venerdì 9 settembre 2016

Perché poesia…. 09.09.2016


















Perché poesia….

E possibile mettere un punto fermo nella vita, accettandoci per quello che siamo, per essere dotti da dove partire o su cosa star fermi se lo vogliamo, su come costruire e da dove cominciare a migliorarci o, se proprio vogliamo, a perderci?

Lunica libertà vera è lamore, dove sogno e fantasia la fanno da padroni, dove il pensiero, come airone nel cielo, vola e, talvolta, si trasforma in poesia. 




Il mio bruco variopinto
                                               

Cosa c’è di più bello

di una notte di luna,

di un cielo ammantato di stelle,

del sorriso di un bimbo,

del volo di un uccello,

del rumore dell’acqua,

del canto del vento,

di una farfalla su un fiore,

di due libellule amanti,

del silenzio del deserto,

del profumo dell’erba,

del sole che sorge,

del rosso di un tramonto,

del germinare di un seme,

di due occhi lucenti…

Rimanere incantato

davanti ad un bruco variopinto

e godere del suo muoversi lento

su foglia di rosa scarlatta.

Ogni giorno a guardarlo

ed amarlo silente

per interminabili ore,

e sognare, sognare…

Poi, metter le ali e vederlo andar via

attratto da mille colori,

da un campo di grano,

da un prato disteso,

da mille lustrini…

Ed io che l’ho amato,

accarezzato con gli occhi,

costruito i miei sogni,

l’ho perso di vista,

s’è confuso tra i campi…

S’è portato via la speranza

e mi ha spento il sorriso.









CHE FESSO SON STATO!...



Che fesso son stato!...

La tua falsa innocenza,

la tua semplicità apparente,

il tuo essere bambina ad ogni costo,

le tue voglie da fanciulla viziata,

il tuo essere indifesa,

i tuoi musi lunghi ad un rifiuto,

le bizze per un film perso,

e le richieste sempre esaudite.

Sono stato cameriere e servitore,

l'autista e il tuo accompagnatore,

l'uomo delle fatiche, il tuo facchino,

tu capricciosa principessa

ed io umile schiavo...

Sono stato forse anche il tuo trastullo,

solo un capriccio di breve durata,

un oggetto da usare e buttar via,

uno dei tanti ninnoli che passano di moda.

Che fesso son stato!...

Mi son privato d'una sigaretta,

ho riciclato scarpe e pantaloni,

non t'è mancato nulla,

ogni giorno un pensiero,

ogni giorno un regalo...

Non è per il valor che mi lamento,

ti ho regalato tutto con il cuore,

ma tu hai solo giocato

com'hai sicuramente sempre fatto,

e m'hai fatto soffrire...

Non sai cosa siano i rimorsi,

la tua vita è un gioco

coi sentimenti degli altri,

il trastullo più crudele,

sei stata il peggior baro.

Che fesso son stato!...

Non ho capito nulla,

ancor oggi ti sono servitore

senza dirtelo o fartelo capire.

Possiedo ancora per te l'ultimo bene,

se occorresse ti darei la vita!






LE LUNE D'ARGILLA



Se non avessi ascoltato mio padre

sarei emigrato su al nord.

- che direbbe la gente?

Tu unico figlio amato allo stremo

in terra straniera

alla pari di uno zingaro...

e allora rinuncio!

Se non avessi ascoltato i miei nonni

sarei missionario in Uganda.

Non potei zappare la terra

perchè indecoroso, eppure,

il mio babbo fu contadino.

La gente, che brutta cosa!

Scegliere percorsi di vita

per convenzione sociale

e vivere per sospirare

e annoiarsi e annullarsi

per quanto non amo.

La gente, odiose lune d'argilla,

traboccanti di pregiudizi,

che mi ruotano attorno

e cambiano forma

e s'adeguano ai tempi

affogando le mie libertà.

Tiranne false lune

che m'avete imprigionato

tra i gangli delle vostre false morali,

le vostre illusorie verità,

che m'avete tappato la bocca,

che m'avete asfissiato...

vi sfido brutte lune,

provate anche per un istante

a incatenare il mio pensiero!





D'IMPROVVISO...



Come d'incanto un sogno,

un desiderio mai nato,

un turbine alla mente

e un tuffo al cuore...

d'improvviso come folata

in giorno sereno.

Scemo che sono!...

Mai m'ero accorto

di avere ad un passo

la cosa più bella

da sempre sognata.

Cieco son stato,

con gli occhi di latta!

Un'anima enorme

e due grandi braccia

capaci di darti la vita.

Un fascino colmo

di ragioni sennate,

di grazia che avvampa,

di sentimenti maturi,

di scelte volute,

di attimi rari,

di voglie aberranti,

di sete d'amore,

di eccelsi pensieri...

La cosa più bella

è scoprire che esisti

e dividi il pensare

con la dea più ardita;

come vorrei rinascere ancora...

rinascere dentro di lei

e recuperare il tempo perduto!

Forse mi resta soltanto il sogno,

ma io non dispero.

Tanto, che importa se devo aspettare,

un solo mattino

di sole splendente

vale con lei una vita!

Mi manca, da farmi soffrire,

mi manca il suo tono argentino,

i gesti delle sue mani,

la sua intelligenza,

il suo fascino antico,

il suo fare aggraziato,

il suo odore che sa d'ogni fiore,

la sua cocciutaggine,

il suo lieve sorriso.

Come fiume in piena

ha attraversato la mia valle,

ha travolto ogni cosa

e mi ha fatto sognare.

Indomata puledra

ha scalpitato nel mio petto,

e mi ha tolto la pace.

Forse, ancora cent'anni,

forse, son mille e più,

ma io son felice per lei

e le voglio più bene.

Paletti? Quanti ne vuole!

Argini? Io son muratore!

Il pegno? La vita mia!

Domani? Sarò ancora a pensarla,

fino al cessar del cuore.

Se sull'Olimpo fossi a comandare

di lei farei un bruco variopinto,

l'attrezzerei con due grandi ali

per completare la sua libertà.





"... i vicoli del "Cortile Cascino", luogo tra i più degradati e malsani della Palermo degli anni '50. Il quartiere, che sorgeva alle spalle della Cattedrale, era un vero e proprio ghetto, dove uomini donne e bambini, che coabitavano con la sporcizia, con migliaia di topi e con milioni di scarafaggi, vivevano segregati e abbandonati nell'abbrutimento e nella miseria senza alcuna speranza. D'inverno, il quartiere, sprovvisto di fognature e servizi, diventava una palude malsana, veicolo di infezioni spesso mortali. E tutto questo accadeva sotto lo sguardo incurante e indifferente degli amministratori e dei cittadini bempensanti...."

(Danilo Dolci) 

[Nota al "I Semi del Melograno nano" Ed. NOVECENTO di Mario Scamardo]






FIGLI DI UN DIO MINORE



Stracci, stracci, ancora stracci!...

Nugoli di bambini affamati

col volto coperto di mosche

e i pancini pronunciati

scavano tra i rifiuti assieme ai cani;

occhi tristi e lucidi,

gambe rinsecchite,

mani vuote con le palme al cielo.

Madri smunte dai seni asciutti

stringono scheletri animati

e mosche, sempre e solo mosche!...

Sulla pista polverosa sfreccia un'auto,

sopra, una signora leopardata

col climatizzatore acceso

fa mille scatti con la sua "Minolta"

e ride e beve "Coca Cola".

Il sole allo zenith picchia

e asciuga l'ultima pozzanghera,

ruba l'ultima acqua

e da le crepe al fango

ed alle pelli dei bimbi

tra rifiuti e stracci,

forse, figli di un Dio minore...









E’ STATA COLPA DEL GABBIANO !



Sulla plancia guardavi l’infinito

e una brezza sfiorava i tuoi capelli,

il tuo volto, le tue braccia scoperte…

un paio di guizzi, forse un delfino.

Poggiai la mia giacca sulle tue spalle,

non dicesti nulla, solo uno sguardo,

due occhi profondi e neri,

le sopracciglia esprimevano un cruccio

e ci fu compagno un lungo silenzio.

Cercavi qualcosa o sognavi,

chi eri? Forse una creatura del mare,

dell’azzurro infinito coi suoi misteri,

ninfa leggiadra o ammaliante sirena.

All’orizzonte affiorò dalle acque,

lentamente, coi suoi pallidi raggi,

il più ingannevole degli astri, e tu,

incantata, sempre a mirare nel vago.

Mi distrasse un gabbiano gracchiante,

poggiato sulla cima d’un pennone,

stava spiccando il volo, un attimo soltanto,

in un baleno, non c’eri più… svanita!

All’orizzonte una scia luminosa

si perdette nell’immensità del cielo.

Su un sedile, la mia giacca piegata,

con sopra un pettinino in madreperla.

Chi eri? Forse una fata, certo una strega

che mi rubasti il sonno e la ragione.

Non ho sognato, ne son certo, e  ritorna

il magone allo spuntar della luna.

E il gabbiano?... un diavolo!...

o forse tu stessa, che pigliavi il volo.

Ti cercai tra la gente invano,

fino a scrutar le onde pacate…

dissolta nel nulla come angelo o demone,

che rabbia! E’ stata colpa del gabbiano!










IL VIOLINO DEL DIAVOLO



Silenzi infiniti, alternati soltanto

dallo stridulo suono d'un violino.

Posto ritto davanti a uno spartito

si approccia allo studio un bambino.

E' nella villa ovattata di fronte

recintata da muri e cancelli,

e dietro le tende di fine broccato

se ne intravede l'esile sagoma.

Sul foglio che è sempre lo stesso

ho scritto soltanto poche righe,

due frasi appena accennate

di scarso valore e poca maestria.

Una storia, da tempo iniziata

che racconta un amore infinito

e angosce, traversie, dolori e timori.

Il silenzio sovrano mi ammanta,

amico paziente ma vuoto,

compagno di tutte le ore...

eppure, in sua compagnia

ho scritto le lodi più ardite,

ma sentivo vicino il calore

della musa che m'aveva ispirato.

Or seduto ripiglio la penna

ma ritorna al mio orecchio

quello stridulo suono che è beffa;

mi distrae, mi annebbia la mente,

mi mette addosso un certo timore,

su, nel cielo cupo e rossastro,

uno stormo di neri uccellacci.

In giardino il vento impetuoso

fa parlare i cardini di un vecchio cancello.

Ammicco la tenda della villa di fronte

e noto un'insolita sagoma strana,

dimena l'archetto con goffe maniere,

non è più il bambino aggraziato,

è il diavolo col suo violino!







... e il tempo?...



Tic... tac... tic... tac...

le nuvole di cotone lente camminano

tra polveroni e fumo

e sembrano dondolarsi.



In una stradina angusta,

una capra rosicchia una pala

e mastica e rimastica

senza smettere mai.



L'ombra di un campanile

s'allunga a dismisura,

tutt'attorno solo fruscii

di olmi ed eucalipti...



Tic... tac... tic... tac...

in una vecchia fontana

l'acqua rugginosa cade a goccia a goccia

addosso al rospo più vecchio.



Una mignatta sinuosa e lenta

aspetta il muso di un mulo

e una vespa fa festa

sulla carcassa di un sorcio.



Sul marciapiedi sterrato

russa un cane levriero

e due zecche grasse grasse,

come due usurai, gli succhiano il sangue.



Tic... tac... ti... tac...

Pietro Greco guarda fisso

il girare cadenzato dell'unica lancetta

di un'orologio senza cifre,



- Pietro, che fai figlio?

- Faccio il siciliano,

controllo se il tempo che passa

impiega sempre lo stesso tempo...



Tic... tac... tic... tac...










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