"Per ogni uomo giusto, ogni giorno è Natale."
Dedicata ai bambini, nella consapevolezza che le favole le leggono i grandi. La favola è il regalo che un bambino non dimentica mai e lo accompagna tutta la vita, sia col suo narrato che con la sua morale.
Il folletto della
Rocca di Maranfusa
(Tratto
da: Il Favoliere – Cucù e le sue
storie
di Mario
Scamardo e Sara Riolo – edizioni ila palma)
Seguendo il
corso del fiume Belice dalla sorgente alla foce, a metà strada circa, Ugo de
Moncada, viceré di Sicilia durante il regno di Carlo V di Spagna, volle
fermarsi per ammirare la bellezza del ponte di Calatrasi, costruito a schiena d’asino
dagli arabi, che consentiva il passaggio dall’una all’altra sponda di carrozze
e cavalli e l’opportunità di raggiungere la Rocca di Maranfusa, dove
superbamente svettava ancora quanto era rimasto delle torri di un enorme
castello fortificato.
Nessuno del
seguito osò chiedere perché le carrozze non avessero continuato la marcia per
la città di Sciacca. Conosciuto il carattere un po’ scontroso del viceré,
lasciarono che lui decidesse sul da farsi, mentre il sole era già arrivato allo
zenith e le ombre tendevano ad allungarsi. Fu chiaro che, così come avevano
fatto disporre le cinque carrozze e i quattro carri dei bagagli e delle
masserizie, era sua intenzione di far passare la notte nei pressi del castello
di Maranfusa.
CASTELLO DI MARANFUSA
Prima che si
facesse buio furono approntate le tende, disposti i turni di guardia e accesi
tanti fuochi da far sembrare le vestigia dell’antica fortezza animati da chissà
quante presenze, per il movimento delle mille ombre. Sui ceppi accesi furono
improvvisati decine di spiedi e furono sturati barilotti di vino al miele. Il viceré
li riceveva ogni anno in omaggio dal vescovo di Monreale, per le gabelle dei
feudi di Jato, della Chiusa, della Signora, dei Mortilli.
Finite che
furono le libagioni, alimentati i fuochi, Ugo de Moncada volle che tutti si
riunissero ad ascoltare da Rosario Balsamo una storia che lo aveva incantato,
la storia del folletto della rocca di Maranfusa.
Rosario,
cocchiere del viceré, era suo amico d’infanzia, uno che sapeva starsene al
posto suo. Il padre e il nonno avevano fatto sempre i cocchieri personali dei
rampolli della famiglia Moncada, conoscevano le loro abitudini e pure certi
loro piccoli segreti.
Postosi
accanto al suo signore, guardò tutt’intorno e cominciò il racconto.
“Era una
serata buia, piovigginava e il vento sibilava facendo sollevare le bionde
criniere dei quattro sauri attaccati alla carrozza di don Pietro Baamonte, zio
materno di sua altezza reale, eravamo di ritorno dal castello della Sambuca e
la strada non consentiva di procedere spediti, un po’ per le pozzanghere, un po’
per la mota che talvolta sfiorava i mozzi delle ruote. Sentii bussare a
cassetta e tirai le redini, chiesi a sua eccellenza quali fossero i suoi
desideri. Lo vidi spossato per il viaggio faticoso.
Don Pietro
si sporse dal finestrino, scrutò l’orizzonte mentre si caricava di nubi
rossastre e mi disse: <<Rosario, figliolo, il tempo non promette nulla di
buono, il fiume potrebbe ingrossarsi, al ponte di Calatrasi passa sull’altra
sponda e portami lassù, sulla rocca di Maranfusa, là aspetteremo che si faccia
giorno e con le prime luci dell’alba ripiglieremo il viaggio per
Palermo.>>
<<Eccellenza,>>
risposi, << ma sulla rocca ci sono solo ruderi, e il vento soffia ancora
più forte, non c’è riparo, e non c’è anima viva che possa offrirvi un caldo
giaciglio.>>
<<Rosario,>>
mi rispose, <<le nubi all’orizzonte sono rossastre, è buon segno, appena
sarà buio il vento si calmerà e anche se dovesse piovere stanotte, domani sarà
una giornata assolata. Vedi, figliolo, la Sicilia ha questo pregio, qui piove
mentre splende il sole, gli inglesi se le sognano queste cose …>>
<<Come
vuole voscenza,>> risposi.
Diedi due manate sulla mia palandrana per spazzare gli schizzi di fango
accumulati durante il percorso, calcai la feluca inzuppata e salii in cassetta.
Al primo schiocco di frusta i quattro sauri si misero al passo e, superato il
ponte arabo, iniziammo la salita verso il vecchio castello.
Giunti che
fummo a Maranfusa, accostai la carrozza sotto la murata di un torrione, scesi
da cassetta, e mi premurai di aprire e di abbassare la scaletta per far
scendere don Pietro (soprattutto per i suoi bisogni corporali, data la
veneranda età).
Il vento si
era man mano attenuato e non piovigginava più. Raccolsi un po’ di sterpi e
legna, accesi un fuoco e tirai dal bagagliaio il cesto delle vivande ed una
fiasca di vino rosso.
Don Pietro
Baamonte mi invitò, come aveva fatto altre volte, a dividere con lui il pasto,
davanti al fuoco consumammo buona parte delle scorte. Alzatomi per prelevare le
coperte dalla carrozza, fui attratto dal movimento rapido di qualcosa, pensai
fosse una lepre, ma le lepri non possiedono minuscole braccia e non calzano
berretti rossi … Un essere piccolo e veloce mi passò davanti come un fulmine,
stentai a seguirlo con lo sguardo e non potei fissare la sua immagine nella mia
mente, ebbi quasi paura.
<<Eccellenza,>>
esclamai, <<sarà la stanchezza o il vino, ma un essere piccolo e buffo
con un berretto rosso salta rapido di pietra in pietra … Io non riesco a
seguire i suoi movimenti. Si muove come una saetta, sembra voglia prendersi
gioco di me.>>
Il vecchio
saggio si alzò, mi venne accanto, senza stupirsi per la presenza di quell’esserino
buffo e saltellante, e sussurrò: <<Rosario, non aver paura, quelle che si
raccontano per leggende, talvolta si rivelano verità. A Maranfusa è sepolto un
tesoro, a guardia c’è un folletto dal berretto rosso, e saltella senza soste
per far si che nessuno possa seguirlo e si stanchi di cercare il suo
tesoro.>>
Pensai che
don Pietro volesse burlarsi di me e gli chiesi: <<Eccellenza, come sapete
voi queste cose, e poi, chi volete che seppellisca un tesoro tra queste rovine?
Signore, io sono ignorante; se vi fa piacere, burlatevi pure di me.>>
Quell’essere
saltellante non mi diede pace, fino a quando gli occhi mi si stancarono nel
seguirlo tra le rocce
<<Rosario,>>
riprese il mio padrone, <<c’è un modo per venire in possesso del tesoro,
tu devi essere più rapido del folletto; con una mossa fulminea devi strappargli
il berretto; allora egli si fermerà sul posto dove è nascosta la pignatta colma
di monete d’oro. Sii come un fulmine, ghermisci il suo berretto rosso e gli
strapperai il segreto!>>
E si alzò per
andare a riposare in carrozza, invitandomi a dividere con lui l’abitacolo per
la notte.
Seguii ancora
per un po’ i guizzi del folletto, poi mi addormentai.
L’alba
arrivò presto e il sole si levò piano piano nel cielo. Riattaccai i cavalli e
svegliai il mio padrone. Pronti che fummo per partire, il folletto spuntò di
nuovo a saltellare davanti a me e con le piccole mani mi lanciò due monete d’oro
che tintinnarono ai miei piedi. Le raccolsi, le osservai sul palmo della mano:
sul dritto era coniata una mezzaluna, sul rovescio una scritta araba. Salii in
cassetta e, tirate le redini, i sauri ripresero il cammino, prima in discesa
verso il Belice e poi verso la capitale.
Giunto a
Palermo, rinfrancato da una buona minestra e da alcune ore di sonno, ripresi
fra le dita le monete e mi tornò alla mente il folletto, non più grande di una
lepre, col suo berretto rosso e la barbetta brizzolata. Ripensai alle parole
del mio signore, forse non si era burlato di me, le due monete ne erano la
riprova. Salii lo scalone del palazzo e vidi in fondo alla biblioteca sua
eccellenza assorto davanti ad un grande tomo. Con le monete in mano chiesi
permesso, mi chinai con riverenza, e il vecchio saggio mi invitò a sedere
dinanzi a lui. Accostai la sedia, mi accomodai mostrandogli i due pezzi d’oro e
raccontai che il folletto me li aveva lanciati prima di salire a cassetta.
Sua
eccellenza non si mostrò incuriosito, prese le due monete, guardò dritto e
rovescio e me le pose in mano dicendomi: <<Sei fortunato, adoperale per
fare un’opera buona, il folletto potrebbe ripagare cento volte il tuo atto di
amore …>> Abbassò gli occhi sul tomo ed io, scostandomi dal tavolo e in
punta di piedi, uscii dalla grande sala dei libri. “
Terminata la
narrazione, Rosario Balsamo incrociò lo sguardo col viceré e capì che poteva
sedersi anche lui davanti al fuoco.
Stupiti,
tutti i presenti cominciarono a commentare tra loro la storiella del folletto,
e i discorsi pian piano si fecero sempre più accesi. Tutta la rocca fu invasa
da un intreccio di voci. Sembrava un racconto fantastico e qualcuno pensò che
il viceré, un po’ buontempone, servendosi del fedelissimo cocchiere, si
divertisse a far stupire il suo aristocratico seguito.
<<Bravo,
bravo!>> apostrofò qualcuno rivolgendosi a Rosario. <<Abbiamo sentito
una bella favola … Ma a che serve?>> E una dama sdraiata su una coperta
scozzese: << Sua eccellenza non poteva scegliere di meglio per allietare
questa serata, ma dite un po’, Rosario: avete ancora quelle monete? Potete
mostrarcele, o avete seguito il consiglio di darle a un mendicante?>>
Rosario non
rispose, toccò il taschino della sua palandrana e sentì sotto le dita le due
monete, sapeva a cosa gli servivano, il suo cuore le aveva promesse alla sua
nutrice per i giorni più bui della vecchiaia, e la sua tasca le custodiva come
uno scrigno.
Il viceré si
alzò in piedi, fece un riverente inchino a tutte le dame e si ritirò sotto la
sua tenda in compagnia dei servitori.
Rosario
attese che tutti si fossero ritirati per la notte e dopo avere alimentato i
fuochi si recò a carezzare i suoi cavalli, sistemò poi accanto ad un architrave
del vecchio maniero un po’ di paglia, si sdraiò e si tirò addosso una coperta
di lana.
Le stelle
nel cielo tremolavano, le sagome dei cavalli si intravedevano a stento, non c’era
la luna, si udiva lo scoppiettare degli ultimi ceppi e il gorgoglio lontano
dell’acqua del fiume sui ciottoli. Di tanto in tanto, un ranocchio mandava il
suo richiamo amoroso, a mille a mille i grilli trillavano, quasi scandissero il
tempo. Le palpebre di Rosario stavano per chiudersi quando qualcosa si posò
improvvisa sull’architrave: forse un uccello notturno, pensò il giovane; alzò
lo sguardo e con sua meraviglia vide il folletto dalla barba brizzolata e il
berretto rosso che lo fissava negli occhi.
Il cuore gli
battè forte e il sangue gli salì alle tempie. Nella mente gli balenò l’idea di
strappargli il berretto, ma mosse la mano sulla tasca della palandrana per
controllare le due monete riservate alla sua balia. <<Che le rivoglia
indietro?>> pensò, e quando fu sul punto di chiederglielo, il folletto
gli fece segno di tacere e gli disse sottovoce: <<Le monete che ti ho
regalato sono tue e non devi rendermele. Un poco di buono le avrebbe giocate ai
dadi o le avrebbe consumate nelle osterie, tu le hai conservate per un fine
nobile ed io voglio premiare la nobiltà del tuo cuore. Alzati e seguimi …>>
Il folletto
saltò fulmineo di sasso in sasso, zigzagò per tutta la rocca come una saetta,
tanto che a stento Rosario potè stargli dietro, poi si fermò su di un macigno e
spettò di essere raggiunto. << Mio giovane amico, non portarti via il mio
berretto rosso. Se tu lo facessi, io sarei costretto a rivelarti dove si trova
la pignatta col tesoro. Tutto quell’oro potrebbe darti alla testa e il tuo
cuore potrebbe diventare duro come un sasso, e addio cara nutrice, che ti ha
dato tutto l’amore per tirarti su quando tua madre, mentre eri ancora in fasce,
volava al cielo, patirebbe la fame ed io soffrirei non avendo più tesori da
custodire. Sarebbe per tutti la fine!>>
Gli occhietti
del folletto si inumidirono, e chinò la testa, quasi ad offrire il suo berretto
rosso. Il giovane divenne pensieroso, una lacrima luccicò sui suoi occhi
grandi, allungò una mano e lo carezzò dicendogli: <<Cosa vuoi che io
faccia?>>
<<C’è
un modo per essere tutti felici,>> rispose il folletto,
<<nascondimi sotto la tua palandrana, portami accanto al torrione di
ponente, lì c’è una grande pentola, io te la darò e tu verserai il contenuto in
un sacco. Prima che spunti l’alba, scendi al fiume, dove troverai un cavallo
bardato, che ci porterà in una fantastica villa di campagna dove potrai
accudire alla tua nutrice e rendere serena la sua vecchiaia.>>
Rosario si
estraneò come per incanto dal mondo che lo circondava, seguì passo passo le
indicazioni del folletto e si ritrovò in una fastosa villa, nel mezzo di una
pineta, in compagnia della sua nutrice e tanti servitori. Nel patio, ricco d’acqua
e di verde, quattro scalpitanti morelli erano attaccati ad una carrozza dorata.
Fuori, nel cavo di una grande quercia, se ne stava, con la sua pignatta colma
di monete d’oro che non avevano mai fine, il folletto gioioso, con la sua
barbetta brizzolata, e il suo berretto rosso, che saltellava di siepe in siepe,
con gli occhi ridenti.
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