cosa ti turba così tanto? – disse il re. Il giullare si destò dai suoi pensieri, fece pronto una capriola e rimase in ginocchio davanti a Carlo. – Maestà, non sono turbato, stavo preparando un’altra burla per allietare la vostra giornata. – Carlo fissò i suoi occhi tristi e disse: - bugiardo, lo sai che non puoi mentire ad un amico, alzati e dimmi cosa rende il tuo animo così cupo. – Olderico si alzò e tirò un lungo sospiro – maestà, io sono stato educato a rendere liete le vostre giornate, non a tediarle con i miei malumori o con le mie tristezze. – Carlo accarezzò la sua lunga barba, tolse il buffo cappello dalla testa del giullare e con dolcezza gli disse: - vedi, l’uomo non è una catapulta che è stata costruita soltanto per lanciare sassi contro le fortificazioni nemiche, esso è tutt’altro, è anima, è cervello, emozioni, sentimenti, certezze e paure, coraggio e codardia, riflessione e impulso, esso deve vivere il sorriso e il pianto, la felicità e l’angoscia, e tu, prima di essere il mio buffone di corte, il mio giullare, sei un uomo, un cuore che pulsa e che ha diritto di vivere sensazioni ed emozioni. Amico caro, dimmi cosa ti affligge, se la mia autorità, il mio potere e la mia borsa ti possono servire, sono a tua disposizione. – Gli occhi di Olderico diventarono umidi e le sue mani tremarono. – Maestà, io non avrei mai dato a voi e alla vostra famiglia un attimo di tristezza, ma vi prego di perdonarmi, ho un pensiero fisso che mi affligge, voi sapete che fuori da questo palazzo io possiedo il più grande dei tesori che la vita mi ha donato; fuori di qui, non molto lontano, c’è una casetta molto umida ed angusta, in una stradina dove, quando la pioggia è copiosa, l’acqua ne invade il pavimento, e dentro vi abita mia madre, ormai avanti negli anni e, per rendere meno penosa la sua esistenza, quando posso la vado a trovare, la rincuoro, provvedo al suo sostentamento e le metto nel palmo delle sue mani aggrinzite il frutto della vostra generosità, quelle monete che spesso mi regalate. Lei è sempre in attesa di ricevere le mie notizie, ma soprattutto le mie visite, pronta a confortarmi e ad incoraggiarmi, così come faceva quand’ero piccino, perché maestà, i genitori servono a questo, a rassicurare e a dare fiducia nel domani. – Chiuse la sua bocca ed aspettò che Carlo gli dicesse qualcosa. Il suo re, commosso, lo prese sottobraccio e gli disse: - senti Olderico, voglio venire anch’io a far visita a tua madre, la ricordo appena, ma non dimentico quando piccino, disubbidendo ad ogni regola, mi recavo nelle cucine e lei, di nascosto, con grande dolcezza, mi faceva assaggiare i bocconi più prelibati e mi riempiva le tasche dei dolcetti che venivano serviti a colazione. Quando talvolta venivo sgridato da mia madre, correvo in cucina e lei, carezzandomi il capo appoggiato al suo seno, aspettava che finissi di piangere e mi consolava poi con una carezza. Senti che facciamo, ci vestiamo come due popolani, poi, passando per le stalle, usciamo dal retro del palazzo ed insieme andremo da tua madre. – Olderico, alquanto in imbarazzo, balbettò: - ma, maestà... - Carlo gli pose l’indice destro sulle labbra e gli disse: - zitto, non dire nulla, è il tuo re che te lo comanda, ed è il tuo amico che te lo chiede, fra dieci minuti ci vediamo giù alle stalle. – Tornò nella sua camera, mentre il giullare scomparve in fondo all’enorme corridoio.
  Quando Carlo e Olderico sortirono fuori dal palazzo da una porticina a piano terra, non furono visti da alcuno, solo l’orologio sulla torre rintoccò e si sentì sulla strada il cigolare delle ruote di un carro sul basolato.
La stradina angusta dava un senso di oppressione ma Carlo non proferì parola. Quando furono arrivati dinnanzi al piccolo uscio, Olderico si fermò e disse: - maestà, non so se riuscirete a sopportare l’odore di muffa, ma non ho potuto offrire di meglio a mia madre. – Carlo non rispose, spinse la porta ed entrò. Su un seggiolone impagliato luccicavano gli occhi di una vecchietta, un fuoco modesto la riscaldava e lei fece un cenno per alzarsi. Olderico le si avvicinò e le disse: - madre, sono venuto a vederti, ho portato con me un caro amico. – Carlo aveva appena posato il suo cappello da popolano sul piccolo tavolo al centro della stanzetta quando la vecchia signora si alzò, gli andò incontro e volle guardarlo bene in viso, girò lo sguardo verso il figlio e poi, ancora verso lo sconosciuto. Socchiuse gli occhi come a voler far tornare alla mente un vecchio ricordo, fece un piccolo inchino col capo e disse rivolta a Carlo: - maestà, non c’è bisogno che mi diciate chi siete, il vostro viso e l’espressione dei vostri occhi non sono cambiati, eppure son passati tanti anni, perdonatemi se non posso prostrarmi ai vostri piedi, non ne ho più le forze, ma è così che vi ho sempre immaginato, con la vostra barba fluente, col vostro sguardo austero, col portamento che era di vostro padre. Grazie per avermi fatto quest’ultimo regalo della mia vita, vi prego, indossate il vostro cappello, questa è una casa fredda e umida, io ci sono abituata, voi potreste pigliare, Dio non voglia mai, un malanno. Ora dovete perdonarmi, ma devo sedermi. – Carlo non riuscì a contenere la commozione, prese la vecchia signora per mano e l’accompagnò al suo seggiolone, poi, prese una coperta e gliela sistemò sulle gambe, si recò accanto al caminetto, prese un pezzo di legno dal cesto accanto e riattizzò per benino il fuoco, si avvicinò alla vecchia signora, poggiò le sue labbra sulla testa canuta e la baciò con tenerezza. Attese che Olderico controllasse le provviste e sistemasse alcuni suppellettili, gli si avvicinò all’orecchio e gli sussurrò: - amico mio, che ne diresti di portarcela con noi, oggi stesso, a palazzo, le facciamo preparare una bella camera  col camino e mettiamo una serva giovane e affettuosa a sua disposizione. – Olderico  lo guardò e poi disse: - no maestà, in questa stamberga ci sono tutti i suoi ricordi, lei per la sua autonomia e la sua libertà ha lasciato con mio padre il vostro palazzo, è qua che ha vissuto il resto della vita, attorno alle sue piccole ma preziose cose, le sue sedie impagliate, il suo letto di tavole, le sue brocche d’argilla, il suo lavabo di pietra, il suo focolare fatto dai blocchi squadrati da mio padre, i suoi santini attaccati alle pareti. Alla sua età, se le togliessimo anche i suoi feticci, cosa le rimarrebbe, forse, quello che ormai non le serve più. -  Carlo  capì, guardò verso l’anziana signora, le si avvicinò, staccò la sua borsa di renna dalla cintola e la pose sulle ginocchia di lei e, col suo giullare guadagnò l’uscita.
  L’esperienza di sortire fuori dal palazzo reale vestito da popolano in compagnia del suo giullare, Carlo la ripetè tante altre volte e, per ognuna di esse, scoprì una cosa nuova: gli angoli più reconditi di quella città, le bettole, i luoghi malfamati, le locande con i tavernieri disonesti, le confraternite dei frati questuanti, le botteghe artigiane, i rioni degli artisti, i luoghi di culto e, tutte le volte che qualcuno ebbe di bisogno, nell’incognito, da quell’uomo generoso che era, svuotò la sua borsa. Olderico con lui si divertiva, il suo re era un uomo pieno di humor, ridanciano e burlone anch’esso, gli piaceva la tavola ruspante delle bettole e lo divertiva il linguaggio talvolta triviale delle taverniere. Dall’osservazione attenta del mondo esterno al palazzo, Olderico coglieva ogni spunto per costruire le sue storie divertenti, le sue burle, i suoi racconti pieni di ilarità che sapevano addolcire i momenti meno felici dell’intera corte.
  Carlo V d’Asburgo era un uomo tollerante, pur essendo cattolico, incoronato da Papa Clemente VII a Bologna, fu conciliante con i principi protestanti pur avendoli sconfitti. Nel 1547 firmò la pace di Augusta che riconosceva il principio della libertà religiosa. Nell’estate del 1556 abdicò in favore del figlio Filippo II.
  Dopo che ebbe abdicato, Carlo V si rese conto che ogni onore resogli durante il suo regnare era dovuto alla sua carica e non alla sua persona, questo lo rattristò molto, solo Olderico era stato sincero con lui. Spesso i suoi successori gli fecero mancare persino i mezzi per pagare i dipendenti. Ne soffrì molto Carlo, lui che era stato generoso doveva quasi pietire per sopravvivere, era diventato un uomo attempato, anche se conservava in pieno la sua regalità. Un giorno Carlo incontrò sulla via Olderico, il suo buffone di corte, il suo amico più fidato e con rispetto lo salutò. Il giullare confuso e sorpreso esclamò: - maestà, siete troppo buono a togliervi il cappello dinnanzi ad un pover’uomo come me! – No – rispose il vecchio imperatore – l’ho fatto perché adesso non ho più nient’altro da darti se non questo piccolo segno di cortesia. -




Spero di avervi divertito e di avervi dato un momento di riflessione,qualora non ci fossi riuscito, vi chiedo venia.


Sono graditi, qualora lo vogliate, commenti e giudizi,
                              Grazie.

sabato 24 marzo 2012

L'ULTIMO ATTO DELLA VITA... LA MORTE... LUNEDI'... POESIA!!!!





L'ULTIMO ATTO DELLA VITA...LA MORTE

A seconda delle diverse epoche e civiltà è cambiata l'idea di ciò che costituisce la morte. In occidente la morte è stata considerata come l'abbandono del corpo da parte dell'anima. Secondo questa concezione, l'essenza dell'essere umano è indipendente dalle proprietà fisiche. Poiché l'anima non ha manifestazioni corporee, la sua uscita dal corpo non può essere vista o determinata obiettivamente e, quindi, il segno della sopravvenuta morte è la fine del respiro. Nei tempi moderni la morte si ritiene coincidere con la cessazione delle funzioni vitali, quali la respirazione e la circolazione sanguigna. Tale convinzione ha, cominciato a vacillare quando la medicina ha reso possibile la respirazione e il funzionamento cardiaco con l'ausilio di dispositivi meccanici. Per ciò, in tempi recenti è stato introdotto il concetto di morte cerebrale, dove a indicare l'avvenuta cessazione è la perdita irreversibile dell'attività cerebrale.
     La morte fa parte della vita, è la sua antitesi, essa è l'ultimo atto di una grande opera. L'uomo stenta ad accettarla.
Coloro che studiano l'ambiente e le esperienze interiori degli individui in procinto di morte hanno intercettato parecchi stadi attraverso i quali passano i morenti: rifiuto della morte e isolamento ; rabbia, ira, invidia e risentimento, non riescono ad accettarla; contrattazione, depressione, in quanto non si spiegano a cosa serve e, accettazione. La maggior parte degli studiosi ritiene che l'ordine degli stadi attraversati non sia prevedibile in alcun modo e che tali fasi si possano alternare con sentimenti di speranza, angoscia e terrore. Le persone care coinvolte attraversano fasi di rifiuto e di accettazione. Il lutto, comunque, segue di solito una sequenza regolare, che spesso inizia ancora prima della morte di un caro e che può aiutare ad alleviare la sofferenza successiva. L’assistenza richiede qualità particolari da parte dei familiari, che devono aver elaborato la propria paura di morire per poter confortare adeguatamente il paziente.
     La morte dei genitori è nelle cose, fa soffrire ma alla fine la si accetta e viene fuori col tempo la rassegnazione. Il contrario, la morte di un figlio, non è nelle cose, non si accetta, è contro natura. Non arriva la rassegnazione e il dolore segna per tutta la vita i genitori, senza che il tempo riesca a cancellarlo.





[...    Un mattino di maggio, quando i raggi del sole, in una città come Palermo, costringono ad alleggerire l’abbigliamento, e quando i platani del grande viale sono al massimo della rigogliosità, Gertrude, al capezzale della madre, la sentì gemere. Come se, per un attimo, tutto fosse ritornato a dieci anni prima, in un momento di lucidità, Matilde accostò la sua mano a quella della ragazza, accennò ad una flebile carezza, ed a mezza voce:
- Figlia mia, grazie per il tuo sacrificio, non mi hai lasciata sola un istante, Iddio, buono e riconoscente, ti renderà grazia. Siamo giunti, sta per arrivare il momento che ci lasciamo per sempre.

Una bava fuoriuscì dalla bocca di Matilde e Gertrude le asciugò le labbra con un tovagliolo.
- Mamma, cosa dici, non mettermi paura.
- No figliola, i tuoi occhi non possono vedere, quelli di una morente si. In questa camera sono due giorni e due notti che son seduti ad aspettarmi tutti i miei cari defunti, mio padre, mia madre, mio marito ed i miei nonni. C’è pure una signora che io non conosco, ha circa quarant’anni, bellissima, coi capelli bruni sciolti sulle spalle, due occhi neri e profondi, due mani grandi, ed un neo sulla sua guancia sinistra e, sorridente, non ti ha tolto gli occhi di dosso.

Gertrude fu percorsa da un brivido, le sue mani tremarono, si guardò attorno ma non vide nessuno. Quella donna che Matilde aveva descritta con dovizia di particolari era sua madre. La donna scoprendo il volto teso pieno di stupore della ragazza:
- Figlia mia, non aver paura, loro son venuti per me, mi accompagneranno per condurmi al cospetto del Giudice Supremo.

Accennò un lieve sorriso Matilde, il sorriso di una madre che intende far coraggio alla figlia.
- Gertrude, sull’uscio ad attendermi c’è un vecchio con una lunga barba, vestito di un saio marrone stretto alla cintola con un cordone, porta in braccio il Bambin Gesù, lo bacia sulla fronte, ed il Bambino giocherella con la sua barba, è San Giuseppe, non facciamolo aspettare! Ti prego, avvicinati, lascia che le mie labbra sfiorino per l’ultima volta il tuo viso.

Gertrude strinse con tenerezza al seno sua madre, poggiò la sua guancia alle labbra di lei e sentì il suo ultimo respiro. ...]

(Tratto dal romanzo GERTUDE di Mario Scamardo)






[ ... Una settimana dopo, prima che il giudice incaricato di svolgere le indagini relative all’omicidio la sottoponesse ad interrogatorio, legò un lenzuolo alle sbarre della finestrella della sua cella e si suicidò impiccandosi.    Dai giornali, il giudice Palagonia apprese la morte della Bianchi, provò pena e rabbia, si disperò e pianse. Andò al suo funerale e pose l’ultima rosa rossa sulla sua bara.
         La metamorfosi si era compiuta in tutte le sue fasi, Rosetta aveva riempito tutti i vuoti della sua esistenza ed era approdata all’ultimo, il peggiore! ... ]

(Tratto dal romanzo "Il fascino delle mutazioni" di Mario Scamardo)



[ ... L’anziano genitore, ormai ridotto ad un relitto, col suo viso di sofferenza, trovò la forza di muovere la sua mano, di sfiorare quelle di Giulia e di sussurrarle con un filo di voce: - Alzati e siediti, vedi, oramai non ho più nulla da darti, sei tu che stai dando a me, il mio tempo è quasi finito. I figli si vogliono bene tutti alla stessa maniera, tu sei la più dolce e sei colei che ha saputo soffrire più in silenzio, così come ho fatto sempre io, me ne sono accorto, ma non sono mai riuscito a trovare le parole e il modo per alleviarti il dolore. Vi ho amato tutti, senza fare uso delle parole che spesso rimangono tali e vuote del loro significato. Tua madre, come me, vi ha amato intensamente, stalle vicina, non perdere mai il contatto con i tuoi fratelli, loro non ti hanno mai tradito e mai lo farebbero. – Strinse le dita di Giulia e stanco, chiuse gli occhi e si addormentò. Ogni notte la ragazza lo vegliò, e la colsero spesso la paura e l’ansia di potersi immergere in un sonno profondo e non poter rispondere alle esigenze del padre. I suoi occhi erano cerchiati e, spesso, dimenticava di consumare il pasto.
         Era una giornata di pioggia, tutta la famiglia era raccolta a casa di Giulia, il padre chiamò figli e moglie,  fece cenno acchè si avvicinassero, e con quel fil di voce che gli rimaneva disse a Maria: - Abbi cura di tua sorella, i troppo buoni non sempre sono fortunati, spesso, la loro bontà viene travisata e la cattiveria umana non ha limiti. Guai al buono che si fida troppo, tutti cercheranno di approfittare di lui, ricordati che siete agnelli in mezzo ai lupi. Sulle colline attorno al paese, ho imparato, a mie spese, che la bontà è un pregio, ma è anche un difetto. – Cercò le mani del suo ragazzo, le strinse e gli sussurrò: - Le pecore nello stazzo belano, le loro mammelle sono piene di latte, vogliono essere munte, non farle soffrire, la loro generosità non va punita, altrimenti, quello che ho detto un istante fa, è come se l’avessi predicato al vento. – Mentre, a testa bassa, il ragazzo andava via a compiere il rito della mungitura, il vecchio pastore chiese alla moglie di rimanere solo con lei, l’accarezzò sul viso per l’ultima volta, chiuse gli occhi e si addormentò per sempre. ... ]

(Tratto dal romanzo "I sette giorni della trasgressione" di Mario Scamardo)




LA DOLCE DIPARTITA

Gli occhiali in un cestino da lavoro
dove ella con cura li ha riposti,
sulla poltrona, alla penombra,
il corpo appesantito di mia nonna;
il suo spirito oltre il davanzale
ha intrapreso il viaggio di ritorno.





PIANTO DI MADRE

Tra vomeri che penetrano il terreno
e ribaltano antiche zolle
mucchietti di bianche ossa.
Rotola un teschio
forato alla tempia
dall'espressione crucciata
e stuoli di formiche giganti
attraversano le occhiaie
quasi a sostituirsi
ad un pianto interrotto
per un figlio infelice
che solerzia dell'uomo
ha spezzato la pace
di un sonno infinito.
Attorno il grigiore
che annulla le ombre,
la pioggia pietosa
cade copiosa dal cielo
per bagnar quelle ossa.
E' pianto di madre
che non trova pace
nè tomba marmorea
nè stele negata.




UN'AQUILA

Lento le trasporta il vento
le piume soffici di un'aquila,
ad una ad una, giù per i crinali...
e in cima alla vetta il nido
perde le sue paglie piano piano,
restano solo stocchi rinsecchiti
e quà e là qualche penna.
Il dolce librarsi non è più,
non più il planare,
non più le carezze dell'aria,
non più padrona del vuoto,
non più pigolii di nidiata,
non più volteggi nel cielo
col compagno di sempre
e coi pulcini già adulti
che intrecciano voli.
La sua maestà svanisce
e dal becco striduli suoni.
Un sole si spegne!...
Gli occhi, luminosi fanali,
due stelle splendenti nel buio
sono guida per i suoi aquilotti...
il suo grido d'aiuto non rompe il silenzio,
attorno, il suo mondo senza udito!...
... e l'Olimpo popolato di sassi
reclina il capo impietrito.
L'austera regina, ormai quasi implume,
sorride ancora, ancora,...ancora.



Il conforto della famiglia, nel dolore, conferisce dignità alla morte. "Sorella Morte" la chiama San Francesco, si, sorella morte la chiamano i derelitti, sorella morte, liberazine dalle sofferenze, unica compagna, talvolta agognata da chi solo, senza affetti, senza calore alcuno, si pone in attesa...
     Ho visto morire un barbone che s'era trascinato a stenti sulla gradinata di una chiesa, con la mano sinistra indicava il portone, con la destra accennava ad un segno di Croce. Aveva incontrato la morte, forse gli aveva chiesto un minuto per entrare a ringraziare il Creatore... lei, drastica, aveva fermato le lancette della sua vita. L'unico conforto, un santino che usciva a metà da una tasca assieme a una crosta di pane raffermo, forse la sua Eucarestia....



MINNICU

Lu passu stancu,
lu jri silinziusu, mutu...
La morti a sensu cuntrariu
marciava lesta e maistusa.
Ormai nenti cci facia cchiù scantu,
nuddu cci putia dari timuri;
ogni attimu spirava fussi chiddu
di l'abbrazzu finali...
Un scaluni di nna chesa,
l'occhi a lu celu,
un signu stancu
di nna fatta a cruci...
La testa a facci all'aria
'ncapu lu scaluni appressu,
lassannu all'arma chi nisciu
la vista di li stiddi.



La vita si conclude con la morte, ne abbiamo parlato, se ci consente di riflettere, abbiamo aggiunto un tassello alla nostra maturità.    
                              Grazie per l'attenzione.