martedì 19 febbraio 2013

LA GROTTA DEI RIFIUTATI - RACCONTO











La vita? Il dono più grande che uomo abbia mai potuto ricevere!
Chi ci ha dato la vita ci ha amato e ci ama, nella consapevolezza che l'Amore si coniuga con la speranza!

Omaggio a tutti voi un racconto breve, tratto dal libro "IL FAVOLIERE Cucù e le sue storie" di Mario Scamardo e Sara Riolo - edizioni ila palma



La grotta dei rifiutati

     A Sparta, col suo sistema politico aristocratico e conservatore, impostato oligarchicamente, non si parlava mai di trasformazioni e innovazioni, contrariamente a quello ionico-ateniese aperto e democratico, pronto alle modernizzazioni, vivo e capace di armonizzarsi con l’evolversi dei tempi.
     Gli spartani avevano creato un rigido ordinamento militare e politico in quanto la città, situata alla base del monte Taigeto, era priva di fortificazioni e doveva altresì fronteggiare le popolazioni sottomesse, ostili e irrequiete, pronte alle ribellione ed alle agitazioni. Gli iloti erano stati ridotti a servi della gleba; i perieci mantenevano le loro libertà ma non godevano dei diritti politici; gli spartiati erano cittadini di pieno diritto, dominatori all’interno di Sparta.
     Il dovere principale dello spartiate era quello di essere sempre in armi, a disposizione dello Stato.
     I bambini sani e robusti rimanevano in famiglia fino a sette anni, poi di loro si pigliava cura lo Stato e ne faceva perfetti soldati. Nel mondo spartano, i deformi non avevano diritto di vivere, bastava nascere storpi, anche se potenzialmente intelligenti e capaci, per non vedere la luce del giorno successivo della loro venuta al mondo. Stuoli di informatori lavoravano per selezionare i futuri guerrieri, per ottenere cittadini atti alla guerra, sani e forti, capaci, da adulti, di affrontare le guerre continue che la lotta per la vita e lo spirito di conquista impongono. Gli informatori erano per lo più donne, al servizio del regime, spesso vecchie e arcigne, con brutti musi, senza sorriso sulle labbra, che passavano per le strade, sbirciavano nelle case, si informavano e segnavano di nascosto gli usci delle donne gravide con un piccolo occhio stilizzato, poi, si allontanavano sapendo che quel segno sarebbe stato notato dagli uomini della guardia reale.
     A parto avvenuto, sarebbe subentrato il controllo sulla idoneità fisica del neonato, quindi sarebbe stato segnato il suo destino, vivere per essere quasi sempre un uomo in armi, votato al rischio e al sacrificio, o morire in quanto storpio, ed essere gettato come un rifiuto da una famigerata rupe del Taigeto, nella notte che precede il plenilunio. Bimbi creati per amore e dall’amore nati, solo perché deformi, solo perché iloti, venivano trattati come scarti dell’esistenza, gettati via come rifiuti.
     La rupe si sporgeva su un baratro profondo tanto da non vedersi il fondo; giù, fiere fameliche, pronte a divorare e a far scempio dei corpicini martoriati.
     Era una calda estate, vigilia di plenilunio, il pallido astro si alzava lento all’orizzonte e illuminava le campagne e le strade. Dalla città un lungo corteo si snodava in direzione della rupe, preceduto dal rullo dei tamburi, da una doppia fila di fiaccole, da uno stuolo di sacerdoti stracarichi di paramenti, da due doppie file di soldati della guardia reale; poi un carro con sopra un cesto enorme colmo di corpicini ignudi, ignari della loro sorte, e dietro, il pianto sconsolato  e straziante delle madri con i ventri ancora doloranti, per aver dato loro la vita.
     Sull’orlo del baratro, ad aspettare l’evento, le bighe dei dignitari di corte facevano bella mostra assieme ai destrieri dai finimenti lustri e agli aurighi in gran tenuta. Sparta si liberava, come ogni sera che precedeva il plenilunio, dei rifiutati, facendone quasi un omaggio alle divinità ed alla società tutta, selezionando così una razza aitante e robusta che permetteva di non provare mai più vergogna per pochi figli meno fortunati.
     Qualcuno, però, era in grado di sfatare questo mito, un’intelligenza superiore, educato diversamente, con una morale ed un’etica che non prevedeva l’eliminazione dei deboli, l’abuso sui vinti, la schiavitù. Qualcuno capace di sottrarre alla morte i bambini malfermi, allevarli, curarli, educarli, coltivare le loro intelligenze, addottrinarli con sapienza e poi, già adulti, riconsegnarli alla società per potere addottrinare a loro volta gli altri col loro sapere.
     Era un vecchio saggio ateniese scampato ai rigori delle leggi spartane, conservatrici ed oligarchiche, ed era così poco claudicante da non farsene accorgere. Abitava da tanti anni una grotta inaccessibile vicina allo strapiombo della rupe, dove si accedeva per via segreta, nascosta tra sterpi e rovi, per impervi cammini che nessuno mai aveva voluto percorrere. E poi, tutta la zona attorno alla rupe era tabù. Correva voce tra gli abitanti di Sparta che gli spiriti dei bimbi uccisi, non potendo avere accesso nell’Ade, si trasformavano in enormi calabroni con pungiglioni appuntiti come pugnali, capaci di uccidere un uomo con un sol colpo. Nulla era più falso di ciò, ma il vecchio ateniese aveva fatto si che si diffondesse la stolta notizia, ottenendo il risultato che si aspettava, che la zona diventasse tabù.
     Le nubi quasi sempre avvolgevano la rupe e l’intero baratro; a metà quasi dello strapiombo si apriva un piccolo anfratto, buio nel primo tratto e invisibile dall’alto; l’imbocco era noto soltanto al vecchio saggio ateniese. Quando era vigilia di plenilunio, al primo rullo dei tamburi che annunciava il corteo di morte, il saggio faceva venir fuori dall’anfratto, sul costone a strapiombo della rupe, una robusta rete intrecciata con morbidi ma resistenti fili di seta, che aveva la forma delle bilance che comunemente usano i pescatori nei fiumi o nelle piccole rade pescose, e quando tutt’attorno il silenzio era squarciato dalle grida delle madri, spingeva in avanti la rete e raccoglieva, uno alla volta, i corpicini dei bimbi. Non tutti potevano essere salvati, molti non sopravvivevano allo stesso viaggio, ma molti altri si salvavano e per loro cominciava la vita con un percorso che, dall’anfratto all’interno della rupe tra i cunicoli, terminava in enormi grotte illuminate, alcune da piccole aperture nelle volte, altre da grandi lampade ad olio nero che fuoriusciva da una fenditura della roccia.
     Nei diversi ambienti, a volte su piani sfalsati, abitavano assieme al saggio ateniese parecchie persone di ambo i sessi e di ogni età. Alcune erano claudicanti, altre avevano sopperito alla mancanza di un arto con protesi in legno, altri ancora si muovevano su rudimentali sedie a rotelle, per altre il tempo era stato un ottimo guaritore, si erano rimessi a posto e provvedevano a recuperare quanti più bambini era possibile per sottrarli ad una morte ingiusta.
     Sparta a quel tempo aveva una popolazione attorno ai trentamila abitanti, mediamente si calcolava che nascessero tre bambini deformi tra un plenilunio e l’altro. Ad alcune mamme, in segreto, l’ateniese affidava il compito di allevare i piccoli sottratti alla morte, insegnando i giochi della prima infanzia, inducendoli a non turbarsi quando qualcuno tentava di schernirli e abituando le loro menti a pensare che non esistono due mondi, uno degli storpi ed uno dei sani, dove i primi sono considerati inferiori o diversi dai secondi.
     Quando i bambini raggiungevano l’età della ragione venivano divisi secondo le loro inclinazioni e destinati alle varie scuole, quella alchemica, quella filosofica, quella delle arti: pittura, scultura, architettura, poesia, musica, canto e danza, arte della lavorazione dei metalli, studio dei testi sacri, delle arti divinatorie, dell’arte del governare.
     Il vecchio ateniese coordinava la vita della piccola città sotterranea. Sia pure con sacrificio, vedeva crescere i piccoli rifiutati: gli orbi, gli storpi, i balbuzienti, i muti, e li vedeva man mano diventare esperti nelle varie arti, nel diritto e nell’architettura. Anche i loro difetti fisici, piano piano, diventavano trascurabili, in quanto la loro bellezza interiore annullava ogni scherzo della natura e li rendeva amabili, e per le loro arti e per la loro cultura, necessaria a quella stessa società che li aveva rifiutati, condannandoli senza pietà.
     Il saggio ateniese, man mano che i bambini raggiungevano l’età scolare, li affidava ai vari precettori che li istruivano.
     Una parte del denaro, occorrente al mantenimento del piccolo popolo della città sotterranea, proveniva dalla vendita dei manufatti che gli stessi ragazzi producevano, un’altra parte proveniva dalla vendita dell’olio nero per l’illuminazione che sgorgava dentro la grotta, ancora una parte il vecchio saggio la otteneva ad Atene, dove alcuni notabili sapevano della sua opera e la condividevano, aiutandola.
     Le grotte erano enormi palestre, sia per i corpi che per le menti, e una dopo l’altra si susseguivano, in un intreccio di cunicoli che le collegavano, come se Dedalo avesse guidato le forze della natura quando le montagne si solidificarono. Un cunicolo dopo l’altro, una grotta dopo l’altra, grandi, piccole, tortuose o spaziose, confluivano in un bosco nascosto tra gli alti canneti e i fitti papiri di uno stagno.
     Un po’ più avanti c’era la valle ubertosa di Messene, ricca di frutteti e di messi, era lì la strada che portava a Pilo e, quindi, la via del mare per Atene, in quell’Attica in cui ognuno agognava di vivere.
     Il saggio ateniese operava tanti atti d’amore, salvava le vite, allevava i corpi e gli intelletti, istruiva i geni nelle arti e nel sapere e ne riforniva la grande Atene, dando ad ogni storpio, ad ogni cieco, ad ogni sordo-muto una sua dignità, rendendogli un suo onore, regalandogli la libertà e spezzando le catene della schiavitù in una regione come l’Attica, in una metropoli dove tutto era arte, tutto era cultura, tutto era sapere, tutto era democrazia e civiltà.
     Nelle grotte della rupe spartana la vita procedeva come sempre; attorno, nella zona tabù, qualcuno si addentrò, smarrì la strada ed ebbe paura; era l’unico figlio del comandante della guardia reale di Sparta, nella sua corazza tirata a lucido, col suo elmo cimierato, si tirava dietro il suo cavallo zoppicante e teneva la mano sull’impugnatura della spada quasi a farsi coraggio.
     Il vecchio ateniese lo seguì per un po’, poi gli andò incontro e si fermò a debita distanza; portava a tracolla un piccolo otre pregno d’acqua e quando il giovine fece il gesto di tirare fuori dalla guaina la spada, il vecchio gli offrì l’otre e lo fece dissetare. Il giovane, rincuorato, si presentò e poi domandò al vecchio sconosciuto perché si trovasse nella zona tabù e se si fosse imbattuto nei terribili calabroni dal pungiglione lungo quanto uno stiletto.
     Il vecchio sorrise, nel cogliere il terrore negli occhi del ragazzo, tirò con disinvoltura fuori dalla tunica un saccoccio contenente una polvere bianca, che era soltanto sale ridotto in polvere finissima, inventandosi ancora una furbizia; ne prelevò un pizzico e spacciandolo per polvere magica disse: - Prode guerriero spartano, china il tuo capo, lo cospargerò con questa polvere donatami da Mercurio; pronunzierò solennemente una formula sacra e tu sarai preservato dall’attacco dei calabroni assassini.
     Il giovane guerriero chinò il capo e si lasciò cospargere, poi chiese la via per uscire da quel labirinto. Il vecchio, dopo avergli fatto lasciare il cavallo e posare la spada, lo guidò fino all’ingresso della grotta, e lo fece sedere, gli chiese di ascoltarlo e disse: - Nessuno di noi sa perché siamo venuti al mondo, mentre i gatti sono nati per ripulire gli ambienti dai topi, i lombrichi per penetrare il terreno e far si che nei cunicoli scavati passi l’aria, i castori per costruire ripari; il cuore è fatto per pompare il sangue e mandarlo al cervello, la mano per usare uno strumento di lavoro o per brandire una spada o per fare una carezza. C’è uno scopo preordinato per cui gli Dei ci hanno voluto su questo mondo… E c’è possibilità per tutti gli uomini e le donne, sani o storpi, di realizzarlo…
     Il giovane lo interruppe: - Ma gli storpi non hanno alcuna possibilità di realizzare alcunché, essi non esistono, mio padre gli da la caccia sin dalla nascita e così vengono eliminati; non può uno storpio servire la causa spartana, non può difendere la città, è solo un peso per la collettività.
     Il vecchio aspettò che finisse, poi ribadì: - La mano è fatta per brandire una spada o per fare una carezza, anche perché pure per questa funzione è stata creata. L’uomo non è un essere che si accontenta facilmente; per gli animali basta una cuccia, una tana, una mangiatoia, un prato o un bosco e sono appagati. Per l’uomo ci vogliono tante comodità, amori e amicizie, impressioni strane e piacevoli. Tra uomo e bestia la differenza non è la coda, l’uomo è nella condizione di intuire la perfezione assoluta e spasima per raggiungerla. Questo spasimare dell’uomo è la molla che fa funzionare il progresso e lo induce ad avanzare… L’uomo è misero quando non capisce lo scopo per cui è venuto al mondo.
     Il vecchio allora invitò il giovane a varcare la soglia della grotta.
     Dopo il primo segno di stupore, il giovane spartano chiese dove fossero diretti, e il vecchio rispose: - Nella valle di Messene, attraversando tutto un percorso di grotte e cunicoli, vedrai tante meraviglie e ti renderai conto che la mano che profonde carezze ottiene risultati più soddisfacenti di quella che brandisce una spada.
     Il giovane attraversò le grotte e vide tanta arte, tanta bellezza, notò tanta saggezza, ascoltò musica soave, sentì cantare e vide cantare, notò i fornelli alchemici ribollire e le fucine elaborare manufatti di tutte le fogge. Nelle grotte più interne decine di ragazzi scrivevano sulle tavolette d’argilla e le depositavano in immensi scaffali. Giunti che furono all’ultima grotta il vecchio si fermò con la scusa di riposarsi.
     Il giovane spartano allora gli chiese: - Non so dove mi trovo ma ho visto tante cose belle, tanta arte, tanta maestria, tanta cultura che fuori son difficili da trovare… Chi è questo popolo che vi abita?
     L’ateniese aspettò un poco, poi rispose: - Questa è la grotta dei rifiutati. Si, proprio così, quei rifiuti umani di cui Sparta ogni vigilia di plenilunio si libera, tutti quei bimbi che non possono essere destinati all’arte della guerra, senza tener conto delle loro capacità intellettive. Io li ho salvati in buona parte li ho fatti addottrinare, li ho fatti educare… Sono loro che hanno realizzato il bello che tu hai visto, e la bellezza che ha abbagliato i tuoi occhi non ti ha fatto notare che per artefici aveva degli storpi. Ora usciremo nella valle di Messene per un intricato percorso; lì troverai il tuo cavallo e legata alla sella ci sarà la tua spada. La strada da Messene a Sparta sarà breve e tu sarai solo, durante il percorso rifletterai su quanto hai visto e sentito, potrai tornare ad annientare gli storpi o per rendergli dignità in una società civile e ordinata, consentendo il fiorire della cultura e delle arti. Non c’è progresso senza cultura! Fà che la tua mano e la mano di Sparta possano contemporaneamente brandire la spada per legittimamente difendersi, ma anche regalare carezze!  Pose la mano sulla spalla del giovane e lo accompagnò dove c’era il suo cavallo. - Monta, gli disse, - la strada è fuori da questi canneti, segui il percorso inverso del sole.
     Il giovane salì in groppa al suo destriero, calzò l’elmo cimierato e disse al vecchio: - Cosa posso fare per te?
     - Nulla e tutto, rispose il vecchio, e continuò: - Vivi la vita, perché la vita è meravigliosa!





Spero vi sia piaciuto.


sabato 2 febbraio 2013

STORIE E POESIA...QUANDO GLI AMORI...
























AMORI A CONFRONTO


Son stati tutti uguali gli amori che abbiamo vissuti? Domanda curiosa la mia, qualcosa che mi costringe a scavare nel passato, a rivivere momenti, trepidazioni, dolori e gioie, forse a far anche paragoni, ma senza mai giudicare. Lo scrigno che è la mente nasconde tesori e tra essi qualcuno di valore diverso, ma sempre importante, perchè, nel bene o nel male, ha segnato la vita.
     




Ciao Gelsomina…


Si, lo so, ti facevo arrabbiare quando ti chiamavo così, non mi andava di chiamarti Paola. Eri minuta, coperta da una gonna molto succinta e da una camiciola bianca di fine batista, che lasciava intravedere i tuoi piccoli seni acerbi. Portavi tra le mani i tuoi infradito e assieme percorrevamo chilometri di spiaggia dalla sabbia che aveva il colore dei tuoi capelli, appena sciolti sulle spalle, di lunghezza irregolare e sempre al vento, ed i tuoi occhi si confondevano con l’azzurro del mare. Quanti sassolini abbiamo raccolto, di tutte le forme e di tutti i colori, ad ognuno abbiamo dato un nome e abbiamo scritto una data, come a voler marcare il tempo, e al ritorno ci fermavamo, aspettando che l’onda cancellasse le nostre orme. 


 La sera ci incontravamo nella piazzetta, quel terrazzo sul mare, pieno di ragazzi seduti sulle panchine, di coppiette che si scambiavano tenerezze negli angoli meno illuminati, e poi scendevamo la scaletta che portava ad un piccolo molo dove, ancorate alle sagole, danzavano le barche al ritmo di una leggera risacca. Si, fu proprio in fondo al molo che timidamente ti presi per la prima volta la mano e tu, con espressione sgomenta mi guardasti negli occhi come ad interrogarmi. Poggiai per la prima volta le mie labbra sul palmo della tua mano e la baciai. Tremante, bisbigliasti qualcosa, poi, mi mollasti un ceffone. Un gesto istintivo, come se volessi difendere la tua innocenza e, due lacrime solcarono le tue gote. Avevi quattordici anni, io due in più, eravamo davvero bambini, ma nel mio cuore non c’era posto per nessuno, solo per te Gelsomina. Quasi a scusarti, mi pigliasti per mano e mogi mogi, senza dire una parola, risalimmo la scaletta, mentre la tua mano, esile, diafana, stringeva sempre di più la mia. Una panchina ci accolse, alle spalle avevamo una enorme macchia di gelsomino, una leggera brezza diffondeva nell’aria il suo profumo e tu, chiudesti gli occhi e mi baciasti sul viso. Non ti chiamai più Paola, tu fosti per me soltanto Gelsomina, e quella panchina diventò la nostra panchina.

     Settembre ci separò, la scuola iniziò il primo giorno di ottobre, e ci rivedemmo pochissime volte, Natale e Pasqua. Giugno mi sembrò molto lontano, ma arrivò e per noi ricominciarono le passeggiate sulla battigia a raccogliere sassolini, vetri colorati smerigliati dalla rena e conchiglie marcate dalle date.

     Un mattino, ti aspettai invano sulla spiaggia, non tornasti, e così l’indomani e ancora per i giorni a seguire. Un velo grigio coprì il mio volto, il mio sorriso si spense, sedetti tutte le sere sotto il gelsomino, forse illudendomi che al suo profumo potesse compiersi il miracolo di rincontrarti…

     Seppi del trasferimento della tua famiglia nel capoluogo pugliese e trovai quasi una giustificazione per tutto. Mi informai, scorsi l’elenco telefonico di Bari, non riuscii mai a parlarti, l’unica cosa che mi era rimasta era la fragranza di quei piccoli fiori bianchi odorosissimi.

     Quarant’anni dopo, all’aeroporto di Tunisi, sentii scandire un nome, il tuo, che ti invitava al banco della compagnia di bandiera, che era lì, a due passi. Mi alzai di scatto e mi avvicinai al banco, una fanciulla bionda dagli occhi azzurri, con un gonnellino rosso ed una camiciola bianca si avvicinò, dietro di lei sua madre, Paola. Ebbi un tuffo al cuore, si, era lei, sempre più bella, sempre bionda, sempre con gli occhi azzurri, con le stesse mani diafane, il tempo non l’aveva segnata. Aspettai che finisse al banco, poi, con voce quasi strozzata la chiamai: - Gelsomina… Gelsomina…  - Si girò di scatto, e si girò pure la fanciulla, mi fissò per un attimo, poi ci andammo incontro. Non riuscii a dire una parola e lei, stupita mi sorrise, strinse le mie mani, sotto lo sguardo della figlia e mi disse: - Lei l’ho chiamata Gelsomina… - Accarezzai la chioma bionda della fanciulla mentre Paola sommessamente mi sussurrò: - Scusami… quando avevo la sua età ho sognato con te il paradiso, poi… - Le poggiai un dito sulle labbra. Salimmo sullo stesso aereo e ci raccontammo un po’ della nostra vita. A Roma qualcuno l’aspettava, prelevammo i nostri bagagli, lei aprì il palmo della mano e lasciò che glielo baciassi, accarezzai con amore la chioma bionda di sua figlia e sull’uscio le sussurrai: - Ciao Gelsomina… 




HO LETTO LA TUA ANIMA

E' successo poche volte!
Ho visto sprizzare la gioia
dai tuoi occhi apposta celati
da occhiali marcati di scuro.
Brillavano come non mai
ed in essi soddisfatto ho letto
le pagine della tua tenerezza.
Eri tu, senza il tuo velo grigio,
con tutta la carica affettiva,
senza alcuna corazza,
ed il fulgore del tuo sguardo
mi ha fatto chiaramente leggere
il pieno della tua anima,
le grandi pagine del tuo cuore,
candide, talvolta immacolate,
piene di spazi vuoti,
non pagine ingiallite
ma nitidi fogli delicati
come i petali del gelsomino.
Profondi e luminosi fanali
incapaci di mentire
che han portato fuori
quella bellezza interiore
tanto somigliante a quella esterna
che ti ostini a celare.
Sai, ora ho davvero capito
quanto la mia istintività 
è stata precisa nel tempo.
Io, quanto te son testardo,
ed ora ho avuto ragione,
il bello che tieni nel cuore
è pari al fascino tuo.
Non è stato il tempo capace
di strappare la tua innocenza;
vorrei che i giorni a venire
possano darti momenti migliori.
Ora sei tu padrona del campo,
gli altri, la gente, inezie da nulla,
minuscole menti vaganti nel vuoto,
tu, invece, regina del senno
regali i tuoi pensieri con amore
e fai che ognuno si disseti
alla coraggiosa fonte del tuo sapere.
Brava Lulù, complimenti!
Sai quanti muri hai abbattuto?
Ora sei un'impeto, una forza vera,
eppure, nella tua semplicità,
nella dignità che ti distingue,
sei sempre la stessa,
una passione infinita,
e nulla sai chiedere
perchè hai solo e sempre donato.
Grazie di avermi onorato
or mi posso con orgoglio fregiare
di essere veramente tuo amico.
Che la fortuna assista i tuoi passi
e ti renda quanto dovuto,
Grazie Lulù, ti voglio bene.




IL BARATRO

Cieli senza stelle,
prati senza erba e fiori,
alberi senza foglie
e uomini di latta
cavalcano destrieri
di plastica ingiallita.
L'aria puzza di catrame
sotto coltri di fumo
e suoni striduli
invadono le valli
e risuonano lugubri echi.
Le acque risalgono i fiumi
e ritornano alle fonti
sotterrandosi veloci,
mentre i fuochi si spengono
sotto gli occhi di Prometeo,
mentre Atlante piega stanco
le ginocchia tremanti
e curva le spalle sempre più
sotto l'eterno peso.
Melchiorre è sempre in cammino,
col suo carico di mirra,
s'è smarrito nel deserto,
si è spenta la sua guida,
mentre bimbi macilenti
succhiano i seni scarni
di madri pelle e ossa,
e tu?... sempre imperterrita,
insegui con costanza
le tue storielle senza storia,
non curandoti di nulla,
senza accorgerti che
stai vivendo il declino.