giovedì 25 agosto 2016

I MANDERINI DI DON SAVERIO - Narrato per genitori e figli - (Riproposizione) 25.08.2016











    Si può scrivere una favola autobiografica? Io ho provato a farlo, ho provato a raccontare, con un linguaggio comprensibile dai piccoli destinatari, uno spaccato di vita della mia età adolescente. Ho raccontato un episodio che si è ripetuto fino alla dipartita del mio genitore, cercando di evidenziare quanto la favola si prefigge, la morale. 
     Alle persone adulte, nell'entroterra siciliano, in ossequio alla loro età, ma soprattutto alla loro rispettabilità e al loro essere perbene, veniva anteposto al nome il "don", nel tempo una letteratura giornalistica di cronaca nera, ignara di distruggere la cultura di un popolo, trasformò il "don" che stava per signore, in un epiteto da affibbiare a malavitosi e mafiosi. Per le donne, fino agli anni '60 il ragionamento fu diverso e alla mia nonna materna tutti continuarono a chiamarla, in senso di rispetto, donna Nunzia. 
    Il personaggio della favola, don Saverio, contadino, seconda elementare, che soleva definirsi "un viticoltore laico", perchè coltivava il suo vigneto non obbedendo ai canoni consigliati, in quanto innovatore con risultati eccellenti, era mio padre e, pur amandolo alla follia, non ho aggiunto, per esaltarne la figura, nulla che non fosse un fatto riscontrato da me stesso. Lo perdetti che era giovane, un male incurabile se lo portò via, allora non esistevano cure, di chemioterapia si sentiva appena parlare. L'ho amato ed ho vissuto dei suoi insegnamenti!




Mario Scamardo


I Racconti del Borgo
 
I mandarini di don Saverio
 
 


Rigoglioso era il giardino di don Saverio, cinque ettari appena a cinquecento metri dal centro abitato. Una mulattiera lasciava il paese e scivolava dolcemente verso valle passando, davanti ad un cancello di cui nessuno aveva mai sentito cigolare i cardini, in quanto era tenuto sempre aperto, giorno e notte. Una stradina interna accompagnava al vecchio caseggiato in pietra viva e, stranamente, una delle due porte laterali rimaneva anch’essa sempre  aperta. Al centro dell’appezzamento, da una sorgente zampillava copiosamente freschissima acqua, attorno, solo alberi da frutta, aranci, limoni, fichi, ciliegi, albicocchi, cachi, peri, meli, mandorli e noci, su tutti gli altri spiccavano un paio di filari di mandarini di ogni varietà che consentivano di avere una produzione da novembre a giugno.
Don Saverio era un uomo buono, la sua generosità era il suo distintivo. Contadino da quando si erano fermati i suoi studi, la seconda elementare, aveva curato il suo giardino ed il buon Dio lo aveva ripagato facendo si che quegli alberi, che lui si ostinava a chiamare figli, fossero sempre rigogliosi e stracarichi di frutta.
Tutti i contadini del circondario, che andavano a riempire le loro brocche d’acqua, spesso lo trovavano seduto su un ciglio della grande vasca in cui versava la sorgente e si intrattenevano con lui, ma prima che andassero via, don Saverio raccoglieva un cesto di frutta e gliela regalava – portatela ai vostri bambini – soleva dire, poi, se era stagione, raggiungeva un albero di mandarini e ne raccoglieva un paio di ciocche, li porgeva al suo interlocutore dicendo: - portategli anche questi, pur se è lontano il santo Natale, i mandarini serviranno a farglielo ricordare. - Quando qualcuno rimaneva imbambolato davanti a queste frasi il contadino, dopo avere accennato ad un sorriso aggiungeva: - per ogni buon cristiano, ogni giorno è Natale -.
Don Saverio aveva due figli, un maschio ed una femmina. Quando rincasava all’imbrunire, in groppa ad una mula che chiamava affettuosamente Caterina, si fermava senza smontare e fischiava un motivetto, attendendo che tutte e due i suoi figlioletti accorressero con le braccia alzate per farsi issare in groppa alla mula per poter percorrere a cavallo gli ultimi venti metri che li separavano dall’uscio di casa. Smontati, don Saverio sedeva sullo scalino davanti all’uscio, issava sulle sue ginocchia ambedue i bambini e chiedeva loro sulle eventuali marachelle, li stringeva al suo petto e tirava dalle tasche due frutta mature che aveva raccolto a fine giornata e li donava alle sue creature con la sua massima soddisfazione e promettendo che la domenica mattino li avrebbe portati in giro, dopo la santa Messa, con la macchina, una Fiat 500 belvedere di colore blu e grigio.
Un mattino d’estate, più grandicello il maschietto, don Saverio lo portò con se in campagna. Smontati dalla mula, il contadino chiese al ragazzo se avesse voglia di mangiare un frutto, c’erano dei fichi succulenti, delle albicocche, delle pesche, ma il figlio gli chiese dei mandarini, il contadino sorrise e gli disse: - figlio mio, non è stagione di mandarini, ora ti raccolgo una pesca, te la sbuccio, tu chiudi gli occhi e mordila pensando che sia un mandarino – il ragazzo sorrise ed accettò la pesca. Assieme al padre si addentrò nel giardino ed assistette alle operazioni di irrigazione. Don Saverio accompagnò con la sua zappa l’acqua che fece sortire dalla grande vasca, incanalandola nei solchi innanzi tempo tracciati, le fece raggiungere i limoni, poi i ciliegi, gli aranci, quando l’acqua arrivò ai mandarini il ragazzo gli chiese: - papà, visto che non è stagione, perché gli dai acqua? – Il contadino guardò tra le fronde e notò in cima ad un albero due succulenti mandarini tardivi, percorse una decina di metri, alzò un braccio, abbassò la fronda e li raccolse, tornò sui suoi passi, ne staccò uno e lo mise in tasca per la figliola, poi diede l’altro al suo ragazzo. – Vedi figliolo, anche se non è stagione, a volte la natura viene incontro ai ragazzi buoni, e fa maturare qualche frutto con ritardo. E’ il premio per aver curato con amore questi alberi che hanno già abbondantemente dato, e l’acqua che adesso gli stiamo somministrando non li farà soffrire per il caldo afoso di questa estate. Ragazzo mio, le piante sono come i bambini, devi dar loro tanto amore per potere ottenere frutti migliori. Io non ho mai chiuso il cancello di questo giardino, nel circondario questa è l’unica sorgente, come negare la possibilità a chi fatica di dissetarsi, rinfrescarsi e riempire la propria brocca. La sorgente è copiosa e l’acqua che soverchia la faccio utilizzare ai limitrofi affinché anche loro possano dissetare i loro campi. L’acqua è un bene di cui l’uomo non può fare a meno, è un dono del Creatore e, quindi, è giusto che nessuno soffra la sete.- Il ragazzo lo ascoltò ed i suoi occhi si inumidirono. Don Saverio, conscio dell’opera educativa che stava compiendo riprese a parlare. - Lascio sempre una delle tre porte della casa aperta, dentro lascio un fiasco di vino, un po’ d’olio per la lampada ed un pane, sai, tante mattine ho trovato il fiasco non più pieno e non ho trovato il pane, ma tutti i giorni ho sentito il calore e l’affetto delle persone che ho conosciuto-. Il ragazzo sbucciò il mandarino, lo divise in due e ne offrì al padre.
Si avvicinava il Natale, don Saverio da giorni era alla ricerca di scatole, di cesti, di canestri, di fiaschi. Conosceva tutti il contadino nel suo paese, gente colta ed analfabeti, ricchi e poveri, contadini, artigiani, professionisti e possidenti, dialogava con tutti e tutti dialogavano con lui. Dalla campagna aveva portato decine di casse di arance, di limoni, di mandarini. Il ventitré dicembre il contadino si alzò al solito, allo spuntar del sole, si recò nella stalla, la pulì e diede da mangiare e da bere alla mula Caterina, rientrò a casa, si lucidò le scarpe della festa, fece il bagno, si vestì in maniera elegante ed attese che si svegliassero i ragazzi che erano in vacanza. Consegnò ai figli una capiente borsa ciascuno e si accompagnò con loro all’uscio. Entrò in una macelleria e chiese carne e salsicce facendosi confezionare venti involti, poi fu la volta di una salumeria e la scena non mutò, infine ritirò venti vassoietti di dolci in una pasticceria. I ragazzi facevano fatica a portare le due borse, il padre si mise in mezzo a loro, prese un manico per ciascuna borsa e tutti e tre guadagnarono l’uscio di casa.
Don Saverio come se stesse eseguendo un rituale, divise quanto acquistato in venti scatole, inserì in ciascuna un fiasco di vino, una bottiglia d’olio, e le completò con arance limoni e mandarini, poi disse ai ragazzi: - ora andrò a prendere la macchina, caricheremo i pacchi e mi accompagnerete a consegnarli -. I figli di don Saverio si guardarono negli occhi, la ragazza interrogò con lo sguardo il fratello che allargò le braccia. – Papà – chiese la fanciulla, - perché hai preparato tutti questi pacchi, a chi vuoi che bisogni la carne, le salsicce o i formaggi con il benessere che c’è in giro? – Credi davvero figlia mia che ci sia tanto benessere in giro? – rispose il padre – vedi figliola, a volte dove sembra che splenda il sole c’è tanto freddo, non sto parlando di temperatura, ma di freddo affettivo, di solitudine, di mancanza di quel calore umano che solo l’amore può dare. I genitori mettono al mondo i figli con amore, li allevano con abnegazione, soffrono per loro, si tolgono il pane dalla bocca per renderli felici, ma, a volte, i figli dimenticano... e ci sono quelli che non sono stati graziati e i figli non li hanno avuti, ora sono vecchi e hanno per compagna la solitudine, poi ci sono i poveri, quelli veri, che per dignità talvolta ostentano agiatezze. Tu e tuo fratello avrete fra due giorni una tavola imbandita, due genitori che sanno darvi calore, e tutte le leccornie che un essere umano può desiderare. Colui che sta sopra di noi ci ha concesso il dono dell’amore, ed il santo Natale ogni giorno si ripeterà a casa nostra, ce lo ricorderanno i mandarini sulla tavola, ma per tanti sarà un giorno come un altro dove affioreranno tristezze, malinconie, ricordi non piacevoli. – I due ragazzi si presero per mano e avvicinandosi al padre lo baciarono. Don Saverio aveva capito di aver fatto breccia nel loro cuore ed aggiunse – voi siete dei ragazzi, ma vi accorgerete presto di quanto sia veloce il tempo, voglio che ambedue non dimentichiate mai che c’è sempre chi ha bisogno degli altri, un regalo non è sempre una cosa tangibile, si può donare sempre, è dono anche un sorriso, capace di far felice ogni uomo e soprattutto i bambini. Non chiudete mai il cancello in campagna, lasciate aperta una porta e non dimenticate mai di lasciare dentro del pane e del vino, Dio vi renderà merito del vostro operare e farà si che il vostro giardino sia sempre ubertoso.- I ragazzi caricarono la macchina dei pacchi e con il padre andarono in giro per le case a portare i doni.
Il mattino seguente don Saverio caricò gli ultimi cesti di arance, limoni e mandarini e si recò al convento dei Servi dei Poveri dove erano ospiti trenta orfanelli. Attese nella sala d’aspetto la madre superiora, al suo sopraggiungere si scoprì e si inchinò, la superiora lo accolse calorosamente ed i suoi occhi dal color della giada palesarono tanta gioia, accettò i cesti di frutta e condusse, come era solita fare, il contadino tra gli orfanelli. Gli occhi di don Saverio si inumidirono, si accosciò e baciò carezzandoli tutti i bambini. I più grandicelli che lo conoscevano dagli anni precedenti formarono un cerchio e lo misero in mezzo. Il più piccolo chiese alla superiora – Madre, chi è questo signore? – tutti in coro gli altri bambini gridarono – è don Saverio, il signore dei mandarini. – 
 
 
 
 
Gli anni passarono, ed ogni Natale don Saverio visitò gli orfanelli, ed i suoi ragazzi, ormai adulti prepararono i pacchi assieme ai loro figli, tanto riempiva il cuore del vecchio contadino, che alzando gli occhi al cielo ringraziava Dio per l’opera educatrice che gli aveva concesso. La malattia lo colse, l’uomo si appoggiò al suo bastone e man mano le gambe non lo aiutarono più, non fu mai disperazione, solo rassegnazione al volere del Creatore. La madre superiora dei Servi dei Poveri spesso lo andava a trovare, portava con se due orfanelli, e don Saverio chiamava a se i nipotini affinché potessero giocare con chi i genitori non li aveva più, voleva che gli orfani si sentissero a casa loro e chiedeva alla moglie di preparare per loro una tazza di cioccolata e tanti biscotti. I bambini facevano felice quell’uomo, non lo stancavano mai, anzi gli davano forza e qualche volta riuscivano a farlo alzare dalla poltrona sulla quale passava le giornate guardando dalla finestra spalancata il tramontare del sole nel golfo di Castellammare.
Un giorno corrusco di agosto, sul finir del mattino, le campane suonarono a martello. Sul selciato le ruote di un carro funebre trainato da quattro morelli, trenta orfanelli accompagnati dalla superiora, in fila per due, in mezzo ad una grande folla, camminavano a passo lesto a rendere anche loro omaggio a don Saverio, l’uomo dei mandarini, nel giorno della sua dipartita. Ognuno di loro si chinò davanti al feretro e depose sulla bara una zagara di mandarino. Durante il corteo funebre una nuvola oscurò il sole, un lampo squarciò il cielo ed un tuono rimbombò cupo per le campagne. Una pioggia scrosciante diede l’addio a don Saverio, ed irrigò per l’ultima volta il suo ubertoso giardino.






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lunedì 1 agosto 2016

ARKADOS IL SAPIENTE DI JATO - Narrato...quasi favola - 01.08.2016






Le vestigia di antiche civiltà rimangono mute nei secoli, fino a quando il caso o uno studio accurato non spinge qualcuno a far luce su un sito, rendendolo patrimonio del mondo intero.
Questo narrato sotto forma di favola è ambientato su Monte Jato, nella città di Jetas, risalente al III secolo A.C.
Jetas, Jato, Giato, come venne chiamata dai cantori del tempo, ultimo baluardo arabo in Sicilia assieme ad Entella, venne assediata e presa per fame da Federico II nel 1248, quindi, rasa al suolo. I suoi abitanti furono deportati in circa 30.000 a Lucera in Puglia.
Dai recenti scavi, iniziati sin dagli anni ’50 del secolo scorso, sono venuti alla luce un teatro, capace di 4000/4500 posti, l'Agorà col suo interminabile colonnato, il Bouleterio, capiente 200 posti, la decumana, il Tempio di Afrodite, un paio di case a peristilio e parecchie altre costruzioni ricche di pavimenti a mosaico.
Adagiata su un centinaio di ettari di pianoro in cima al monte San Cosmano, oggi Jato, la città contava circa 15.000  famiglie per un ammontare di circa 70.000 abitanti. Il teatro era adornato da due satiri e due menadi che sostenevano l'architrave, mentre gli spalti erano posti sotto lo sguardo vigile di due enormi leoni di pietra.
 Le campagne di scavi continuano sotto la direzione della facoltà di Archeologia dell'Università di Zurigo.


Teatro di Jato
Leone a guardia degli spalti


I Racconti del Borgo

MARIO SCAMARDO

Arkados il sapiente di Jato 



Arkados




  Tutte le mattine, al sorgere del sole, c’era sempre qualcuno che puntava gli occhi verso il monte Jato, sperando di vedere sul “pizzo” del monte, un picco a strapiombo sull’abitato di San Cipirello e San Giuseppe Iato, il sapiente Arkados, che si diceva abitasse una delle grotte della montagna.
  Nel passato qualcuno aveva giurato di averlo visto, tutte le mattine, all’alba, in cima al “pizzo”, a braccia aperte, a godersi il panorama fino al Golfo di Castellammare, ed in mattinate serene fino al faro di San Vito lo Capo, estrema punta a nord-est  della Sicilia o, addirittura, girarsi verso l’interno, per godersi lo spettacolo del pennacchio di fumo dell’Etna, stante che l’orografia lo consente.
  Tante erano le storie che si raccontavano, tutte narravano di un vecchio molto buono e tanto saggio che si aggirava spesso anche tra i ruderi dell’antica Jato, una città, proprio sul pianoro di circa settanta ettari sul monte omonimo, costruita dai greci intorno al III secolo prima della venuta di Cristo.
  Talvolta qualcuno diceva di averlo avvicinato mentre, seduto al centro dell’orchestra dell’antico teatro, meditava o intrecciava i giunchi che crescevano copiosi attorno ad una depressione che raccoglieva le acque piovane, facendone lunghe ed interminabili corde. Qualche altro raccontava che il proprio padre gli aveva parlato, mentre seduto in cima ad uno dei bastioni che guardavano ad est, era intento a mirare il sorgere del sole, e ne aveva ricevuto consigli e suggerimenti che sottendevano l’estrema sua saggezza. Nessuno mai aveva narrato di incontri negativi, anche se la sua presenza austera incuteva timore ma soprattutto un grande rispetto. Qualcuno ebbe a dire che da un po’ di anni nessuno l’aveva più notato, perché disturbato dalla presenza di troppi visitatori del parco archeologico e dai troppi profanatori della necropoli della vetusta città. Qualche altro ancora diceva che bisognava cercarlo tra le grotte del circondario perché sicuramente in una di quelle avrebbero dovuto trovarsi i suoi resti qualora non fosse stato più in vita e, sicuramente in quella stessa grotta avrebbe dovuto essere celato un tesoro o qualcosa di misterioso.
  La fantasia aveva invaso le menti e ogni giorno le notizie su Arkados si arricchivano di eventi inediti, di fatti misteriosi, di detti, di motti, di ammonimenti, di curiosità e di perplessità, di timori e di certezze, ma quando non se ne parlava per un periodo, il saggio entrava nell’oblio delle menti e per lunghi lassi di tempo nessuno ne manifestava più il ricordo, fino ad una nuova ondata di notorietà.
  Un giorno comparve nelle due comunità a valle di monte Jato una coppia di giovani, lui sui trenta e lei qualche anno in meno, erano muniti di macchine fotografiche, di due borse piene di carte e di buona volontà. Erano un giornalista e una fotografa, facevano un servizio per una rivista che si occupava soprattutto di archeologia, e quello era il posto giusto. Intervistarono e fotografarono, percossero in lungo e in largo le vie dei due comuni, San Cipirello e San Giuseppe Jato, unico agglomerato urbano con due municipalità, cogliendo scorci caratteristici e l’interesse talvolta eccessivo e accorato e talvolta blando per l’area archeologica dello Jato.
  Un’anziana signora a fine intervista li fece accomodare in un salottino di vimini, preparò loro un caffè e poi ai due disse: - io sono una vecchia maestra, la maestra Rosina, così mi chiamavano i miei scolari e così mi conoscono in questo paese, da tanti anni sono a riposo. Buona parte dei sessantenni di ambedue i comuni sono stati miei scolari, sia le donne che gli uomini e, pur avendo dato loro tutto quello che possedevo dentro, solo alcuni e pochi hanno approfittato di ciò, il resto, la maggior parte di essi, è rimasto insensibile ai miei insegnamenti, e a quanto con amore ho cercato di far capire. Vista la vostra missione, sappiate che, tranne pochi sensibili, nessun altro è interessato al bene archeologico. La filosofia che regna in questi paesi è quella della ricerca sfrenata dell’opulenza ad ogni costo, la cultura non ti porta in tasca nulla e, anche chi ha avuto in mano le leve del potere nel tempo, mi riferisco a tutti gli amministratori dei due comuni, hanno eluso, quasi tutti, lo sfruttamento di un bene che può dare risultati soltanto negli anni  ed hanno cercato vie che hanno consentito di gestire quel potere capace di dare più immediati ma effimeri risultati. Gli uomini che hanno amministrato sono stati pervasi dagli orgogli, dalle false appartenenze di casta, e ciò può essere accettato anche se non condiviso, ma sono soprattutto stati schiavi delle loro passioni! – L’anziana signora si fermò, aprì una scatola di cioccolatini che era sul tavolino del salotto e ne offrì ai suoi ospiti che non avevano proferito parola ma, quando la ragazza le chiese se era vera la storia del vecchio saggio che si aggirava sul monte Jato, l’anziana signora si ricompose sulla poltrona di vimini, aggiustò una ciocca canuta che le era scivolata sulla fronte, puntò la ragazza dritta agli occhi, attese qualche istante e poi, accennando un sorriso, disse: - mia cara signorina, dal nulla non è mai nato nulla, una verità di fondo deve esserci, io non ho mai visto alcun vecchio saggio, ma è molto strano che alcuni dei miei vecchi allievi o i loro padri analfabeti, potessero talvolta penetrare concetti più grandi di loro, possedere e vivere dei valori che nessuno aveva potuto mai spiegare loro e, tutti giuravano di averli appresi su, sul pianoro, tra le vestigia dell’antica Jato. Cara ragazza, io non ho più le forze per scalare questa montagna, ma lei ed il suo amico, così tanto giovani dovreste farlo, sia per parlare del sito archeologico, sia perché la curiosità sta diventando, giustamente, la vostra padrona e sperate di imbattervi in quello che da sempre è stato il desiderio di molti scettici, il vecchio sapiente Arkados. – L’anziana signora congiunse le mani e aspettò ulteriori domande dalla ragazza. I due giovani si guardarono occhi negli occhi e furono pervasi dalla voglia di scalare il monte. L’attempata maestra capì i loro desideri e dolcemente sorrise ancora, poi, appena li vide in piedi, aggiunse: - quando lo avrete incontrato ritornate, davanti ad una tazza di buon tè, desidero che mi raccontiate di Arkados, potrebbe avere trecento o tremila anni, i valori di cui parla non hanno tempo, occupa lo spazio temporale dall’inizio alla fine, e voi sapete che nessuno conosce l’inizio e tanto meno conoscerà al fine. – I due giovani si commiatarono e la signora li accompagnò alla porta.
  Il mattino seguente la fotografa ed il giornalista, muniti dei loro strumenti di lavoro, prima di iniziare la salita per monte Jato, vollero passare dalla casa dell’anziana signora per ringraziarla della disponibilità e dei consigli, bussarono alle persiane dell’appartamento al piano terra, attesero un pochino, ma nessuno rispose, solo una donna della casa di fronte, si avvicinò ai due e chiese: - scusate, chi cercate? – I due, quasi in coro dissero: - l’anziana maestra, la maestra Rosina. – La donna li guardò quasi con diffidenza e poi chiese: - voi siete lontani nipoti? Nessuno vi avrà avvertito della sua dipartita al tempo. La maestra Rosina è morta che è quasi vent’anni, quella porta non si apre da allora. – I due giovani stupiti abbassarono gli occhi a terra, ringraziarono la signora e mogi mogi si avviarono ai piedi dell’erta che li avrebbe portati al parco archeologico, senza proferire parola vissero il loro sbigottimento.
  La stradina in terra battuta serpeggiava tra i campi coltivati e risaliva zigzagando. Il sole era già alto ed il cielo era terso, i due giovani si fermarono quasi a metà strada e scattarono parecchie foto, sedettero su due sassi e tirarono fuori una bottiglia d’acqua per dissetarsi. Per la stessa erta passarono quattro ragazzi, sui vent’anni, due maschi e due femmine, parlavano animatamente tra loro della tragedia del Kossovo, della necessità della collaborazione degli Stati affinché gli aiuti umanitari potessero alleviare le sofferenze di un intero popolo. Non tutti erano d’accordo, una delle due ragazze sosteneva animatamente che la solidarietà, verso i kossovari, spesse volte eccessiva e poco mirata, riusciva solo a creare aspettative continue di aiuto senza incentivare meccanismi di rivalsa, voglia di autogestirsi, voglia di imprenditoria. I due giovani ripresi i propri attrezzi di lavoro risalirono il monte, quando furono in cima comparve davanti ai loro occhi l’enorme spianata dove erano disseminate le vestigia di Jato. Non si fermarono neppure a prendere respiro e si avvicinarono, percorrendo la decumana, all’agorà. Sembrava non esserci anima viva intorno nemmeno i quattro ragazzi che li avevano a metà strada sorpassati, il silenzio imperava e veniva rotto ogni tanto dal soffio di una leggera brezza che muoveva le foglie ingiallite dell’avena selvatica e dagli scatti della macchina fotografica che la donna usava con grande maestria. Stavano per affacciarsi al teatro quando qualcosa li colse, si fermarono a distanza e notarono che in fondo all’orchestra, ai piedi della prima fila di gradini, stava seduto un vecchio, la barba canuta, i lunghi capelli che gli scendevano sulle spalle, avvolto in una tunica bianca fermata alla cintola da una lunga treccia di giunchi. I suoi occhi erano sereni, erano grandi e di colore azzurro, il suo sguardo era profondo e sapeva di sapienza e di autentico. Davanti al vecchio, seduti di fronte, stavano i quattro ragazzi, nessuno parlava, ma la loro compostezza e i loro sguardi facevano pensare ad un momento di meditazione. I due giovani s’interrogarono con gli occhi e molto lentamente si avvicinarono, fermandosi sul ciglio dell’orchestra. I giovani si girarono a guardare ed il vecchio saggio, alzando gli occhi disse: - aspettavo anche voi, non abbiate timore, venite avanti e se volete sedete pure. Tremila anni come oggi parlai a sei persone nello stesso posto, la città brulicava di gente e viveva grandi fasti e i ricchi diventavano sempre più ricchi, mentre i poveri erano sempre più poveri. -  I due giovani, con timore e rispetto si avvicinarono e sedettero di fronte al saggio. Le loro menti non pensarono più a niente, furono pervasi da serenità e non sentirono più il caldo, la fatica, la sete; non si sentì più il rumore delle frasche carezzate dal vento. Il vecchio saggio riprese a parlare: - sono Arkados nacqui con questa città e divenni vecchio quando questo teatro si riempì la prima volta di gente, da allora la vidi distruggere e ricostruire più volte e, più volte, visse grandi splendori. Non tutti i cittadini in ogni epoca furono sereni, la ricerca dell’opulenza ad ogni costo, come rio fato, divideva in due il popolo, sempre più ricchi e sempre più poveri, sempre più colti e sempre più ignoranti e, man mano, quell’espressione logica e conseguente di quell’amore fraterno che nulla chiede e tutto concede, la solidarietà, tendeva al nulla e ritornavano le distruzioni e le guerre. -  Il giornalista guardò in faccia la sua amica fotografa, ambedue fissarono Arkados e il giovane chiese: - Maestro, di voi abbiamo chiesto giù in paese, credevamo fosse leggenda la vostra esistenza, ognuno dice di avervi visto e racconta una storia diversa, parla della vostra dimora, una grotta, e di tesori in essa nascosti. -  Il vecchio accarezzò la sua fluente barba canuta e poi disse: - Guarda i miei piedi non portano sandali, quindi io non mi muovo, questo teatro è la mia casa, in questo luogo ho vissuto da sempre, a pochissimi ho parlato, ancor meno mi hanno ascoltato. Proprio in questi tempi, gli eventi si stanno ripetendo, come sempre e, come sempre, in assenza di solidarietà ed in presenza della ricerca disperata dell’opulenza incontrollata, l’effetto sarà la devastazione dei valori più importanti della vita, la crescita dell’odio, il buio. Tra voi sei c’è qualcuno che ha le idee confuse, pensate al Kossovo, dove esiste solo l’odio e la violenza, dove il bene è stato sopraffatto dal male, dove non si vive per la vita ma per la morte! – Nessuno fiatò, solo una delle ragazze che erano arrivate prima sul monte si accigliò, stava per parlare ma il saggio riprese il suo discorso: - non vi è dubbio che la solidarietà, intesa solo e semplicemente come aiuto reciproco, ingenera inevitabilmente equivoci da società di mutuo soccorso e ancor più determina il rischio di sconfinare nella faziosità e nel settarismo. Se così fosse, sarebbe una squalificante mortificazione dei principi su cui fonda la propria esistenza l’uomo giusto. Altrettanto ingiustificato sarebbe confondere questo principio con il solidarismo di alcune correnti socio-religiose che mirano, per mezzo di una anacronistica organizzazione sociale di stampo, per così dire, neoplatonico, ad una semplice solidarietà fra varie classi sociali, in contrapposizione a dottrine più attuali che predicano invece il superamento delle classi stesse, in una moderna visione di società aperta. Questo egoistico e materialistico concetto di solidarietà può soddisfare indubbiamente certe esigenze, ma è certamente insufficiente quando lo si voglia elevare ad un più alto significato morale e spirituale, in un’ottica più vasta di inestimabile valenza universale.
  In questo senso il concetto di solidarietà travalica gli angusti confini contingenti per dilatarsi in un ampio respiro di umana fraternità. E’ indispensabile che ciascun uomo giusto lavori quotidianamente per questa costruzione e sia consapevole che gli strumenti adatti allo scopo sono l’amore per il prossimo, la tolleranza, la benevolenza, l’umiltà, il desiderio di capire; elementi tutti sintetizzabili in una sola parola: solidarietà, la quale si manifesterà continuamente e in ogni luogo, con tutti gli esseri umani. E’ essenziale che non ci sia interesse alcuno da parte di chi dà né esosa richiesta da parte di chi riceve, poiché sarebbe uno svilire i principi sacri dell’uomo se, nel considerare l’argomento, ci limitassimo al particolare utilitaristico, invece di proporci orizzonti più vasti e mete più lontane anche se ambiziose e forse utopistiche. Per quanto un uomo giusto possa ricercare introspettivamente per costruire il proprio Tempio interiore e, quindi, levigare la propria pietra, è necessario comunque che, uomo tra uomini, con schietto spirito di solidarietà, doni questa pietra, il suo amore per l’elevazione di un edificio più importante da costruire tutti insieme, in un abbraccio che accolga l’umanità intera. Ed egli non potrà portare questo fardello da solo, come da solo non può affrontare l’angoscioso mistero che ci trascende, ma ha bisogno di tutto l’amore che il prossimo potrà restituirgli in cambio di quella solidarietà che egli avrà elargito e che deve perciò oltrepassare i limiti dell’umano tornaconto personale e del miope bisogno materiale. Pertanto, per quanto lodevole e necessario, lo sforzo individuale non è tuttavia sufficiente a gratificare un’esistenza, la quale solo in un rapporto solidale con i propri simili, può trovare conforto e pieno appagamento. -  Tacque Arkados, fissò tutti, poi si rivolse ai quattro ragazzi e disse loro: - di più non potevo dire, le leonesse allattano gli orfani del branco, gli elefanti si curano di tutti i loro piccoli, le scimmie spulciano e allevano con più cure dei propri i cuccioli degli altri. Una fonte disseta ogni passante e l’albero dà ombra e frutti agli uccelli, ai mammiferi, agli uomini e non chiede nulla in cambio. La vostra strada è lunga ma sarà meno ardua se saprete profondere amore. – Si alzò in piedi, era altissimo, tese le mani verso il giornalista e la fotografa, li aiutò a sollevarsi e disse loro: - andiamo, vi porto con me in un posto diverso, compirete un atto che è degli uomini e capirete come la saggezza e l’amore non muoiono mai. 

Grotta di Arkados
Il saggio li precedette a passo lesto e s’incamminarono per un viottolo verso un piccolo bosco di pini. Davanti ad un anfratto nascosto tra i rovi Arkados disse ai due: - raccogliete alcuni fiori di campo e fatene un bel mazzo, poi vi mostrerò qualcosa di cui proverete soltanto piacere. I due raccolsero tante calendule selvatiche ne fecero un bel mazzetto e seguirono il vecchio nell’anfratto. 

La maestra Rosina
Dentro, una luce immensa proveniva da una fenditura della volta, su una comoda poltrona la vecchia maestra Rosina sorridente, su un tavolinetto due tazze di tè fumante: - vi aspettavo – disse la vecchia signora – il vostro tè è pronto, ve lo avevo promesso. E’ tanto tempo che nessuno mi regala dei fiori, grazie, l’opera che svolgete nella vostra vita serve ad accrescere la conoscenza e la cultura, ciò lo fate con amore e disinteresse. Cosa sia veramente la solidarietà serve più ai giovani e, quelli che avete incontrato, se hanno appreso, possono diventare lievito nella società in cui vivono, è un valore che ne comprende tanti altri. Voi dovete capire solo quanto Arkados vi ha detto. Noi non apparteniamo più al presente, siamo stati presenti in epoche diverse, i valori in cui abbiamo creduto e che abbiamo predicato ci hanno dato l’eternità, non certo nei corpi, noi siamo solo illusione per voi, ma eterni in questi valori di cui gli uomini avranno sempre di bisogno. -  La vecchia maestra Rosina si alzò, prese la mano di Arkados e ambedue sorrisero e si dissolvettero. Fuori dall’anfratto il vento soffiava sulle cime dei pini, tutt’intorno musiche celestiali, la natura suonava la sua arpa eolica.




La casa a peristilio


Sono riuscito a portarvi tra i reperti archeologici in un mondo fantastico?....
Se vi va, lasciate un commento!.... grazie!!!