Mario Scamardo
I Racconti del Borgo
Il casello di Oronzo
Era il maggio del 1928 quando mamma Rosa
diede alla luce il piccolo Oronzo, l’ultimo di otto figli, l’unico maschio, le altre tutte femmine differivano in età, mediamente diciotto mesi l’una dall’altra. Perché Oronzo? Perché lo zio Faro, il padre, era
di origine pugliese ed aveva voluto dargli il nome del patrono della sua città natale. Otto figli, dieci
bocche da sfamare e l’unica
cosa che possedeva lo zio Faro erano le sue braccia e, a periodi alterni, in
funzione delle gravidanze, quelle di sua moglie che oltre ai lavori domestici
si sobbarcava piccoli servigi presso alcune famiglie abbienti del paesino dove
abitavano.
Oronzo fu l’unico degli otto figli a
varcare la soglia di una scuola. Una mattina di ottobre, con un grembiulino
nero ricavato da una sottoveste della madre e un collettino bianco, anch’esso ricavato da una sdrucita
federa di cuscino, il bambino venne accompagnato dal padre nell’unica scuola del paese
allocata in un fatiscente fabbricato di periferia dove, nei decenni precedenti,
avevano girato le macine di un vecchio mulino, spinte da un asino bendato che
girava attorno al grande asse.
A gennaio del 1939, per le vie del paese
il banditore, munito di un enorme tamburo, per una settimana di seguito, dopo
aver fatto rullare il suo strumento, ad ogni angolo di strada annunziò che presso il comune ci si
poteva registrare per essere impiegati nella costruzione della ferrovia che
partendo da Palermo avrebbe dovuto raggiungere Gibellina e sarebbe passata,
attraversando le montagne, proprio da San Cipirello. Lo zio Faro, avvertito
dalla moglie e dalla figlia più grande, il mattino seguente si recò in comune e si pose in fondo ad una coda per la verità non tanto lunga. L’attesa anche se appena di una
mezzora allo zio Faro sembrò infinita, non era andato, come soleva fare tutte le mattine, a
piantare tutori in canna nel vigneto di un possidente e, non aveva racimolato
una fascina di sterpi per alimentare la
cucina, e non aveva raccolto nei campi nessuna verdura da cucinare assieme a
quel po’ di
pasta che la moglie la sera prima aveva tirato fuori col mattarello ed aveva
messo ad asciugare stendendola su un graticciato di cannucce. Quando arrivò il suo turno, dopo aver dato
le generalità e le
sue attitudini, l’omino
seduto al tavolo gli chiese se sapesse leggere e scrivere, poi gli mise un
foglio davanti e gli dettò un
paio di frasi. Lo zio Faro aveva una bella grafia, nelle ore di riposo leggeva,
ma non potendosi consentire il lusso di comprare il quotidiano, leggeva con una
o due settimane di ritardo, quelli che il barbiere risparmiava di tagliare in
quadrucci e che poi usava per pulirvi il
rasoio mentre sbarbava gli avventori. L’uomo da bambino, nella sua Puglia, era andato a scuola, aveva
conseguito la licenza elementare ed aveva continuato a studiare sotto la vigile
cura del suo parroco che sperava di farlo entrare in seminario. L’omino dietro il tavolo non
segnò il
suo nome sul solito registro ma, ne prese uno foderato con una carta fiorata e
fù lì che appuntò i suoi dati, poi gli chiese
di ritornare il mattino seguente perché avrebbe voluto riparlargli del suo nuovo impiego.
Lo
zio Faro non ritornò
subito a casa, imboccò un
viottolo della periferia e tornò di lì a
due ore con un grosso tronco sulle spalle e con un bel fascio di verdure. Parlò in disparte con la moglie e assistette al suo inginocchiarsi davanti
ad una piccola immagine della Vergine Maria, si segnò anche lui, poi cominciò a spaccare il tronco e lo
ridusse in piccoli ciocchi.
Il venditore di biciclette consegnò allo zio Faro, senza un
centesimo di anticipo, una bici usata, telaio, manubrio, ruote, pedali ed un
fanale collegato alla dinamo, poi gli consegnò una pompa per gonfiare le
ruote, due chiavette un tubo di mastice, un pezzo di vecchia camera d’aria:
- C’è tutto nell’eventualità che foriate, me la pagherete
a settimana, la ferrovia paga il sabato, voi per raggiungere la galleria che
stanno scavando non potete andare a piedi.
Dopo
una settimana, l’omino
che lo aveva registrato al comune, nel consegnargli il salario, che era triplo
rispetto a quello che guadagnava in campagna, gli disse che, ultimata la
galleria avrebbe avuto l’incarico
di far lui da contabile per il pagamento dei salari e che durante la settimana
si sarebbe adoperato a gestire il magazzino delle attrezzature che la ferrovia
aveva approntato nel cantiere.
Lo zio Faro era diventato un punto di
riferimento, tanto che anche la sua diaria era aumentata e si era consentito il
lusso di far montare nella bicicletta i parafanghi e il campanello.
Le prime tre figlie erano diventate da
marito e, così, a
cominciare dalla prima, ogni diciotto o venti mesi, si sposavano. Dote, anche
se modestissima, vestiti, rinfreschi, e lo zio Faro si indebitò, troppi impegni, troppi
debiti, sembrava dovesse sfamare tre bocche in meno, mentre le bocche
diventarono tre in più. Da
solo, ad onta di una retribuzione quasi doppia rispetto agli altri, non ce la
faceva e, pur sacrificandosi con le ore di lavoro straordinario, non ne veniva
fuori. Oronzo aveva finito le elementari, anche lui con l’aiuto del parroco aveva
superato il secondo anno del ginnasio. Col cuore in gola zio Faro si recò dall’omino della ferrovia e chiese
un lavoro per il suo figliolo. La galleria era quasi ultimata, il percorso
tracciato e nei vari paesi si innalzavano le mura delle minuscole stazioni, i
binari erano accatastati lungo il percorso ed anche le traversine. L’omino, lo guardò in viso, colse il suo quasi
terrore di non poter far fronte agli impegni presi e lo interrogo:
- Quanti anni ha il vostro figliolo?
- Dodici, signore, dodici compiuti e sa
leggere e scrivere.
L’omino sbigottito:
-
Dodici?...
- Si,
signore, è un
ragazzo forte, e poi… ancora
quattro sorelle che fra poco saranno anche loro in età da marito.
- Ma è un bambino! Questo è un lavoro pesante!
Lo
zio Faro abbassò gli
occhi e chinò il
capo, non seppe trattenere una lacrima e l’asciugò con
la tesa del suo cappello sdrucito.
- Non
vi prometto nulla, lasciatemi pensare… dodici anni… un
sacrilegio!
Si
alzò dal
piccolo scranno, si avvicinò a zio Faro, gli sbattè una mano sulla spalla:
-
Sognavo di fare il medico…
secondo di sei fratelli…
avevo tredici anni quando mio padre e mio fratello maggiore rimasero
schiacciati da una frana. Tonnellate di terra li copersero, ci vollero due
giorni per recuperare i corpi e mia madre non potè nemmeno piangerli, quattro
bambini piccoli e senza un lavoro… implorò
tutti perché la
facessero lavorare nella stessa cava, alla fine le concessero di prendere me a
mezza paga, avevo tredici anni appena compiuti, e come ben vedete non ero un
gigante…
Sollevò un piede, slacciò la scarpa, se la tolse:
-
Guardate, il mio sinistro è mezzo piede, la scarpa e piena di carta stropicciata, un blocco non
mi schiacciò ma
tranciò il
mio piede e, solo la pietà
degli altri operai, che lo chiesero a viva forza, mi consentì di ritornare al lavoro
facendo il vivandiere. Signor Faro, attrezzatelo di un paio di brocche d’argilla, di un po’ di piccole caraffe, ora è estate e fa caldo, girerà per il cantiere portando l’acqua agli operai, di
pomeriggio tenetelo in magazzino a rimettere in ordine gli attrezzi.
Lo
zio Faro, commosso, prese il braccio dell’omino, lo strinse e singhiozzò. L’omino
lo rincuorò:
- Su,
signor Faro, sul registro non segnerò la sua data di nascita e, a fine settimana avrà la sua paga… intera!
Oronzo fece per tutta l’estate la spola tra le
squadre di operai trascinandosi la sua brocca e, nel pomeriggio aiutato dal
padre, sistemò
nella rastrelliera gli attrezzi. Quando sopravvenne la stagione invernale si
attrezzò di
due grossi thermos, di un po’ di bicchieri e rifocillò le maestranze.
La linea ferrata si allungava ogni giorno
di più,
traversine, binari e bulloni, poi ancora ghiaia ed ancora binari, e le stazioni
erano già
munite dei piazzali, vi era stata portata la corrente elettrica ed erano stati
montati i grandi orologi. Oronzo era orgoglioso, lui aveva contribuito acchè quei paesini sperduti tra le
colline, fossero più
vicini tra loro e più
vicini alla città,
Palermo, il capoluogo, che lui non aveva mai visitato, ma che era nelle
promesse del padre che gli aveva detto:
-
Figliolo, la prima corsa sarà nostra, andremo a Palermo, voglio comprarti un bel vestito, un
cappello ed un paio di scarpe nuove, di quelle che fanno lo scrocchio quando
cammini, e voglio comprare un cappellino a tua madre…
Quando
lo zio Faro nominava sua moglie, gli tremava la voce, quella donna che oltre a
dargli otto figli, gli aveva donato la gioia di vivere.
Aveva sedici anni Oronzo quando il
piazzale della piccola stazione si riempì di gente, c’era
il sindaco, il parroco, il farmacista, il medico, la sua prima maestra e c’era pure una fanfara dei
bersaglieri, fatta arrivare apposta. Tutti guardavano verso est, verso Palermo,
finalmente un campanello si mise a trillare, poi il primo sbuffo della locomotiva
che lentamente si avvicinava e la fanfara intonava l’inno di Mameli. Con un grosso
sibilo il locomotore sbuffante si fermò davanti alla stazione, scesero delle persone in cappello con barbe
curate, militari gallonati, un vescovo e
tante signore in cappello. Qualcuno nel piazzale parlò, il vescovo benedisse il
treno e gli astanti, poi il capostazione fischiò e tutti risalirono sulle tre
carrozze, alzò la
paletta e il treno ripartì per
raggiungere la prossima stazione.
Le maestranze pian pianino vennero
licenziate, fino a quando arrivò il turno dello zio Faro. L’omino delle ferrovie lo convocò e gli comunicò che
il lavoro era finito, ma per Oronzo aveva ottenuto che diventasse casellante, là dove, cinquecento metri
prima della stazione i binari incrociavano la strada che conduceva a Corleone.
Un dolore per la perdita del lavoro ed una gioia per la sistemazione definitiva
del figlio.
Oronzo prese a fare il casellante, due
treni al giorno, alle otto del mattino passava per andare a Gibellina, alle
sedici ripassava per andare a Palermo. Non gli avevano dato neppure una divisa,
solo un cappello con visiera e due bandierine rosse.
La guerra era sul finire, gli americani
giravano in jeep e non si vide più l’ombra
di un tedesco o di un fascista, nessuno gli fece più le sgridate e le paternali
ostentando senza ragione potere su tutto. Un giorno cominciò a non passare più il treno, l’avevano appena finita quella
ferrovia, ma qualcuno in alto decretò che era già un
ramo secco da smobilitare. Cominciarono a smontare i binari, poi le traversine, poi gli orologi,
i campanelli, i lampeggiatori, anche quelli del casello, ma nessuno comunicò ad Oronzo che il casello non
aveva più
funzione e all’ufficio
postale continuò ad
arrivare il suo stipendio, fino a quando un mattino qualcuno a Palermo lo
convocò per
comunicargli il suo licenziamento. Oronzo non fece una grinza, senza conferire
col padre, cominciò a
cercarsi un lavoro. Nelle campagne nessuno gli offrì di lavorare una sola
giornata, in estate quando le messi erano bionde, attese che tutti ebbero
finito di mietere il grano e, con un sacco sulle spalle, cominciò a raccattare qualche spiga
qua e là ,
fino a riempire il sacco. Misero bottino il suo, un giorno a raccogliere spighe
ed un giorno a battere con un bastone le stesse, spagliarle e separarle dalla
pula. Oronzo per riempire tre sacchi di grano impiegò un mese. La legna la
raccoglieva per le strade di campagna, ed il vento che spezzava qualche ramo,
non era sempre benevolo con lui. Le sue scarpe erano a brandelli e quando
qualcuno, per un paio di scarpe ancora in buone condizioni, gli chiese di
pulirgli una stalla con venti mucche, il ragazzo accettò e quando vennero liberati i
vitelli per allattarsi, Oronzo si attaccò ad una mammella pregna di latte e succhiò come un vitellino fino a
saziarsi, finì di
scaricare il letame nella concimaia, prese le sue scarpe ed andò via. Brutta cosa la guerra,
cosa aveva lasciato tutt’intorno,
miseria e desolazione! La sua famiglia non riuscì a convincerlo di ritornare a
casa a dividere un pasto, ed un mattino, a piedi, si recò a Palermo. Trenta chilometri
di strada sterrata e impervia transitata da qualche carrozza e una corriera
dove gli sparuti passeggeri, nei tratti in salita dovevano scendere e spingerla,
due giorni di marcia forzata e, quelle sue scarpe quasi nuove cominciarono a
dare i primi segni di vecchiaia. A Palermo, ancora distrutta dai bombardamenti,
il giovane trovò
piccoli lavoretti faticosissimi e non sempre riuscì a riempirsi la pancia,
scaricare cassette al mercato, spingere carrettini degli ambulanti che non
potevano consentirsi un asino, trasportare fuori dai condomini i bidoni delle
immondizie, raccattare cartoni, ma mai una lira in più di quanto non gli servisse
appena per alimentarsi. Dormiva al porto, in una stanzetta di un palazzo
sventrato dalle bombe, senza porta, senza una parete, con un tetto penzolante e,
talvolta, sentiva rotolare i mattoni che pian pianino si staccavano dalle
grandi crepe.
Il
suo fu sempre un sonno poco sereno, segnato dalla stanchezza. Quando dopo avere
scaricato decine e decine di cassette, si vide ricompensare con cinque mele,
allora capì che
quella città non
poteva dargli altro, ed intraprese il viaggio di ritorno, a piedi. Ritornò in paese al suo casello,
dove non c’erano
più le
sbarre, calcò il
suo cappello con la visiera e strinse tra le mani le sue bandierine rosse. Vide
andare in malora la stazione, assistette ai furti delle traversine, dei binari,
dei bulloni, sinanco della ghiaia. Non sapeva fare altro Oronzo, quelle cose le
aveva imparato a dodici anni, proprio quando avrebbe dovuto giocare, studiare,
erudirsi e prepararsi alla vita. La miseria dilagava ed anche nelle campagne il
vecchio padre non trovava lavoro, la sua vita seguiva il degrado della piccola
stazione, della linea ferrata, del casello.
Ridotto ad un relitto, passava le giornate
a cercare nei campi qualche verdura, razziava le uova nei nidi dei piccioni, in
quelli dei corvi e, in uno stagno che era di lì a poco, acchiappava le rane
per prepararsi la cena. Un monaco questuante un giorno si fermò al casello per ripararsi da
un’acquazzone,
Oronzo lo fece accomodare sulla panca di legno incastrata alla parete di
fronte, ed il monaco ascoltò il lungo narrare del giovane, ma ebbe altresì conto dello stato di
depressione e di abbandono. Lo invitò a recarsi con lui al piccolo monastero, avrebbe trovato conforto e,
forse, come riempirsi la pancia, e per cercare di persuaderlo gli disse:
-
Caro figliolo, ormai da un bel po’ la guerra non è più, ha lasciato miseria e
morte, tanta morte da far si che tu ti sei convinto che anche la speranza sia
morta. Vedi, lo Stato dovrebbe essere un buon padre, ed un buon padre si cura
di tutti i propri figli, a cominciare da quelli meno fortunati. Al sud non ci
sono industrie, tarderà a
partire la ricostruzione, c’è solo un’agricoltura
arretrata, senza meccanizzazione; al sud non si sono fatte mai infrastrutture, questa
ferrovia, che poteva essere il mezzo per lo sviluppo di questa zona, prima
ancora che cominciasse a produrre frutti, è stata cancellata dai progetti dello Stato, di quel padre che anziché curarsi dei deboli, li
abbandona al loro destino, noi siamo i figli di un Dio minore! Tu non perdere
mai la speranza, lotta, il buon Dio sicuramente non ci abbandonerà!
Oronzo
ascoltava, forse capiva poco, forse la sua mente era distratta:
-
Fratello, se lo Stato, ripensandoci, dovesse aver l’idea di attuare il programma
che s’era
fissato per lo sviluppo di quest’area, allora io voglio non perdere la speranza. Ho visto bagnare col
sudore della fronte degli operai tutto il tracciato della ferrovia, dalla
galleria a questa stazione, avevo appena dodici anni e, con la brocca sulle
spalle ho percorso chilometri per dissetare gli operai, alleviando la loro
fatica. Aspetterò in
questo casello che ripassi il locomotore e le carrozze e con le mie bandierine
segnalerò il
passaggio del treno.
Il monaco lo abbracciò e carezzò il suo capo, ma capì che la sua mente era
travagliata e che nessuno avrebbe potuto sradicarlo da quel casello
ferroviario.
Un giorno Oronzo si mise a scavare una
grande buca, proprio davanti alla stazione, mise un po’ di ghiaia al fondo, poi
staccò dal
muro la lavagnetta di ardesia dove il vecchio capostazione scriveva gli orari
di partenza e di arrivo, la lavò per bene e cominciò a scolpirla con un minuscolo scalpello ed un martellino, realizzò la sua lapide e la sistemò in cima alla buca. L’inverno venne gelido ed anche
le verdure spontanee furono ricoperte dalla neve, l’ultima riserva di petrolio
che alimentava il suo fanale era agli sgoccioli, si sistemò nella buca con in mano le
sue bandierine ed attese che il freddo compisse la sua opera.
Giorni
dopo la pietà dei
cittadini gli diede sepoltura in luogo consacrato, la lapide di ardesia con
raffigurato un locomotore campeggia sul povero tumulo, ma tutti il giorno dei
morti deposero su quel tumulo un fiore.
La
guerra aveva lasciato miseria e morte, la ricostruzione era ancora lontana.
Ancora oggi, quel rudere mai distrutto è il “casello
di Oronzo”,
ancor oggi chi passa si segna ripetendo sommessamente: - Uno dei tanti figli
del Sud!
La vecchia stazione, concessa dalle ferrovie, ospita oggi gli uffici di una cantina sociale, la vecchia linea ferrata è stata trasformata in una strada che collega San Cipirello a Piana degli Albanesi, una diramazione conduce al Parco Archeologico di Monte Jato, il vecchio casello, ristrutturato, è diventata una casa di civile abitazione... ma questo è ancora Sud!