Le vestigia di antiche civiltà
rimangono mute nei secoli, fino a quando il caso o uno studio accurato non
spinge qualcuno a far luce su un sito, rendendolo patrimonio del mondo intero.
Questo narrato sotto forma di favola
è ambientato su Monte Jato, nella città di Jetas, risalente al III secolo A.C.
Jetas, Jato, Giato, come venne
chiamata dai cantori del tempo, ultimo baluardo arabo in Sicilia assieme ad
Entella, venne assediata e presa per fame da Federico II nel 1248, quindi, rasa
al suolo. I suoi abitanti furono deportati in circa 30.000 a Lucera in Puglia.
Dai recenti scavi, iniziati sin
dagli anni ’50 del secolo scorso, sono venuti alla luce un teatro, capace di
4000/4500 posti, l'Agorà col suo interminabile colonnato, il Bouleterio,
capiente 200 posti, la decumana, il Tempio di Afrodite, un paio di case a
peristilio e parecchie altre costruzioni ricche di pavimenti a mosaico.
Adagiata su un centinaio di ettari
di pianoro in cima al monte San Cosmano, oggi Jato, la città contava circa
15.000 famiglie per un ammontare di
circa 70.000 abitanti. Il teatro era adornato da due satiri e due menadi che
sostenevano l'architrave, mentre gli spalti erano posti sotto lo sguardo vigile
di due enormi leoni di pietra.
Le campagne di scavi continuano sotto la direzione
della facoltà di Archeologia dell'Università di Zurigo.
Leone a guardia degli spalti
I Racconti del Borgo
MARIO SCAMARDO
Arkados il sapiente di
Jato
Arkados
Tutte le mattine, al sorgere del
sole, c’era sempre qualcuno che puntava gli occhi verso il monte Jato, sperando
di vedere sul “pizzo” del monte, un picco a strapiombo sull’abitato di San
Cipirello e San Giuseppe Iato, il sapiente Arkados, che si diceva abitasse una
delle grotte della montagna.
Nel passato qualcuno aveva giurato
di averlo visto, tutte le mattine, all’alba, in cima al “pizzo”, a braccia
aperte, a godersi il panorama fino al Golfo di Castellammare, ed in mattinate
serene fino al faro di San Vito lo Capo, estrema punta a nord-est della
Sicilia o, addirittura, girarsi verso l’interno, per godersi lo spettacolo del
pennacchio di fumo dell’Etna, stante che l’orografia lo consente.
Tante erano le storie che si
raccontavano, tutte narravano di un vecchio molto buono e tanto saggio che si
aggirava spesso anche tra i ruderi dell’antica Jato, una città, proprio sul
pianoro di circa settanta ettari sul monte omonimo, costruita dai greci intorno
al III secolo prima della venuta di Cristo.
Talvolta qualcuno diceva di averlo
avvicinato mentre, seduto al centro dell’orchestra dell’antico teatro, meditava
o intrecciava i giunchi che crescevano copiosi attorno ad una depressione che
raccoglieva le acque piovane, facendone lunghe ed interminabili corde. Qualche
altro raccontava che il proprio padre gli aveva parlato, mentre seduto in cima
ad uno dei bastioni che guardavano ad est, era intento a mirare il sorgere del
sole, e ne aveva ricevuto consigli e suggerimenti che sottendevano l’estrema
sua saggezza. Nessuno mai aveva narrato di incontri negativi, anche se la sua
presenza austera incuteva timore ma soprattutto un grande rispetto. Qualcuno
ebbe a dire che da un po’ di anni nessuno l’aveva più notato, perché disturbato
dalla presenza di troppi visitatori del parco archeologico e dai troppi
profanatori della necropoli della vetusta città. Qualche altro ancora diceva
che bisognava cercarlo tra le grotte del circondario perché sicuramente in una
di quelle avrebbero dovuto trovarsi i suoi resti qualora non fosse stato più in
vita e, sicuramente in quella stessa grotta avrebbe dovuto essere celato un
tesoro o qualcosa di misterioso.
La fantasia aveva invaso le menti e
ogni giorno le notizie su Arkados si arricchivano di eventi inediti, di fatti
misteriosi, di detti, di motti, di ammonimenti, di curiosità e di perplessità,
di timori e di certezze, ma quando non se ne parlava per un periodo, il saggio
entrava nell’oblio delle menti e per lunghi lassi di tempo nessuno ne
manifestava più il ricordo, fino ad una nuova ondata di notorietà.
Un giorno comparve nelle due
comunità a valle di monte Jato una coppia di giovani, lui sui trenta e lei
qualche anno in meno, erano muniti di macchine fotografiche, di due borse piene
di carte e di buona volontà. Erano un giornalista e una fotografa, facevano un
servizio per una rivista che si occupava soprattutto di archeologia, e quello
era il posto giusto. Intervistarono e fotografarono, percossero in lungo e in
largo le vie dei due comuni, San Cipirello e San Giuseppe Jato, unico
agglomerato urbano con due municipalità, cogliendo scorci caratteristici e
l’interesse talvolta eccessivo e accorato e talvolta blando per l’area
archeologica dello Jato.
Un’anziana signora a fine intervista
li fece accomodare in un salottino di vimini, preparò loro un caffè e poi ai
due disse: - io sono una vecchia maestra, la maestra Rosina, così mi chiamavano
i miei scolari e così mi conoscono in questo paese, da tanti anni sono a
riposo. Buona parte dei sessantenni di ambedue i comuni sono stati miei
scolari, sia le donne che gli uomini e, pur avendo dato loro tutto quello che
possedevo dentro, solo alcuni e pochi hanno approfittato di ciò, il resto, la
maggior parte di essi, è rimasto insensibile ai miei insegnamenti, e a quanto
con amore ho cercato di far capire. Vista la vostra missione, sappiate che,
tranne pochi sensibili, nessun altro è interessato al bene archeologico. La
filosofia che regna in questi paesi è quella della ricerca sfrenata
dell’opulenza ad ogni costo, la cultura non ti porta in tasca nulla e, anche
chi ha avuto in mano le leve del potere nel tempo, mi riferisco a tutti gli
amministratori dei due comuni, hanno eluso, quasi tutti, lo sfruttamento di un
bene che può dare risultati soltanto negli anni ed hanno cercato vie che
hanno consentito di gestire quel potere capace di dare più immediati ma
effimeri risultati. Gli uomini che hanno amministrato sono stati pervasi dagli
orgogli, dalle false appartenenze di casta, e ciò può essere accettato anche se
non condiviso, ma sono soprattutto stati schiavi delle loro passioni! –
L’anziana signora si fermò, aprì una scatola di cioccolatini che era sul
tavolino del salotto e ne offrì ai suoi ospiti che non avevano proferito parola
ma, quando la ragazza le chiese se era vera la storia del vecchio saggio che si
aggirava sul monte Jato, l’anziana signora si ricompose sulla poltrona di
vimini, aggiustò una ciocca canuta che le era scivolata sulla fronte, puntò la
ragazza dritta agli occhi, attese qualche istante e poi, accennando un sorriso,
disse: - mia cara signorina, dal nulla non è mai nato nulla, una verità di
fondo deve esserci, io non ho mai visto alcun vecchio saggio, ma è molto strano
che alcuni dei miei vecchi allievi o i loro padri analfabeti, potessero
talvolta penetrare concetti più grandi di loro, possedere e vivere dei valori
che nessuno aveva potuto mai spiegare loro e, tutti giuravano di averli appresi
su, sul pianoro, tra le vestigia dell’antica Jato. Cara ragazza, io non ho più
le forze per scalare questa montagna, ma lei ed il suo amico, così tanto
giovani dovreste farlo, sia per parlare del sito archeologico, sia perché la
curiosità sta diventando, giustamente, la vostra padrona e sperate di
imbattervi in quello che da sempre è stato il desiderio di molti scettici, il vecchio
sapiente Arkados. – L’anziana signora congiunse le mani e aspettò ulteriori
domande dalla ragazza. I due giovani si guardarono occhi negli occhi e furono
pervasi dalla voglia di scalare il monte. L’attempata maestra capì i loro
desideri e dolcemente sorrise ancora, poi, appena li vide in piedi, aggiunse: -
quando lo avrete incontrato ritornate, davanti ad una tazza di buon tè,
desidero che mi raccontiate di Arkados, potrebbe avere trecento o tremila anni,
i valori di cui parla non hanno tempo, occupa lo spazio temporale dall’inizio
alla fine, e voi sapete che nessuno conosce l’inizio e tanto meno conoscerà al
fine. – I due giovani si commiatarono e la signora li accompagnò alla porta.
Il mattino seguente la fotografa ed
il giornalista, muniti dei loro strumenti di lavoro, prima di iniziare la
salita per monte Jato, vollero passare dalla casa dell’anziana signora per
ringraziarla della disponibilità e dei consigli, bussarono alle persiane
dell’appartamento al piano terra, attesero un pochino, ma nessuno rispose, solo
una donna della casa di fronte, si avvicinò ai due e chiese: - scusate, chi
cercate? – I due, quasi in coro dissero: - l’anziana maestra, la maestra
Rosina. – La donna li guardò quasi con diffidenza e poi chiese: - voi siete
lontani nipoti? Nessuno vi avrà avvertito della sua dipartita al tempo. La
maestra Rosina è morta che è quasi vent’anni, quella porta non si apre da
allora. – I due giovani stupiti abbassarono gli occhi a terra, ringraziarono la
signora e mogi mogi si avviarono ai piedi dell’erta che li avrebbe portati al
parco archeologico, senza proferire parola vissero il loro sbigottimento.
La stradina in terra battuta
serpeggiava tra i campi coltivati e risaliva zigzagando. Il sole era già alto
ed il cielo era terso, i due giovani si fermarono quasi a metà strada e
scattarono parecchie foto, sedettero su due sassi e tirarono fuori una
bottiglia d’acqua per dissetarsi. Per la stessa erta passarono quattro ragazzi,
sui vent’anni, due maschi e due femmine, parlavano animatamente tra loro della
tragedia del Kossovo, della necessità della collaborazione degli Stati affinché
gli aiuti umanitari potessero alleviare le sofferenze di un intero popolo. Non
tutti erano d’accordo, una delle due ragazze sosteneva animatamente che la
solidarietà, verso i kossovari, spesse volte eccessiva e poco mirata, riusciva
solo a creare aspettative continue di aiuto senza incentivare meccanismi di
rivalsa, voglia di autogestirsi, voglia di imprenditoria. I due giovani ripresi
i propri attrezzi di lavoro risalirono il monte, quando furono in cima comparve
davanti ai loro occhi l’enorme spianata dove erano disseminate le vestigia di
Jato. Non si fermarono neppure a prendere respiro e si avvicinarono,
percorrendo la decumana, all’agorà. Sembrava non esserci anima viva intorno
nemmeno i quattro ragazzi che li avevano a metà strada sorpassati, il silenzio
imperava e veniva rotto ogni tanto dal soffio di una leggera brezza che muoveva
le foglie ingiallite dell’avena selvatica e dagli scatti della macchina
fotografica che la donna usava con grande maestria. Stavano per affacciarsi al
teatro quando qualcosa li colse, si fermarono a distanza e notarono che in
fondo all’orchestra, ai piedi della prima fila di gradini, stava seduto un
vecchio, la barba canuta, i lunghi capelli che gli scendevano sulle spalle,
avvolto in una tunica bianca fermata alla cintola da una lunga treccia di
giunchi. I suoi occhi erano sereni, erano grandi e di colore azzurro, il suo
sguardo era profondo e sapeva di sapienza e di autentico. Davanti al vecchio,
seduti di fronte, stavano i quattro ragazzi, nessuno parlava, ma la loro
compostezza e i loro sguardi facevano pensare ad un momento di meditazione. I
due giovani s’interrogarono con gli occhi e molto lentamente si avvicinarono,
fermandosi sul ciglio dell’orchestra. I giovani si girarono a guardare ed il
vecchio saggio, alzando gli occhi disse: - aspettavo anche voi, non abbiate
timore, venite avanti e se volete sedete pure. Tremila anni come oggi parlai a
sei persone nello stesso posto, la città brulicava di gente e viveva grandi
fasti e i ricchi diventavano sempre più ricchi, mentre i poveri erano sempre
più poveri. - I due giovani, con timore e rispetto si avvicinarono e
sedettero di fronte al saggio. Le loro menti non pensarono più a niente, furono
pervasi da serenità e non sentirono più il caldo, la fatica, la sete; non si
sentì più il rumore delle frasche carezzate dal vento. Il vecchio saggio
riprese a parlare: - sono Arkados nacqui con questa città e divenni vecchio
quando questo teatro si riempì la prima volta di gente, da allora la vidi
distruggere e ricostruire più volte e, più volte, visse grandi splendori. Non
tutti i cittadini in ogni epoca furono sereni, la ricerca dell’opulenza ad ogni
costo, come rio fato, divideva in due il popolo, sempre più ricchi e sempre più
poveri, sempre più colti e sempre più ignoranti e, man mano, quell’espressione
logica e conseguente di quell’amore fraterno che nulla chiede e tutto concede,
la solidarietà, tendeva al nulla e ritornavano le distruzioni e le guerre. -
Il giornalista guardò in faccia la sua amica fotografa, ambedue fissarono
Arkados e il giovane chiese: - Maestro, di voi abbiamo chiesto giù in paese,
credevamo fosse leggenda la vostra esistenza, ognuno dice di avervi visto e
racconta una storia diversa, parla della vostra dimora, una grotta, e di tesori
in essa nascosti. - Il vecchio accarezzò la sua fluente barba canuta e
poi disse: - Guarda i miei piedi non portano sandali, quindi io non mi muovo,
questo teatro è la mia casa, in questo luogo ho vissuto da sempre, a pochissimi
ho parlato, ancor meno mi hanno ascoltato. Proprio in questi tempi, gli eventi
si stanno ripetendo, come sempre e, come sempre, in assenza di solidarietà ed
in presenza della ricerca disperata dell’opulenza incontrollata, l’effetto sarà
la devastazione dei valori più importanti della vita, la crescita dell’odio, il
buio. Tra voi sei c’è qualcuno che ha le idee confuse, pensate al Kossovo, dove
esiste solo l’odio e la violenza, dove il bene è stato sopraffatto dal male,
dove non si vive per la vita ma per la morte! – Nessuno fiatò, solo una delle
ragazze che erano arrivate prima sul monte si accigliò, stava per parlare ma il
saggio riprese il suo discorso: - non vi è dubbio che la solidarietà, intesa
solo e semplicemente come aiuto reciproco, ingenera inevitabilmente equivoci da
società di mutuo soccorso e ancor più determina il rischio di sconfinare nella
faziosità e nel settarismo. Se così fosse, sarebbe una squalificante
mortificazione dei principi su cui fonda la propria esistenza l’uomo giusto.
Altrettanto ingiustificato sarebbe confondere questo principio con il
solidarismo di alcune correnti socio-religiose che mirano, per mezzo di una
anacronistica organizzazione sociale di stampo, per così dire, neoplatonico, ad
una semplice solidarietà fra varie classi sociali, in contrapposizione a
dottrine più attuali che predicano invece il superamento delle classi stesse,
in una moderna visione di società aperta. Questo egoistico e materialistico
concetto di solidarietà può soddisfare indubbiamente certe esigenze, ma è
certamente insufficiente quando lo si voglia elevare ad un più alto significato
morale e spirituale, in un’ottica più vasta di inestimabile valenza universale.
In questo senso il concetto di
solidarietà travalica gli angusti confini contingenti per dilatarsi in un ampio
respiro di umana fraternità. E’ indispensabile che ciascun uomo giusto lavori
quotidianamente per questa costruzione e sia consapevole che gli strumenti
adatti allo scopo sono l’amore per il prossimo, la tolleranza, la benevolenza,
l’umiltà, il desiderio di capire; elementi tutti sintetizzabili in una sola
parola: solidarietà, la quale si manifesterà continuamente e in ogni luogo, con
tutti gli esseri umani. E’ essenziale che non ci sia interesse alcuno da parte
di chi dà né esosa richiesta da parte di chi riceve, poiché sarebbe uno svilire
i principi sacri dell’uomo se, nel considerare l’argomento, ci limitassimo al
particolare utilitaristico, invece di proporci orizzonti più vasti e mete più
lontane anche se ambiziose e forse utopistiche. Per quanto un uomo giusto possa
ricercare introspettivamente per costruire il proprio Tempio interiore e,
quindi, levigare la propria pietra, è necessario comunque che, uomo tra uomini,
con schietto spirito di solidarietà, doni questa pietra, il suo amore per
l’elevazione di un edificio più importante da costruire tutti insieme, in un
abbraccio che accolga l’umanità intera. Ed egli non potrà portare questo
fardello da solo, come da solo non può affrontare l’angoscioso mistero che ci
trascende, ma ha bisogno di tutto l’amore che il prossimo potrà restituirgli in
cambio di quella solidarietà che egli avrà elargito e che deve perciò
oltrepassare i limiti dell’umano tornaconto personale e del miope bisogno
materiale. Pertanto, per quanto lodevole e necessario, lo sforzo individuale
non è tuttavia sufficiente a gratificare un’esistenza, la quale solo in un
rapporto solidale con i propri simili, può trovare conforto e pieno
appagamento. - Tacque Arkados, fissò tutti, poi si rivolse ai quattro
ragazzi e disse loro: - di più non potevo dire, le leonesse allattano gli
orfani del branco, gli elefanti si curano di tutti i loro piccoli, le scimmie
spulciano e allevano con più cure dei propri i cuccioli degli altri. Una fonte disseta
ogni passante e l’albero dà ombra e frutti agli uccelli, ai mammiferi, agli
uomini e non chiede nulla in cambio. La vostra strada è lunga ma sarà meno
ardua se saprete profondere amore. – Si alzò in piedi, era altissimo, tese le
mani verso il giornalista e la fotografa, li aiutò a sollevarsi e disse loro: -
andiamo, vi porto con me in un posto diverso, compirete un atto che è degli
uomini e capirete come la saggezza e l’amore non muoiono mai.
Il
saggio li precedette a passo lesto e s’incamminarono per un viottolo verso un
piccolo bosco di pini. Davanti ad un anfratto nascosto tra i rovi Arkados disse
ai due: - raccogliete alcuni fiori di campo e fatene un bel mazzo, poi vi
mostrerò qualcosa di cui proverete soltanto piacere. I due raccolsero tante calendule
selvatiche ne fecero un bel mazzetto e seguirono il vecchio nell’anfratto.
La maestra Rosina
Dentro, una luce immensa proveniva da una
fenditura della volta, su una comoda poltrona la vecchia maestra Rosina
sorridente, su un tavolinetto due tazze di tè fumante: - vi aspettavo – disse
la vecchia signora – il vostro tè è pronto, ve lo avevo promesso. E’ tanto
tempo che nessuno mi regala dei fiori, grazie, l’opera che svolgete nella
vostra vita serve ad accrescere la conoscenza e la cultura, ciò lo fate con
amore e disinteresse. Cosa sia veramente la solidarietà serve più ai giovani e,
quelli che avete incontrato, se hanno appreso, possono diventare lievito nella
società in cui vivono, è un valore che ne comprende tanti altri. Voi dovete
capire solo quanto Arkados vi ha detto. Noi non apparteniamo più al presente,
siamo stati presenti in epoche diverse, i valori in cui abbiamo creduto e che
abbiamo predicato ci hanno dato l’eternità, non certo nei corpi, noi siamo solo
illusione per voi, ma eterni in questi valori di cui gli uomini avranno sempre
di bisogno. - La vecchia maestra Rosina si alzò, prese la mano di Arkados
e ambedue sorrisero e si dissolvettero. Fuori dall’anfratto il vento soffiava
sulle cime dei pini, tutt’intorno musiche celestiali, la natura suonava la sua
arpa eolica.
La casa a peristilio
Sono riuscito a portarvi tra i reperti archeologici in un mondo fantastico?....
Se vi va, lasciate un commento!.... grazie!!!
Non ci sono parole, storia, mito, leggenda, fantasia e insegnamento. Scritto contemporaneamente con la penna e con la grande anima di un educatore. Letto due volte a distanza di 6 ore!!!
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