venerdì 26 maggio 2017

STORIE DI SICILIA... I NOTABILI - (Riprop.) 26.05.2017





















Nei piccoli paesi dell’entroterra siciliano, ancora oggi, si riscontrano personaggi carismatici, possessori di antiche culture, capaci di fare la differenza; un anziano maestro elementare, un artigiano, un vecchio segretario comunale,  un presidente di congregazione, un bracciante che nelle ore di riposo si dedicava alla lettura. Il carisma se lo costruivano giorno dopo giorno, attenzionando tutto e tutti, elargendo i consigli del buon padre di famiglia, mediando piccoli dissidi nelle famiglie, risolvendo modesti casi di sopravvivenza, trovando un piccolo proprietario terriero che offrisse un lavoro a chi più aveva di bisogno e, quando occorreva, spendere una parola buona perché qualche fanciulla potesse trovare un buon partito da sposare.
     La storia che mi accingo a raccontarvi è quella di un notabile, di un carismatico e, comunque, quella di una persona per bene. A più di cinquant’anni dal suo trapasso, in molti se lo ricordano e lo portano ad esempio di  saggezza e signorilità.




I notabili  


Racconto breve di Mario Scamardo



Circolo dei Civili


         Dopo il sindaco, il farmacista, il maresciallo dei carabinieri ed il parroco, la persona più importante a San Cipirello era don Nenè Cutrò, in quanto era stato per trent’ anni l’amministratore di una grande azienda agricola del territorio.
         Don Nenè, panciuto come un’orcio, un occhio quasi spento, conosceva tutti in paese e, da quando aveva smesso di occuparsi di agricoltura e di contabilità, appuntata diligentemente su grossi quaderni, uno per anno, con copertina nera e gli orli in rosso, usati come quaderni di bella copia dagli scolari delle elementari, passava le sue giornate seduto davanti al “Circolo dei civili” ad intrattenere con aneddoti raccolti nella sua lunga carriera, e narrati  come fossero romanzi brevi, con grande maestria. Al mattino, Sisino Papa ex bracciante che era stato alle dipendenze di don Nenè, si recava a casa sua, aspettava che questi si alzasse dalla tavola, dove aveva consumato una scodella di caffellatte e pane, che stringesse di un punto la larga cintura di cuoio con la quale si teneva su i pantaloni, che alzasse le sue bretelle rosse ed infilasse la giacca con al taschino un vistosissimo fazzoletto di colore azzurro, e poi lo accompagnava nel suo percorso da casa al circolo, che pur essendo breve, appena 200 metri, durava un bel po’, perché il vecchio distinto signore si fermava a parlare con quanti passavano e salutavano, con le signore che spazzavano il marciapiedi davanti casa, col postino, col barbiere all’angolo della strada, col fruttivendolo col carrettino e, talvolta, con i bambini che giocavano su un piccolo spiazzo sterrato. Non c’era persona che non salutasse don Nenè. Sisino, accompagnandolo, andandogli a comprare il giornale e portandogli un caffè dal bar di fronte, s’era guadagnato l’opportunità di sedersi davanti al “Circolo dei civili”, cosa che altrimenti gli sarebbe stata impedita. La stessa cosa accadeva il pomeriggio, intorno alle sedici, l’accompagnamento si ripeteva con la stessa ritualità. Quando don Nenè parlava, Sisino assentiva col capo, guai a dubitare di quello che diceva, Sisino si accigliava ed apostrofava: - don Nenè giusto dice, c’ero io presente!
         Un pomeriggio tra i soci del circolo l’argomento di discussione cadde sul flagello che erano i topi nelle campagne, don Nenè intervenne e raccontò che avendo oliato un catenaccio in ferro, il mattino seguente trovò la porta senza il catenaccio, i topi erano così grossi che, ghiotti di olio, si erano rosicchiati il catenaccio senza lasciare traccia. Qualcuno, considerando il racconto un’esagerazione, con riverenza disse: - ma don Nenè, come è stato possibile, i topi che rosicano il ferro?  Sisino sempre all’erta, si alzò in piedi di scatto: - E tu che metti in dubbio la parola di don Nenè? C’ero io e posso testimoniare!  Don Nenè sorrise sotto i baffi che non aveva e chiese a Sisino di andargli a prendere un caffè.
            Don Nenè, che aveva tenuto a battesimo metà dei giovani del paese, aveva un figlioccio, figlio di un vecchio campiere che lavorava al Comune, si occupava dell’ECA (Ente Comunale di Assistenza), e si occupava, a tempo perso, di tirar fuori tutti i documenti che servivano ad uscire i passaporti e, dietro un piccolo compenso, portava il passaporto fino a casa, corredato dei visti necessari all’espatrio. Cosa ci entrava don Nenè in tutto questo? Tanto, perché la gente che doveva espatriare, prima di passare dall’ufficio ECA, passava da casa sua per raccomandarsi. L’anziano ex amministratore consigliava, chiedeva delle destinazioni da raggiungere, della motonave con la quale partivano, dei punti d’appoggio all’estero e del lavoro che intendessero fare.  La gente rincuorata prometteva di andarlo a salutare prima di partire e si congedava da lui con una frase: - menu mali ca cc’è vossia don Nenè, u Signuri l’avi a fari campari cent’anni!  Si guadagnava il sorriso del vecchio e scorgeva gli occhi umidi dello stesso. Prima che uscissero domandava: - Andate alla Merica Merica a Brucculinu, oppure alla Merica Zuella (Venezuela), alla Merica Gentile (Argentina), ai Guai (Uruguai), al Brasile o all’Australia?  Avuta la risposta, assentiva un po’ col capo, poi: - fate fortuna, mi raccomando, e senza dimenticare la nostra Sicilia!
            La giovane democrazia italiana si ritrovò all’indomani della seconda guerra mondiale, afflitta da problemi non indifferenti; di fronte alla diffusa disoccupazione e alla mancanza di materie prime necessarie alla ricostruzione, essa favorì l’emigrazione, mediante accordi bilaterali con le nazioni che necessitavano di manodopera.
            A casa di donna Vincenzina Piraino , da una settimana c’era un via vai di persone, visite, ma siccome non avevano avuto lutti in famiglia, non c’erano state nascite, il mulo era in ottima salute e lo zio Ignazio, suo marito, era ancora in campagna, la gente del vicinato si chiedeva il perché. Il postino tempo prima aveva consegnato alla donna una busta raccomandata, evento da annali in quel rione. Donna Vincenzina aveva apposto il segno di croce sulla ricevuta, e aveva infilato nel seno la busta, il luogo più sicuro per non smarrirla. S’era sfilato il grembiule e con lo spolverino sulle spalle era corsa da don Nenè a farsi leggere quella lettera, solo allora scoprì che era l’atto di richiamo che sua sorella Provvidenza le aveva inviato  da Bruccolino, per lei, lo zio Ignazio e il figlio più piccolo Giuseppe, che stava imparando, da mastro Santo Firrinceli, l’arte del barbiere. Gli altri due figli, Giovanni, il più grande e Nicola, aspettavano il passaporto per emigrare il primo in Uruguai ed il secondo in Brasile.
            Donna Vincenzina seduta con un gomito appoggiato al tavolo, dava spiegazione a parenti e visitatori, ogni tanto le pigliava il magone e diceva: - Nni stamu spartennu comu i figghi i quagghia!... (Stiamo pigliando tutte le direzioni come una nidiata di quaglie che pigliano il volo!) si alzava e alimentava il fuoco sotto la pentola con un sarmento in attesa che tornasse dal lavoro il marito. Lo zio Ignazio tornò, ma senza il mulo, in mattinata un “bazzarioto” (sensale di muli) se lo era portato via mettendogli in mano diciottomila lire. Donna Vincenzina alla notizia scoppiò in un pianto dirotto, dicendo agli astanti: - Si sta sbacantannu sta casa, u primu nisciu!... (Si sta svuotando questa casa, il primo è andato via!) si, perché il mulo era considerato un componente di riguardo del nucleo familiare. La più grossa disgrazia che poteva colpire la famiglia contadina era quella di perdere il mulo, e allora lutto stretto e visite dei parenti. Donna Vincenzina fece mangiare il marito e prima che si facesse buio si recò con lui dalla “Virticchia” (Negozietto dove si vendeva di tutto la cui proprietaria, una vecchietta arzilla e minuta veniva appellata col nomignolo, a ‘nciuria, virticchia in quanto proprio minuta), per acquistare cinque valigie di cartone pressato di quelle grandi, una per componente della famiglia, e ben dieci matassine di romanella, una cordicella resistente di canapa intrecciata, per assicurarsi che le valigie non si aprissero nel viaggio.
            I primi due a partire furono Giovanni e Nicola, con un piroscafo che da Napoli faceva rotta per Caracas, da lì si potevano raggiungere via terra il Brasile e l’Uruguai.Tutto il quartiere si diede appuntamento alla fermata dell’autobus che li avrebbe portati a Palermo per poi imbarcarsi sul postale per Napoli, dopo il saluto accorato degli astanti, i ragazzi si abbracciarono al collo dei genitori e donna Vincenzina pianse come se fosse andata al loro funerale, grida strazianti che fecero piangere anche l’autista ed il facchino dell’autobus, don Pietrino Vullo e don Totò Messina. Per due giorni il camino in casa Piraino non diede segni di vita e, come nella migliore tradizione siciliana, i vicini di casa ed i parenti  gli portarono da mangiare (u cunsulu). Qualcuno si premurò a portare un piccolo fascio d’erba alla capra dei Piraino legata davanti la porta, ed ebbe cura di mungerla.
            Quando dopo un paio di mesi arrivarono quasi contemporaneamente le lettere di Giovanni e Nicola che assicuravano di essere già a lavoro e di trovarsi bene, lo stato di lutto a casa dei Piraino ebbe fine, allora si decise di festeggiare prima della loro partenza per Bruccolino. L’occasione la diede la capra, che impigliandosi nella corda morì soffocata, e siccome era nelle intenzioni di zio Ignazio macellarla, non ci fu sofferenza, anzi la festa venne anticipata di quattro giorni.
Capra lessa, fave bollite, pane freschissimo e vino a fiumi; sul marciapiedi antistante l’abitazione, don Santo Milia e mastro Pippino Curamasi con banjo e violino allietarono la serata fino a notte fonda, due giorni dopo, il triste commiato.
            Donna Vincenzina e lo zio Ignazio, in abito nuovo, si recarono a far visita a don Nenè Cutrò, per ringrazialo del suo interessamento e per salutarlo. Il vecchio amministratore li accolse nella sua casa, e quando seppe che il transatlantico che li portava in America era la Saturnia, ebbe un sussulto, i suoi occhi si illuminarono: - appena sarete a bordo chiedete del comandante della nave, è un galantuomo di Genova, si chiama Giovanni Giurini, ho avuto il piacere di conoscerlo quando ero militare di stanza in Liguria, ditegli che lo saluta Antonino Cutrò, vi tratterà come si deve e dategli i miei saluti, i suoi li ho ricevuti l’ultima volta che ha attraccato a Palermo. I Piraino si sentirono rincuorati, abbracciarono don Nenè e lo ringraziarono, loro avevano dei biglietti di terza classe, un biglietto da emigranti.
            Due giorni dopo, al molo Santa Lucia di Palermo era ormeggiata la motonave Saturnia, immensa, dipinta in nero con una larga banda bianca, una città galleggiante. Una valigia di cartone ed una borsa in tela blu cucita a mano ciascuno, nella borsa gli alimenti per il viaggio. Lo zio Ignazio portò con se a tracolla due grandi foto ovali incorniciate che aveva staccato dalle pareti di quel vano terreno dove abitava, quelle dei suoi genitori poi, scomparvero tra la folla, quella grande nave li inghiottì e non li vedemmo più. Un paio d’ore dopo, la nave si scostò dal molo e, pian pianino scomparve all’orizzonte, mentre miriadi di fazzoletti bianchi si agitavano.
            Don Nenè Cutrò, al “circolo dei civili”, assistito dal suo lacchè Sisino Papa, interruppe chi parlava degli ultimi emigrati, si ricompose sulla sedia, si schiarì la voce  ed infilando i pollici sotto le sue bretelle rosse, declamò:

Emigranti

Li cordi si struggheru a la marina,
la terra divintava cchù luntana,
me matri salutava a la banchina
e l’occhi so parianu nna funtana.

            Sicilia, terra mia, eu ti lassavu…
            l’America m’aspetta, terra d’oru;
            famigghia e amici, tuttu abbannunavu
            in cerca di furtuna e di lavoru.

Nna valiggedda fatta di cartuni,
nna coppula e un pastranu camulutu,
un pani ccu tri coschi d’un carduni,
nna giacca e un ciliccheddu di villutu.

            Travagghiu a la Merica cci nn’è,
            li sordi si guadagnano a palati,
            lu jornu eu travagghiu ‘nta minera,
            la sira, si munnanu patati…

Mi la passu bona cci dicia a me matri,
megghiu di daccussì nun si po’ stari,
sentu nna cosa sula cchiù di l’atri,
nun viu l’ura, vogghiu turnari!

            Sarà bella la Merica, ppi tutti,
            terra unni li sordi su a manati,
            ma comu mi la scordu la Sicilia
            dunni l’ossa di me matri su pusati!

Sull’ultimo verso, tirava fuori un singhiozzo, poi scuoteva la testa e, cacciando dalla tasca di dietro dei pantaloni un fazzoletto bianco ben piegato, faceva il gesto di asciugarsi gli occhi trascinando gli astanti nella commozione.
Don Nenè Cutrò aveva letto tanto nei suoi trent’anni di amministrazione del feudo “Balatelle”. Nell’atrio del grande caseggiato ubicato in cima al colle, all’ombra di due enormi platani, dopo avere dato le direttive a mezzadri, coloni e braccianti, tirava fuori una comodissima poltrona in vimini, inforcava gli occhiali e ripigliava il romanzo lasciato il giorno avanti, prima che sua moglie, la signora Laura buttasse gli spaghetti in pentola. In uno stipo a due ante, oltre ai suoi registri ci stavano tutti i libri che aveva letto e riletto. Don Nenè prediligeva la letteratura russa e quella popolare, per cui per anni interi si immergeva nei romanzi di William Galt (Giuseppe Natoli), La vecchia dell’aceto, Coriolano della Floresta, Cagliostro, I Beati Paoli, Calvello il bastardo, Fra Diego La Matina, La principessa ladra, I Vespri siciliani, Storie di Sicilia, Storie e leggende di Sicilia, tomi con trame trascinanti che davano lo spaccato della Palermo del ‘700. Nessuno lo batteva nella descrizione dei personaggi: la Dama del carretto, fra Diego La Matina, Giuseppa Bonanno, tutti i vicerè che si alternarono, Coriolano, Cagliostro, era come se li avesse conosciuti di persona, descriveva abiti, portamento, pregi e difetti, spesso quando narrava, si alzava in piedi e ne imitava la gestualità, un personaggio don Nenè, che soleva definirsi “un’enciclopedia vivente”.

      Quando, raccontando brani dei Beati Paoli, introduceva il personaggio di Matteo lo Vecchio, questurino e soprattutto traditore, si alzava, si avvicinava al ciglio del marciapiedi, sputava due volte a terra, si asciugava col solito fazzoletto e poi esclamava: - Sbirro, feccia dell’umanità, traditore peggio di Gano di Magonza! Aspettava l’assenso degli astanti e, quindi, iniziava il suo narrare.
Di ogni zar, di ogni principe, di ogni cortigiana russa, conosceva alberi genealogici ed intrighi di ogni sorta, compreso un gossip spesso arricchito dalla sua fantasia, tanto da consigliare i suoi figliocci, e ne aveva tanti, di dare ai propri figli non primogeniti, nomi della letteratura russa, Nicola, Ivan, Olga, Anastasia, evitando scrupolosamente di  fargli appioppare i nomi delle cortigiane più discusse.
   Tutto sommato don Nenè era soltanto un generoso, una persona cordialissima e spesso manierosa, fondamentalmente buono, sempre disposto a spendersi per chi chiedeva il suo aiuto, che mai aveva accettato di soffermarsi o sedere nel circolo di fronte a quello dei “Civili”, in quanto frequentato da mafiosi circondati da malavitosi d’ogni sorta. Attraversata la strada, volgeva lo sguardo verso quel circolo e ripeteva mugugnando: - Faciti cchiù puzza di vivi ca di morti! (Fate più puzza da vivi che da morti!).
     Tutti gli portavano rispetto, aveva fatto lavorare tanta gente e, quando qualcuno si trovava in difficoltà allora, senza che nessuno se ne accorgesse, faceva preparare  da sua moglie due borse piene di ogni ben di Dio e gliele faceva recapitare da Sisino dopo l’imbrunire, e questo succedeva molto spesso.
     Don Nenè non parlò mai di politica, non favorì mai alcun candidato, eppure, se avesse voluto, avrebbe potuto da solo eleggerne parecchi, come non affrontò mai una discussione riguardante la religione. Quando qualcuno gli chiedeva perché non parlasse mai di politica, il vecchio saggio rispondeva: - Politica e religione fanno soltanto litigare e, come se non bastasse, fanno odiare. Questa società non è ancora matura per capire che l’avversario politico non è un nemico, ma solo uno che la pensa diversamente e merita rispetto, così pure chi è stoltamente convinto di possedere le “Verità rivelate”, odierà un altro che, pur amando lo stesso Dio, non appartiene alla sua chiesa, sia anche suo fratello carnale!
     Sopraggiunse l’autunno, per la verità molto assolato e con scarse piogge, le sedie venivano poste dal cameriere sempre fuori dal circolo sul largo marciapiedi. Da circa una settimana don Nenè non s’era visto, la gente chiedeva dell’assenza e Sisino non passava. Un pomeriggio suonarono le campane a morto, sette tocchi, numero dispari, era morto un uomo e qualcuno cominciò a chiedersi chi fosse. Dalla chiesa uscì il parroco assieme a due chierichetti, sull’uscio baciò la sua stola viola, la pose sulle spalle, sistemò la sua cotta bianca e col breviario tra le mani si incamminò.  Giunto che fu davanti al circolo, gli astanti si alzarono tutti, si tolsero le coppole ed inchinandosi in segno di rispetto chiesero: - Padre arciprete, chi è morto? Il parroco si fermò un attimo, inarcò le arcate sopraccigliari e mestamente rispose: - Pace all’anima sua, quel sant’uomo di don Nenè, stanotte il suo cuore non ha più retto! Tutti si segnarono e si segnò il parroco ed i chierichetti, poi continuò a camminare mentre tutti si rimisero le coppole e ripresero seduti i loro discorsi.
     Per tutto il pomeriggio e la serata fu un via vai di gente che andava a rendere omaggio alla salma di don Nenè, e la chiesa non potè contenere la gente che l’aveva accompagnato per i funerali. La frase che più ricorreva era: - Con la morte di questo galantuomo, ci sarà un bel po’ di gente che andrà a letto a pancia vuota!
     Il “Circolo dei civili” per tre giorni osservò lutto strettissimo, non fu aperto, e al quarto giorno, la prima sedia che fu posta fuori sul marciapiedi fu quella in cui sedeva don Nenè, sulla spalliera fu legato un nastro nero e nessuno mai vi si accomodò. Il giorno del suo trapasso, il 6 di ottobre, fino a circa vent’anni dopo fu ricordato e, davanti ad un santino di Sant’Antonino, si faceva consumare un lumino.
Non avendo avuto né figli né nipoti, don Nenè cadde nel dimenticatoio per tutti tranne che per Sisino, che ancor oggi, vecchio e claudicante, il giorno dei defunti depone un mazzo di gerbere sulla sua tomba, i fiori che il vecchio amministratore con cura coltivava nelle aiuole del caseggiato del feudo “Balatelle”.

(Caseggiato del feudo "Balatelle")





     Spero di aver dato, con questo piccolo spaccato di vita siciliana degli anni '50, contezza di uno dei tanti personaggi carismatici, un notabile. 

                                         Grazie per l'attenzione.

Se vi va, lasciate un commento, la richiesta di riproporre in narrato viene più dai ragazzi!





martedì 16 maggio 2017

IL BANCO DI DISISA - Favola - (Riproposizione) 16.05.2017

















Mario Scamardo

I Racconti del Borgo

Il Banco di Disisa




(Cuba a copertura del pozzo)


Il feudo di Desisa[1], in territorio di Monreale, faceva parte della “Magna divisa Jati”, costituita da feudi sotto l’egemonia di Jato. I terreni erano molto fertili e gli arabi, grandi idraulici, avevano realizzato le canalizzazioni. Sfruttando l’artesianesimo e mettendo in atto i principi di sollevamento delle acque, erano riusciti ad irrigare quasi tutti i terreni coltivabili. Desisa era anche un avamposto per il pagamento dei tributi, ed era altresì il luogo dove si era costretti a passare per entrare da sud-ovest nei territori di Jato, in quanto era necessario pagare una tassa. Una guarnigione di guerrieri mori, ben armati, stanziava nel feudo e montava la guardia all’avamposto che si trovava in cima ad un’altura, un fortilizio con una doppia cinta muraria, sovrastata da due torri di avvistamento. All’interno, nel patio, una fontana versava copiosamente e l’acqua che fuoriusciva dal grande abbeveratoio si riversava in un enorme pozzo a forma di pera, scavato nel terreno. Chi transitava dal posto, veniva accompagnato dalle guardie al fortilizio, ed era obbligato a pagare il pedaggio. Gli abitanti del feudo, pagavano i tributi quattro volte all’anno, col cadere dei solstizi e degli equinozi. Quando qualcuno ritardava o si rifiutava di versare quanto stabilito, veniva prelevato dalle guardie, legato alle caviglie e calato, a testa in giù, nel pozzo con la testa a pelo d’acqua;  dopo il terzo giorno, il malcapitato, veniva messo alla gogna, fuori dalle mura e veniva esposto al pubblico ludibrio. La gente del feudo viveva spesso nel terrore, in quanto non erano concesse dilazioni ai pagamenti ed il trattamento della gogna era disumano e fortemente umiliante. Tutti chiamavano quel posto “il banco di Desisa”, e tutti erano convinti che all’interno dovessero esserci enormi depositi di monete d’oro , le “duppiedde”. 













(Monete d'oro "duppiedde")



(Passo del Polledro - Guado sul fiume Jato)

In uno dei casali a valle del feudo, in prossimità del Passo del Polledro[2], un guado sul fiume Jato, abitava un ricco berbero, Alì Mustafà Galugi, coltivava molti fondi e la sua casa era la più grande e la più bella del circondario che divideva con le sue tre consorti e i due figli avuti dalla prima moglie, Manzur di circa vent’anni e Mufida di sedici. I due giovani erano nelle simpatie di tutti e, gli occhi neri e profondi della ragazza imponevano un gran rispetto e tanta ammirazione. Manzur amava la caccia, era un eccellente arciere ed era stato addottrinato all’uso della scimitarra, un vecchio maestro d’armi  della piazza di Jato era stato il suo precettore. Mufida era stata affidata, per imparare la danza e l’arte di reggere la casa, alla terza moglie del padre, la trentenne Athifa. La donna, che la stimava tanto per il suo carattere remissivo e soprattutto per la sua intelligenza e bellezza, ebbe cura di lei e la istruì con grande amore e passione, preparandola così a un’eventuale matrimonio.
Un mattino i due fratelli fecero sellare i loro destrieri, due cavalli arabi dal manto morello e andarono a caccia verso il bosco. Manzur, ceduto il suo arco a Mufida, le fece scoccare un dardo che trapassò, abbattendola, una lepre che se ne stava accovacciata nel suo giaciglio e, quando la ragazza corse a recuperare la sua preda, il fratello la seguì con lo sguardo e mostrò tutta la sua soddisfazione. Nella mattinata tante furono le prede abbattute, conigli, colombacci, tortore e persino un germano reale, la loro caccia era stata alquanto fortunata.  I ragazzi legarono all’arcione delle loro selle gli animali abbattuti e iniziarono la via del ritorno. A metà strada si imbatterono in un plotone di guardie che pattugliava il territorio, ed ebbero la sgradita sorpresa di essere circondati, disarmati e costretti a raggiungere il “banco”. Mufida e Manzur non capirono il comportamento delle guardie, ma giunti sul posto vennero fatti smontare da cavallo e vennero accompagnati all’interno. Un anziano burbero comandante si presentò davanti a loro e chiese al capo plotone per quale motivo i due giovani fossero stati condotti alla sua presenza. L’uomo, che teneva nelle due mani i pezzi di caccia abbattuti, li gettò sul grande tavolo e disse: - per questi li ho portati qua, hanno abbattuto più selvaggina di quanto viene stabilito dalla legge, due capi a testa, quindi, devono pagare per gli otto capi eccedenti. – L’anziano comandante, li guardò, li vide ben vestiti, immaginando che non fossero né bracconieri, né malviventi, chiese loro a quale famiglia appartenessero e da dove venissero. Mufida sorrise e rispose: - siamo i figli di Alì Mustafà Galugi, la casa di nostro padre è al Passo Polledro, nessuno ci ha mai vietato di cacciare, mio padre ha sempre pagato i tributi. – Mi dispiace – rispose il comandante, è prevista una tassa di una moneta d’oro ogni quattro capi in più abbattuti, quindi, voi dovete darmi due monete. – La ragazza sorrise ancora e disse: - con noi non abbiamo monete, se questa è la legge, mio fratello farà ritorno e ve le porterà – ma il burbero uomo fece una smorfia: - voi andrete a pigliare le monete, vostro fratello rimarrà qua, fino a quando non sarete tornata. – La ragazza prese la selvaggina dal tavolo, uscì, la attaccò all’arcione e si dette al galoppo verso casa. Il vecchio Alì Mustafà, vedendo ritornare la figlia da sola si preoccupò, ma quando seppe dell’accaduto, montò a cavallo e si recò su al fortilizio, sborsò le due monete e rientrò col figlio.

(Manzur)
Manzur non digerì affatto il tributo impostogli e tanto meno il comportamento delle guardie, la selvaggina era abbondante, e pensò che da quando l’uomo era sulla terra aveva sempre cacciato senza l’imposizione di balzelli. Spesso si rodeva pensando all’accaduto ed una sera decise di farla pagare ai gestori del “banco di Desisa”. Come tutti, pensò che all’interno dovevano esserci dei depositi in denaro, tante “duppiedde”, allora bisognava prenderne un po’, bisognava escogitare un sistema che non implicasse grossi rischi, il furto veniva punito con l’amputazione delle mani, ma le sue gli servivano. Andò per i campi e raccolse tanti papaveri, li pestò in un mortaio e conservò il succo in un piccolo otre, quando le guardie, ultimate le scorte di vino, vennero giù a comprarne da suo padre, Manzur colmò gli otri con tanto succo di papaveri, capace di addormentare una mandria di cavalli. La sera si appostò nelle vicinanze del fortilizio e, quando vide crollare dal sonno le due sentinelle che stavano all’ingresso, sgattaiolò dentro. Tutti dormivano profondamente ed il russare faceva tremare i tetti. Staccata una fiaccola dal muro, girò ogni dove, non c’era un buco, una cassa, un nascondiglio che facesse pensare ad un deposito di monete, l’ultimo posto dove sbirciare era un pozzo a pera asciutto, scavato all’interno del grande salone, sormontato da una piccola cuba, una costruzione a forma di cubo, realizzata in mattoni refrattari, con a sua volta realizzata sopra una cupoletta, anch’essa in mattoni pieni. Si sporse ed al lume della fiaccola vide sul fondo luccicare le “duppiedde”, erano tante, tante da far girare la testa. Scendere in fondo al pozzo era un’impresa, risalire, lo era doppiamente. Manzur non era un ladro, anzi un generoso, un altruista, e quando pensò di calarsi con una corda, la sua coscienza lo fermò, rimise la fiaccola al suo posto e ritornò a casa. Si sentiva di già appagato dal fatto che era riuscito a buggerare le guardie, e tanto gli fece sedare la rabbia che gli covava dentro.
Una sera, nell’aia davanti casa, il padre tenne una festa, furono accese tante fiaccole da illuminare ogni dove e furono preparate un bel po’ di vivande. Tutte le famiglie di Passo Polledro arrivarono portando un dono a Mufida. Ognuno giunse con le proprie mogli e i figli e tutti presero posto intorno al grande fuoco. Alì Mustafà Galugi, col suo abito più bello, accompagnato dalle tre mogli e dai figli, sedette per ultimo, fece cenno ai servitori e vennero portati decine di vassoi ricolmi di carni, di verdure, di frutta e di dolci. Grosse caraffe in argilla erano colme di vino al miele e senape e per il fine pasto era pronta una grande brocca con un liquore di fichi. Al ritmo del battito delle mani, a turno, tutte le ragazze danzarono, per ultima, ballò Mufida. Il vecchio Alì Mustafà invitò gli astanti a raccontare qualcosa per allietare la serata. Si alzò in piedi Manzur e chiese al padre di poter narrare una storia. Il vecchio berbero concesse la parola e Manzur raccontò, come se l’avesse vissuta un’altro, la sua visita al fortilizio, messa in atto con l’ausilio del sonnifero. Raccontò del pozzo a pera sormontato dalla piccola cuba e del suo prezioso contenuto, ma ricorse a tanta fantasia per inventarsi un incantesimo che non permetteva, a chi si impossessava delle “duppiedde”, di uscire dal pozzo fino a quando non le avesse riposte. Raccontò che qualcuno, per evitare di rimanere imprigionato, tentò l’operazione con un cane, nascondendo in ogni boccone una moneta, ma l’incantesimo aveva bloccato il cane, fino a quando, a digestione avvenuta, lo stesso non depositò le monete. Raccontò inoltre che, all’uscita dal fortilizio, un vecchio saggio barbuto aveva chiesto all’uomo che si era calato nel pozzo: - giovane amico, dimmi, è stato svuotato il “banco di Desisa”? – no – rispose l’uomo – il saggio si portò disperatamente le mani alla fronte ed esclamò: - ah, povera Sicilia!.. – l’uomo allora volle sapere di più – dimmi vecchio saggio, cosa occorre per svuotarlo? – Il “banco” è soggetto ad un incantesimo, una vecchia strega cattiva lo ha praticato, il denaro che in esso è conservato si può portar fuori a condizione che l’incantesimo venga spezzato, e per far ciò bisogna che vengano sacrificati tredici innocenti ed il loro sangue venga sparso attorno al pozzo asciutto. – Il saggio sparì nel nulla e l’uomo, terrorizzato, si allontanò di corsa. Finito il racconto Manzur ricevette gli applausi degli astanti e qualcuno iniziò un’altra storia.
Il vecchio Alì Mustafà, conosceva bene suo figlio, e conosceva, altresì, bene com’era fatto il fortilizio, con i suoi pozzi e con i suoi camminamenti, troppe descrizioni meticolose per uno che c’era stato appena due ore in stato di fermo, allora pensò che una parte della storia era vera. L’indomani chiamò il figlio e si fece confessare tutto. Manzur raccontò tutta la verità ed il padre lo rimproverò per l’impresa rischiosa, ma lo lodò per la sua onestà, ma anche per la sua fantasia nel narrare.
Passò il tempo e Mufida sposò un giovane berbero che la portò lontana, nel suo casale ubicato nella Divisa Elcumeyt[3], al di la del Monte Jato. Anche Manzur sposò una giovane donna che proveniva dalla Divisa Lacbat[4], visse assieme al vecchio padre e alle sue tre mogli.


(Papaveri)

Un giorno, attraversando dei campi, Manzur vide tre uomini che raccoglievano capolini di papaveri e stavano per riempirne due grandi sacchi, si fermò e chiese loro: - ditemi, siete voi speziali o medici? – no – risposero in coro i tre, ma non dissero altro. Il giovane si allontanò e, ricordando l’uso che egli ne aveva fatto dei papaveri, capì che i tre programmavano di svuotare il “banco di Desisa”. Per quattro sere consecutivamente si appostò tra gli alberi, ma nessuno si fece vedere, forse si era sbagliato sulle intenzioni dei tre uomini, ma la quinta sera, dopo il pasto, vide le sentinelle piegarsi sulle ginocchia e cadere in un sonno profondo, qualche minuto dopo vide entrare nell’avamposto i tre uomini che avevano raccolto i papaveri. Li seguì a distanza, armati di pugnali e delle loro scimitarre, li vide ispezionare ogni angolo, erano dei ladri. Quando con le torce illuminarono il pozzo asciutto, legarono una corda ad un anello che era fissato al muro e si calarono dentro con delle bisacce. Presero quante più “duppiedde” possibili, le infilarono nelle tasche e persino negli stivali, erano tre brutti musi e uno dei tre disse agli altri due: - fratelli, ora risaliamo e per non correre nessun rischio, prima di andar via sgozziamo tutte le guardie – gli altri due, sulle prime  dissentirono: - ma non ci hanno visti, dormiranno per tre giorni – ma quando il primo, che sembrava essere il capo, scosse negativamente la testa, scoppiarono in una sguaiatissima risata e tutti e tre gridarono: - sgozziamoli! - Manzur non aveva a simpatia i ladri, ancor meno gli assassini, sciolse la corda dall’anello a cui era fissata, si affacciò all’imboccatura del pozzo e disse ai tre malviventi: - senza i vostri propositi di assassinio, forse, mi sarei convinto ad andar via lasciandovi portare il denaro, ma la vostra cattiveria supera ogni limite, è giusto che sia punita, il vostro sogno era di vivere e morire ricchi, accontentatevi della metà del vostro sogno, quello soltanto di morire ricchi! – Uscì dal fortilizio portando con se la corda. Appena fuori, guardò la valle, era una notte di luna, la bianca luce illuminava le messi, s’incamminò verso casa e, giunto a metà strada, si girò per guardare indietro. Il “banco di Desisa” continuava a possedere ancora il fascino dei suoi misteri.



[1] Toponimo ancora esistente in territorio di Monreale, nei pressi della frazione di Grisì.
[2] Toponimo ancora esistente, confine meridionale del feudo di Desisa. (Guado sul fiume Jato).
[3] Il toponimo odierno è il Monte Kumeta, che si affaccia al Monte Pizzuta, in territorio di Piana degli Albanesi.
[4] Il toponimo odierno è Malvello, in territorio di Monreale.




 Se vi è piaciuta, lasciate un commento
 Se non vi è piaciuta, lasciate un commento
                                G r a z i e !!!

martedì 2 maggio 2017

IL FALCO E LA PRINCIPESSA - Racconto breve - 02.05.2017 (Riproposizione)


 














 


IL FALCO E LA PRINCIPESSA 







     C'era una volta una principessa berbera, che abitava in un'oasi del Sahara tunisino. Il padre, capo di una grande tribù, era ricchissimo, la sua tenda era enorme e sfarzosa. Soffici cuscini di seta ricamati in oro, immensi tappeti arabescati ricoprivano l'intero pavimento, artistici samovar tirati a lucido e incensieri sempre accesi diffondevano nell'aria profumi esotici, a decine erano le casse piene di pietre preziose gemme e sete damascate.
     Al centro di un enorme palmeto stracarico di datteri zuccherini, una sorgente gorgogliante di chiarissima acqua si versava in una grande vasca, ammattonata in ceramica color verde smeraldo, che faceva sembrare l'acqua ancora più fresca e cristallina.
     Fatima, la principessa, unica figlia, veniva coccolata dalle sette mogli del padre e veniva educata da quattro saggi fatti venire dalla Persia, dalla Siria e dall'Iraq, affinchè apprendesse l'arte del canto, della pittura, della tessitura e della danza, mentre, per farle apprendere gli insegnamenti delle Sure del Corano, era venuto a bella posta da Kairuan, quarta città santa dell'Islam, un filosofo saudita di gran fama, che s'era addottrinato alla Mecca.
     Il padre possedeva, oltre all'immenso palmeto, una mandria di mille dromedari e un ovile di duemila pecore, che affidava per il pascolo alle cure di pastori berberi. A Fatima era stato regalato uno stallone arabo e le era stata donata la sella sulla quale la madre, che era morta dandola alla luce, si era recata nella grande moschea di Tozeur il giorno delle nozze.
     La principessa veniva svegliata tutte le mattine all'alba e, dopo il bagno nella immensa vasca posta al centro del palmeto, saltava in groppa al suo stallone arabo e si addentrava tra le bianche dune di finissima sabbia. Il padre l'accompagnava con lo sguardo e gioiva per la sua maestria nel cavalcare, mentre il vento faceva ondeggiare la sua chioma corvina e con essa i suoi veli. Fino al ritorno di Fatima tutti nell'oasi sembravano in apprensione, ma lei, come una nuvola variopinta, bloccava il suo destriero davanti alla grande tenda e smontando da cavallo correva a gettarsi al collo del padre coprendolo di baci.


     La sera, attorno al fuoco, fuori dalla tenda i contadini, i pastori e le loro mogli, sorbendo tè alla menta, raccontavano del loro passato tra le dune e delle loro avventure, quando in carovana andavano a rifornirsi di sale e di stoffe. Una volta qualcuno giurò sul Corano, sommerso dall'incredulità degli astanti, che in una notte di plenilunio, tornando con un carico di sale, all'orizzonte, dove tramonta il sole, aveva visto una grande porta tutta d'oro, con due leoni anch'essi d'oro che vi stavano a guardia e che, appena s'era avvicinato, si era spalancata come d'incanto e ne era uscito fuori un baldanzoso puledro dal mantello bianco, bardato con finimenti di seta, ornati di ori e di argenti. In groppa al destriero, un falco dalle ali immense lo chiamò e lo invitò a varcare la soglia.
     Per lo stupore e la paura l'uomo si chinò in segno di riverenza, avendolo creduto un segno di Allah, ma si rifiutò di varcare la porta d'oro e carponi raggiunse il suo dromedario. Il falco volò portandosi sulla cima di una duna di fronte a lui e gli chiese tre granelli di sale e tre gocce d'acqua. L'uomo, con le mani tremanti, senza un filo di voce, staccò dal suo carico tre pietruzze di sale, pigliò uno dei suoi otri semivuoti e li poggiò sulla sabbia, poi fu colpito da un gran sonno.
     All'alba, appena desto, si guardò tutt'intorno cercando la porta d'oro, il cavallo bianco, i leoni e il grande falcoparlante; non vide nulla e, riavutosi dallo stupore, pensò che il sonno lo aveva colto all'imbrunire ed un sogno fantastico l'aveva accompagnato nella notte. Fece alzare i suoi dromedari per riprendere il viaggio, ma notò che al carico della prima bestia mancavano tre cocci di sale, e dei suoi tre otri ne aveva solo due gonfi d'acqua. I peli delle braccia gli si rizzarono e il cuore gli battè forte forte, si girò attorno ma vide solo distese interminabili di sabbia, null'altro si intravedeva all'orizzonte. Riavutosi, riprese il cammino fra le dune infuocate, tenendo le redini del dromedario capofila.
     Giunto all'oasi e scaricato il sale, fu tentato di raccontare l'accaduto alle sue mogli, ma non lo fece per non rischiare di farsi dare del visionario.
     Qualche giorno dopo, alla fine di una faticosa giornata, recatosi alla sorgente per lavarsi, raccolse una succulenta melagrana e si sedette su un masso, ma, quando infilò la mano nella tasca del suo barracano per pigliare il coltello, ne tirò fuori novantanove monete d'oro. Lo stupore lo colse, lui non aveva mai posseduto tante monete, era un povero contadino dell'oasi, aveva sempre coltivato datteri e due volte l'anno si recava a caricare il sale e le stoffe che servivano al suo padrone. Ebbe ancora un attimo di esitazione, poi alzò gli occhi in cima all'albero di melograno e scorse un enorme falco che lasciava cadere il suo otre semivuoto che aveva tenuto tra gli artigli mentre spiccava il volo dirigendosi tra le dune.
     Fatima non perse una parola del racconto, fu affascinata tanto da quella storia che istintivamente guardò il cielo per scorgervi la luna, ridotta ad una piccola falce, poi piegò la testa sulla spalla di una delle mogli del padre e alzando gli occhi al cielo seguì il cammino dell'astro, mentre un altro contadino iniziava un'altra storia fantastica.
     Passavano i giorni e Fatima diventava sempre più bella, due occhi neri e profondi brillavano sul suo volto ambrato, due labbra rosse come il corallo lasciavano intravedere il biancore dei denti, le dita affilate erano adornate da due smeraldi, i piedi nudi immersi nella sabbia bianca e alle caviglie affusolate portava due braccialetti d'oro con due medagliette; sua madre li aveva portati quando aveva danzato per suo padre. Fatima adornava tutte le mattine le sue caviglie con i braccialetti e la sera, prima di addormentarsi, li riponeva con cura in un cofanetto madraperlato, dove era intarsiato sul coperchio lo stesso scorpione che era coniato su ambedue le facce delle medagliette.
     Venne il tempo della raccolta dei datteri e l'oasi si animò a festa, lunghe file di bandierine multicolori attraversavano il palmeto e attorno alle tende era stata fissata una serie di fiaccole, che servivano ad illuminare a festa la notte. Sistemato che fu l'ultimo dattero nei cesti di fibra di palma, la gente dell'oasi sembrò seguire un rituale, si preparò per la festa e, pian pianino, a gruppetti, vestiti con l'abito delle occasioni, si recarono tutti davanti alla grande tenda dove erano state preparate vivande ed erano state accese le fiaccole.
     Fatima uscì dalla tenda del padre, era più sfolgorante che mai, e prese posto ai piedi del grande cuscino di seta verde dove s'era sistemato il genitore, attorniato dalle sue mogli. Ad un cenno i suonatori fecero rullare i tamburi, poi continuarono con misiche e canti. I servitori si diedero un gran da fare portando grandi piatti colmi di carni arrostite alla brace, enormi teiere, cesti colmi di frutta e vassoi su vassoi di dolci al miele guarniti con succulenti datteri.
     Fatima spiluccava un grappolo d'uva quando Farazanda, la ballerina siriana, sua maestra di danza, le si fece accanto e le sussurrò di danzare in onore del padre e degli astanti tutti. La principessa berbera dagli occhi corvini si alzò in piedi e fù silenzio. Il fuoco, come d'incanto, non fece più sentire il crepitio dei ceppi accesi, il vento si fermò e non si sentì più il fruscio delle palme, i musici fecero tacere gli strumenti, solo l'acqua continuò a gorgogliare e a riversarsi nella grande vasca. Così la vita attorno, che non conosce soste.

    La sabbia del deserto sembrava polvere d'argento, allo zenth, la più grande delle ammaliatrici, la luna piena, in tutto il suo splendore, illuminava la pelle ambrata di Fatima che si pose in piedi davanti al padre, si chinò e attese che i musici, al cenno di Farazanda, dessero fiato ai flauti e accarezzassero le corde dei liuti. Una danza leggiadra, mille e mille giravolte, come libellula la giovane berbera fece cogliere in pieno le sue grazie coperte da veli, alle sue caviglie esili tintinnavano i braccialetti. Il crescendo dei ritmi venne scandito dal battito delle mani e lei culminò la sua danza, così come l'aveva iniziata, prostrata davanti al padre.

     Farazanda incrociò lo sguardo del genitore della principessa e colse la soddisfazione negli occhi di lui. Come d'incanto le palme ripresero a frusciare, i carboni a scoppiettare, le fiammelle delle fiaccole a tremolare e la luna in cielo, che sembrava essersi fermata, riprese il suo lento procedere verso l'orizzonte. La principessa Fatima sciolse lo stallone arabo, lo montò, e tra la meraviglia di tutti lo sferzò al galoppo tra le dune, verso il sole al tramonto. Il mantello merlino del cavallo si confondeva col bianco della sabbia e la criniera di seta al vento le accarezzava le ginocchia.
     Davanti a lei comparve come d'incanto una grande porta d'oro con due leoni a guardia, anch'essi d'oro:
meravigliata, tirò le redini del destriero. Le tornò alla mente il fantastico racconto dell'arabo, ascoltato tempo prima. La principessa, dopo un attimo di esitazione, spronò lievemente il cavallo facendolo andare al passo e si avvicinò all'enorme porta luccicante, che si aprì lentamente. Venne fuori un puledro bianco con una sella d'argento, i finimenti di seta e gli zoccoli muniti di ferri d'oro; in groppa un maestoso falco, che spiccò il volo e si posò, dopo un dolce planare, sulla cresta della duna; Fatima, senza perdersi di coraggio, smontò da cavallo e gli andò incontro.
     Il falco aspettò che la principessa fosse a tre passi di distanza, le disse di fermarsi e le chiese: - Bella principessa dalla pelle di luna, che hai il coraggio di venirmi vicino, pochissimo tempo mi rimane per chiederti di farmi un regalo, ma ogni tua esitazione potrebbe impedire di spezzare l'incantesimo al quale una strega mi ha legato. Sono costretto a vivere sotto le sembianze di un falco in una gabbia tutta d'oro, mi è consentito uscire in sella al mio destriero solo nelle notti di luna piena e fino a quando la stessa non scompare all'orizzonte. Sei ancora in tempo per montare il tuo cavallo e fuggire al galoppo.
     La principessa tentò di avvicinarsi ancora una volta al falco ma questi la fermò di nuovo: - Fermati, bella berbera, non avvicinarti, prima donami l'oggetto che ti è più caro!
     Fatima non ebbe esitazione, si chinò, sganciò dalla sua caviglia un braccialetto e lo lanciò ai piedi del falco, che lo raccolse col becco e volò in sella. Tutto intorno diventò cupo, una nuvola solitaria coperse la luna, la porta d'oro chiuse i battenti e pian piano scomparve assieme ai leoni. Il cielo fu squarciato da fulmini e si sentì un boato. Il vento sollevò una nube di sabbia che avvolse il falco e la sua cavalcatura. Urla, pianti, stridori strazianti riempirono i silenzi del deserto. La nuvola scura si dileguò a mano a mano e la luna riprese a rischiarare tutt'intorno. Tornò come d'incanto la calma. La principessa Fatima, smarrita, vide tra le pieghe della nube apparire in sella al puledro bianco non più il falco ma uno splendido giovane in abiti regali, che portava al polso sinistro il braccialetto che lei gli aveva donato.
     Il giovane smontò e le andò incontro, le prese le mani e le baciò, poi si chinò davanti a lei e le chiese perdono per il batticuore che le aveva procurato, ma Fatima lo sollevò rassicurandolo e chiese chi fosse.
- Mi chiamo Mohamed - disse il giovane - sono figlio del pascià di Oman.
     La principessa berbera sfiorò con le dita le labbra del giovane principe invitandolo momentaneamente a tacere e lo pregò di seguirla, indi montò il suo purosangue e insieme si recarono nell'oasi del padre.
     Il principe raccontò le sue avventure, e il sortilegio della strega che lo aveva relegato ad un incantesimo che sarebbe stato spezzato solo se una fanciulla senza esitazione gli avesse donato l'oggetto più caro che possedeva.
     Il padre di Fatima si avvicinò al giovane, gli scoprì una spalla e si accorse che c'era tatuato un piccolo scorpione, uguale a quello delle medagliette dei bracciali. Abbracciò il giovane principe stringendolo al petto e disse : - Mohamed, io ho avuto la fortuna di conoscere il pascià di Oman tuo padre, portava sulla spalla sinistra il tuo segno, lo stesso che portava la mia diletta moglie Sara, madre di Fatima. Tuo padre era cugino di Sara; ora non è più. Per rendere omaggio alla sua salma ho viaggiato sessanta giorni e sessanta notti nel deserto, la sua anima è alla destra di Allah e sicuramente ci guarda dal cielo.
     Per quindici giorni e quindici notti fu festa nell'oasi, non si lavorò in onore di Mohamed; le donne si diedero un gran da fare nelle cucine, prepararono carni e leccornie, le teiere furono sempre fumanti e i musici e i danzatori non ebbero riposo.
     I giorni passarono, Fatima diventò sempre più bella e Mohamed sempre più legato al padre di lei; gli sguardi dei due giovani si incrociavano sempre e i loro occhi parlavano d'amore: Un giorno, il vecchio padre poggiò le sue mani sulle loro teste, dando la sua benedizione. E vissero felici e contenti.




[Il presente racconto è tratto da IL FAVOLIERE (Cucù e le sue storie) di Mario Scamardo e Sara Riolo - Edizioni ILA PALMA]


Se vi va, che vi sia piaciuta o meno, lasciate un commento!
                                                                     Grazie!