
Nei piccoli paesi dell’entroterra siciliano, ancora oggi, si riscontrano personaggi carismatici, possessori di antiche culture, capaci di fare la differenza; un anziano maestro elementare, un artigiano, un vecchio segretario comunale, un presidente di congregazione, un bracciante che nelle ore di riposo si dedicava alla lettura. Il carisma se lo costruivano giorno dopo giorno, attenzionando tutto e tutti, elargendo i consigli del buon padre di famiglia, mediando piccoli dissidi nelle famiglie, risolvendo modesti casi di sopravvivenza, trovando un piccolo proprietario terriero che offrisse un lavoro a chi più aveva di bisogno e, quando occorreva, spendere una parola buona perché qualche fanciulla potesse trovare un buon partito da sposare.
     La
 storia che mi accingo a raccontarvi è quella di un notabile, di un 
carismatico e, comunque, quella di una persona per bene. A più di 
cinquant’anni dal suo trapasso, in molti se lo ricordano e lo portano ad
 esempio di  saggezza e signorilità.
I notabili  
Racconto breve di Mario Scamardo
         Dopo
 il sindaco, il farmacista, il maresciallo dei carabinieri ed il 
parroco, la persona più importante a San Cipirello era don Nenè Cutrò, 
in quanto era stato per trent’ anni l’amministratore di una grande 
azienda agricola del territorio.
         Don
 Nenè, panciuto come un’orcio, un occhio quasi spento, conosceva tutti 
in paese e, da quando aveva smesso di occuparsi di agricoltura e di 
contabilità, appuntata diligentemente su grossi quaderni, uno per anno, 
con copertina nera e gli orli in rosso, usati come quaderni di bella 
copia dagli scolari delle elementari, passava le sue giornate seduto 
davanti al “Circolo dei civili” ad intrattenere con aneddoti raccolti 
nella sua lunga carriera, e narrati  come fossero romanzi 
brevi, con grande maestria. Al mattino, Sisino Papa ex bracciante che 
era stato alle dipendenze di don Nenè, si recava a casa sua, aspettava 
che questi si alzasse dalla tavola, dove aveva consumato una scodella di
 caffellatte e pane, che stringesse di un punto la larga cintura di 
cuoio con la quale si teneva su i pantaloni, che alzasse le sue bretelle
 rosse ed infilasse la giacca con al taschino un vistosissimo fazzoletto
 di colore azzurro, e poi lo accompagnava nel suo percorso da casa al 
circolo, che pur essendo breve, appena 200 metri, durava un bel po’, 
perché il vecchio distinto signore si fermava a parlare con quanti 
passavano e salutavano, con le signore che spazzavano il marciapiedi 
davanti casa, col postino, col barbiere all’angolo della strada, col 
fruttivendolo col carrettino e, talvolta, con i bambini che giocavano su
 un piccolo spiazzo sterrato. Non c’era persona che non salutasse don 
Nenè. Sisino, accompagnandolo, andandogli a comprare il giornale e 
portandogli un caffè dal bar di fronte, s’era guadagnato l’opportunità 
di sedersi davanti al “Circolo dei civili”, cosa che altrimenti gli 
sarebbe stata impedita. La stessa cosa accadeva il pomeriggio, intorno 
alle sedici, l’accompagnamento si ripeteva con la stessa ritualità. 
Quando don Nenè parlava, Sisino assentiva col capo, guai a dubitare di 
quello che diceva, Sisino si accigliava ed apostrofava: - don Nenè 
giusto dice, c’ero io presente! 
         Un
 pomeriggio tra i soci del circolo l’argomento di discussione cadde sul 
flagello che erano i topi nelle campagne, don Nenè intervenne e raccontò
 che avendo oliato un catenaccio in ferro, il mattino seguente trovò la 
porta senza il catenaccio, i topi erano così grossi che, ghiotti di 
olio, si erano rosicchiati il catenaccio senza lasciare traccia. 
Qualcuno, considerando il racconto un’esagerazione, con riverenza disse:
 - ma don Nenè, come è stato possibile, i topi che rosicano il ferro?  Sisino
 sempre all’erta, si alzò in piedi di scatto: - E tu che metti in dubbio
 la parola di don Nenè? C’ero io e posso testimoniare!  Don Nenè sorrise sotto i baffi che non aveva e chiese a Sisino di andargli a prendere un caffè.
            Don
 Nenè, che aveva tenuto a battesimo metà dei giovani del paese, aveva un
 figlioccio, figlio di un vecchio campiere che lavorava al Comune, si 
occupava dell’ECA (Ente Comunale di Assistenza), e si occupava, a tempo 
perso, di tirar fuori tutti i documenti che servivano ad uscire i 
passaporti e, dietro un piccolo compenso, portava il passaporto fino a 
casa, corredato dei visti necessari all’espatrio. Cosa ci entrava don 
Nenè in tutto questo? Tanto, perché la gente che doveva espatriare, 
prima di passare dall’ufficio ECA, passava da casa sua per 
raccomandarsi. L’anziano ex amministratore consigliava, chiedeva delle 
destinazioni da raggiungere, della motonave con la quale partivano, dei 
punti d’appoggio all’estero e del lavoro che intendessero fare.  La
 gente rincuorata prometteva di andarlo a salutare prima di partire e si
 congedava da lui con una frase: - menu mali ca cc’è vossia don Nenè, u 
Signuri l’avi a fari campari cent’anni!  Si guadagnava il 
sorriso del vecchio e scorgeva gli occhi umidi dello stesso. Prima che 
uscissero domandava: - Andate alla Merica Merica a Brucculinu, oppure 
alla Merica Zuella (Venezuela), alla Merica Gentile (Argentina), ai Guai
 (Uruguai), al Brasile o all’Australia?  Avuta la risposta, assentiva un po’ col capo, poi: - fate fortuna, mi raccomando, e senza dimenticare la nostra Sicilia!
            La
 giovane democrazia italiana si ritrovò all’indomani della seconda 
guerra mondiale, afflitta da problemi non indifferenti; di fronte alla 
diffusa disoccupazione e alla mancanza di materie prime necessarie alla 
ricostruzione, essa favorì l’emigrazione, mediante accordi bilaterali 
con le nazioni che necessitavano di manodopera.
            A
 casa di donna Vincenzina Piraino , da una settimana c’era un via vai di
 persone, visite, ma siccome non avevano avuto lutti in famiglia, non 
c’erano state nascite, il mulo era in ottima salute e lo zio Ignazio, 
suo marito, era ancora in campagna, la gente del vicinato si chiedeva il
 perché. Il postino tempo prima aveva consegnato alla donna una busta 
raccomandata, evento da annali in quel rione. Donna Vincenzina aveva 
apposto il segno di croce sulla ricevuta, e aveva infilato nel seno la 
busta, il luogo più sicuro per non smarrirla. S’era sfilato il grembiule
 e con lo spolverino sulle spalle era corsa da don Nenè a farsi leggere 
quella lettera, solo allora scoprì che era l’atto di richiamo che sua 
sorella Provvidenza le aveva inviato  da Bruccolino, per 
lei, lo zio Ignazio e il figlio più piccolo Giuseppe, che stava 
imparando, da mastro Santo Firrinceli, l’arte del barbiere. Gli altri 
due figli, Giovanni, il più grande e Nicola, aspettavano il passaporto 
per emigrare il primo in Uruguai ed il secondo in Brasile. 
            Donna
 Vincenzina seduta con un gomito appoggiato al tavolo, dava spiegazione a
 parenti e visitatori, ogni tanto le pigliava il magone e diceva: - Nni 
stamu spartennu comu i figghi i quagghia!... (Stiamo pigliando tutte le 
direzioni come una nidiata di quaglie che pigliano il volo!) si alzava e
 alimentava il fuoco sotto la pentola con un sarmento in attesa che 
tornasse dal lavoro il marito. Lo zio Ignazio tornò, ma senza il mulo, 
in mattinata un “bazzarioto” (sensale di muli) se lo era portato via 
mettendogli in mano diciottomila lire. Donna Vincenzina alla notizia 
scoppiò in un pianto dirotto, dicendo agli astanti: - Si sta sbacantannu
 sta casa, u primu nisciu!... (Si sta svuotando questa casa, il primo è 
andato via!) si, perché il mulo era considerato un componente di 
riguardo del nucleo familiare. La più grossa disgrazia che poteva 
colpire la famiglia contadina era quella di perdere il mulo, e allora 
lutto stretto e visite dei parenti. Donna Vincenzina fece mangiare il 
marito e prima che si facesse buio si recò con lui dalla “Virticchia” 
(Negozietto dove si vendeva di tutto la cui proprietaria, una vecchietta
 arzilla e minuta veniva appellata col nomignolo, a ‘nciuria, virticchia
 in quanto proprio minuta), per acquistare cinque valigie di cartone 
pressato di quelle grandi, una per componente della famiglia, e ben 
dieci matassine di romanella, una cordicella resistente di canapa 
intrecciata, per assicurarsi che le valigie non si aprissero nel 
viaggio.
            I
 primi due a partire furono Giovanni e Nicola, con un piroscafo che da 
Napoli faceva rotta per Caracas, da lì si potevano raggiungere via terra
 il Brasile e l’Uruguai.Tutto il quartiere si diede appuntamento alla 
fermata dell’autobus che li avrebbe portati a Palermo per poi imbarcarsi
 sul postale per Napoli, dopo il saluto accorato degli astanti, i 
ragazzi si abbracciarono al collo dei genitori e donna Vincenzina pianse
 come se fosse andata al loro funerale, grida strazianti che fecero 
piangere anche l’autista ed il facchino dell’autobus, don Pietrino Vullo
 e don Totò Messina. Per due giorni il camino in casa Piraino non diede 
segni di vita e, come nella migliore tradizione siciliana, i vicini di 
casa ed i parenti  gli portarono da mangiare (u cunsulu). 
Qualcuno si premurò a portare un piccolo fascio d’erba alla capra dei 
Piraino legata davanti la porta, ed ebbe cura di mungerla. 
            Quando
 dopo un paio di mesi arrivarono quasi contemporaneamente le lettere di 
Giovanni e Nicola che assicuravano di essere già a lavoro e di trovarsi 
bene, lo stato di lutto a casa dei Piraino ebbe fine, allora si decise 
di festeggiare prima della loro partenza per Bruccolino. L’occasione la 
diede la capra, che impigliandosi nella corda morì soffocata, e siccome 
era nelle intenzioni di zio Ignazio macellarla, non ci fu sofferenza, 
anzi la festa venne anticipata di quattro giorni.
Capra
 lessa, fave bollite, pane freschissimo e vino a fiumi; sul marciapiedi 
antistante l’abitazione, don Santo Milia e mastro Pippino Curamasi con 
banjo e violino allietarono la serata fino a notte fonda, due giorni 
dopo, il triste commiato.
            Donna
 Vincenzina e lo zio Ignazio, in abito nuovo, si recarono a far visita a
 don Nenè Cutrò, per ringrazialo del suo interessamento e per salutarlo.
 Il vecchio amministratore li accolse nella sua casa, e quando seppe che
 il transatlantico che li portava in America era la Saturnia, ebbe un 
sussulto, i suoi occhi si illuminarono: - appena sarete a bordo chiedete
 del comandante della nave, è un galantuomo di Genova, si chiama 
Giovanni Giurini, ho avuto il piacere di conoscerlo quando ero militare 
di stanza in Liguria, ditegli che lo saluta Antonino Cutrò, vi tratterà 
come si deve e dategli i miei saluti, i suoi li ho ricevuti l’ultima 
volta che ha attraccato a Palermo. I Piraino si sentirono rincuorati, 
abbracciarono don Nenè e lo ringraziarono, loro avevano dei biglietti di
 terza classe, un biglietto da emigranti.
            Due
 giorni dopo, al molo Santa Lucia di Palermo era ormeggiata la motonave 
Saturnia, immensa, dipinta in nero con una larga banda bianca, una città
 galleggiante. Una valigia di cartone ed una borsa in tela blu cucita a 
mano ciascuno, nella borsa gli alimenti per il viaggio. Lo zio Ignazio 
portò con se a tracolla due grandi foto ovali incorniciate che aveva 
staccato dalle pareti di quel vano terreno dove abitava, quelle dei suoi
 genitori poi, scomparvero tra la folla, quella grande nave li inghiottì
 e non li vedemmo più. Un paio d’ore dopo, la nave si scostò dal molo e,
 pian pianino scomparve all’orizzonte, mentre miriadi di fazzoletti 
bianchi si agitavano.
            Don
 Nenè Cutrò, al “circolo dei civili”, assistito dal suo lacchè Sisino 
Papa, interruppe chi parlava degli ultimi emigrati, si ricompose sulla 
sedia, si schiarì la voce  ed infilando i pollici sotto le sue bretelle rosse, declamò:
Emigranti
Li cordi si struggheru a la marina,
la terra divintava cchù luntana,
me matri salutava a la banchina
e l’occhi so parianu nna funtana.
            Sicilia, terra mia, eu ti lassavu…
            l’America m’aspetta, terra d’oru;
            famigghia e amici, tuttu abbannunavu
            in cerca di furtuna e di lavoru.
Nna valiggedda fatta di cartuni,
nna coppula e un pastranu camulutu,
un pani ccu tri coschi d’un carduni,
nna giacca e un ciliccheddu di villutu.
            Travagghiu a la Merica cci nn’è,
            li sordi si guadagnano a palati,
            lu jornu eu travagghiu ‘nta minera,
            la sira, si munnanu patati…
Mi la passu bona cci dicia a me matri,
megghiu di daccussì nun si po’ stari,
sentu nna cosa sula cchiù di l’atri,
nun viu l’ura, vogghiu turnari!
            Sarà bella la Merica, ppi tutti,
            terra unni li sordi su a manati,
            ma comu mi la scordu la Sicilia
            dunni l’ossa di me matri su pusati!
Sull’ultimo
 verso, tirava fuori un singhiozzo, poi scuoteva la testa e, cacciando 
dalla tasca di dietro dei pantaloni un fazzoletto bianco ben piegato, 
faceva il gesto di asciugarsi gli occhi trascinando gli astanti nella 
commozione.
Don
 Nenè Cutrò aveva letto tanto nei suoi trent’anni di amministrazione del
 feudo “Balatelle”. Nell’atrio del grande caseggiato ubicato in cima al 
colle, all’ombra di due enormi platani, dopo avere dato le direttive a 
mezzadri, coloni e braccianti, tirava fuori una comodissima poltrona in 
vimini, inforcava gli occhiali e ripigliava il romanzo lasciato il 
giorno avanti, prima che sua moglie, la signora Laura buttasse gli 
spaghetti in pentola. In uno stipo a due ante, oltre ai suoi registri ci
 stavano tutti i libri che aveva letto e riletto. Don Nenè prediligeva 
la letteratura russa e quella popolare, per cui per anni interi si 
immergeva nei romanzi di William Galt (Giuseppe Natoli), La vecchia 
dell’aceto, Coriolano della Floresta, Cagliostro, I Beati Paoli, 
Calvello il bastardo, Fra Diego La Matina, La principessa ladra, I 
Vespri siciliani, Storie di Sicilia, Storie e leggende di Sicilia, tomi 
con trame trascinanti che davano lo spaccato della Palermo del ‘700. 
Nessuno lo batteva nella descrizione dei personaggi: la Dama del 
carretto, fra Diego La Matina, Giuseppa Bonanno, tutti i vicerè che si 
alternarono, Coriolano, Cagliostro, era come se li avesse conosciuti di 
persona, descriveva abiti, portamento, pregi e difetti, spesso quando 
narrava, si alzava in piedi e ne imitava la gestualità, un personaggio 
don Nenè, che soleva definirsi “un’enciclopedia vivente”.
      Quando,
 raccontando brani dei Beati Paoli, introduceva il personaggio di Matteo
 lo Vecchio, questurino e soprattutto traditore, si alzava, si 
avvicinava al ciglio del marciapiedi, sputava due volte a terra, si 
asciugava col solito fazzoletto e poi esclamava: - Sbirro, feccia 
dell’umanità, traditore peggio di Gano di Magonza! Aspettava l’assenso 
degli astanti e, quindi, iniziava il suo narrare.
Di
 ogni zar, di ogni principe, di ogni cortigiana russa, conosceva alberi 
genealogici ed intrighi di ogni sorta, compreso un gossip spesso 
arricchito dalla sua fantasia, tanto da consigliare i suoi figliocci, e 
ne aveva tanti, di dare ai propri figli non primogeniti, nomi della 
letteratura russa, Nicola, Ivan, Olga, Anastasia, evitando 
scrupolosamente di  fargli appioppare i nomi delle cortigiane più discusse.
   Tutto
 sommato don Nenè era soltanto un generoso, una persona cordialissima e 
spesso manierosa, fondamentalmente buono, sempre disposto a spendersi 
per chi chiedeva il suo aiuto, che mai aveva accettato di soffermarsi o 
sedere nel circolo di fronte a quello dei “Civili”, in quanto 
frequentato da mafiosi circondati da malavitosi d’ogni sorta. 
Attraversata la strada, volgeva lo sguardo verso quel circolo e ripeteva
 mugugnando: - Faciti cchiù puzza di vivi ca di morti! (Fate più puzza 
da vivi che da morti!). 
     Tutti
 gli portavano rispetto, aveva fatto lavorare tanta gente e, quando 
qualcuno si trovava in difficoltà allora, senza che nessuno se ne 
accorgesse, faceva preparare  da sua moglie due borse piene
 di ogni ben di Dio e gliele faceva recapitare da Sisino dopo 
l’imbrunire, e questo succedeva molto spesso.
     Don
 Nenè non parlò mai di politica, non favorì mai alcun candidato, eppure,
 se avesse voluto, avrebbe potuto da solo eleggerne parecchi, come non 
affrontò mai una discussione riguardante la religione. Quando qualcuno 
gli chiedeva perché non parlasse mai di politica, il vecchio saggio 
rispondeva: - Politica e religione fanno soltanto litigare e, come se 
non bastasse, fanno odiare. Questa società non è ancora matura per 
capire che l’avversario politico non è un nemico, ma solo uno che la 
pensa diversamente e merita rispetto, così pure chi è stoltamente 
convinto di possedere le “Verità rivelate”, odierà un altro che, pur 
amando lo stesso Dio, non appartiene alla sua chiesa, sia anche suo 
fratello carnale!
     Sopraggiunse
 l’autunno, per la verità molto assolato e con scarse piogge, le sedie 
venivano poste dal cameriere sempre fuori dal circolo sul largo 
marciapiedi. Da circa una settimana don Nenè non s’era visto, la gente 
chiedeva dell’assenza e Sisino non passava. Un pomeriggio suonarono le 
campane a morto, sette tocchi, numero dispari, era morto un uomo e 
qualcuno cominciò a chiedersi chi fosse. Dalla chiesa uscì il parroco 
assieme a due chierichetti, sull’uscio baciò la sua stola viola, la pose
 sulle spalle, sistemò la sua cotta bianca e col breviario tra le mani 
si incamminò.  Giunto che fu davanti al circolo, gli 
astanti si alzarono tutti, si tolsero le coppole ed inchinandosi in 
segno di rispetto chiesero: - Padre arciprete, chi è morto? Il parroco 
si fermò un attimo, inarcò le arcate sopraccigliari e mestamente 
rispose: - Pace all’anima sua, quel sant’uomo di don Nenè, stanotte il 
suo cuore non ha più retto! Tutti si segnarono e si segnò il parroco ed i
 chierichetti, poi continuò a camminare mentre tutti si rimisero le 
coppole e ripresero seduti i loro discorsi.
     Per
 tutto il pomeriggio e la serata fu un via vai di gente che andava a 
rendere omaggio alla salma di don Nenè, e la chiesa non potè contenere 
la gente che l’aveva accompagnato per i funerali. La frase che più 
ricorreva era: - Con la morte di questo galantuomo, ci sarà un bel po’ 
di gente che andrà a letto a pancia vuota!
     Il
 “Circolo dei civili” per tre giorni osservò lutto strettissimo, non fu 
aperto, e al quarto giorno, la prima sedia che fu posta fuori sul 
marciapiedi fu quella in cui sedeva don Nenè, sulla spalliera fu legato 
un nastro nero e nessuno mai vi si accomodò. Il giorno del suo trapasso,
 il 6 di ottobre, fino a circa vent’anni dopo fu ricordato e, davanti ad
 un santino di Sant’Antonino, si faceva consumare un lumino.
Non
 avendo avuto né figli né nipoti, don Nenè cadde nel dimenticatoio per 
tutti tranne che per Sisino, che ancor oggi, vecchio e claudicante, il 
giorno dei defunti depone un mazzo di gerbere sulla sua tomba, i fiori 
che il vecchio amministratore con cura coltivava nelle aiuole del 
caseggiato del feudo “Balatelle”.
(Caseggiato del feudo "Balatelle")
 
    Spero di aver dato, con questo piccolo spaccato di vita siciliana 
degli anni '50, contezza di uno dei tanti personaggi carismatici, un notabile. 
                                         Grazie per l'attenzione. 
Se vi va, lasciate un commento, la richiesta di riproporre in narrato viene più dai ragazzi!
Se vi va, lasciate un commento, la richiesta di riproporre in narrato viene più dai ragazzi!














