Tratto dal romanzo di Mario Scamardo "L'ORRENDO FASCINO DELLE MUTAZIONI"
La mafia è femmina!
Anni dopo la sentenza definitiva, Rosetta aveva chiesto di vivere la sua carcerazione in cella da sola, non era abituata a dividere qualcosa con chicchessia, la promiscuità le procurava insofferenza e ne risentiva molto il suo sistema nervoso. I medici suggerirono al giudice di sorveglianza di accogliere la sua istanza e la donna ebbe per se una cella, dove le era anche permesso di ricevere le visite della vecchia madre, quelle e soltanto quelle, in quanto nessun’altra persona la andò mai a trovare.
La “pantera” in gabbia sovente ruggiva, era sempre pronta ad azzannare, alternava le sue rabbie ad interminabili silenzi che duravano, a volte, intere settimane. Chissà se aveva rivisitato la sua vita, chissà quali pensieri le attraversavano la mente e quali considerazioni aveva fatto, chissà se era arrivata mai a pentirsi di qualcosa. Il carcere l’aveva abbrutita, i suoi modi, una volta eleganti e compiti, rasentavano il goffo. Il giudice di sorveglianza, una donna di mezza età, di lei aveva descritto solamente l’estremo disagio che la carcerazione le dava, il suo arroccarsi in silenzi interminabili e null’altro. Rosetta difficilmente parlava con qualcuno e, quando sentiva le voci delle altre detenute provenire dai corridoi, fissava la parete di fronte al suo letto e si carezzava il viso. Nel cortile del penitenziario, dove passava la sua ora d’aria, si appartava in un cantuccio e spesso leggeva o rimaneva a mirar nel vago, come ai tempi della sua giovinezza, là, nel giardino di casa sua, alla frescura della siepe di gelsomino, accanto alla palma nana, sotto l’ogliastro piantato il giorno della sua nascita.
La “pantera” in gabbia sovente ruggiva, era sempre pronta ad azzannare, alternava le sue rabbie ad interminabili silenzi che duravano, a volte, intere settimane. Chissà se aveva rivisitato la sua vita, chissà quali pensieri le attraversavano la mente e quali considerazioni aveva fatto, chissà se era arrivata mai a pentirsi di qualcosa. Il carcere l’aveva abbrutita, i suoi modi, una volta eleganti e compiti, rasentavano il goffo. Il giudice di sorveglianza, una donna di mezza età, di lei aveva descritto solamente l’estremo disagio che la carcerazione le dava, il suo arroccarsi in silenzi interminabili e null’altro. Rosetta difficilmente parlava con qualcuno e, quando sentiva le voci delle altre detenute provenire dai corridoi, fissava la parete di fronte al suo letto e si carezzava il viso. Nel cortile del penitenziario, dove passava la sua ora d’aria, si appartava in un cantuccio e spesso leggeva o rimaneva a mirar nel vago, come ai tempi della sua giovinezza, là, nel giardino di casa sua, alla frescura della siepe di gelsomino, accanto alla palma nana, sotto l’ogliastro piantato il giorno della sua nascita.
Un giorno, nel braccio di quel penitenziario, arrivò una giovane secondina, nella sua divisa fiammante, dal fascino pari a quello di Rosetta dei suoi anni più belli. La giovane e bella guardia carceraria si intratteneva con lei a parlare, attaccata alle sbarre della cella le raccontava il mondo all’esterno di quella casa circondariale. Ridacchiava Rosetta, talvolta guardava fissa nel vuoto e le scappava un singhiozzo a malapena smorzato. Spesso in maniera copiosa, le sue gote, ormai segnate da due profonde rughe, venivano attraversate dalle lacrime, lei, seduta sul pagliericcio copriva gli occhi con le mani e smorzato a forza il pianto, si carezzava i capelli. Ormai, quella che era stata la sua fluente chioma bionda, era diventata di stoppa e quasi tutta bianca. Le sue mani cominciavano ad aggrinzirsi, anche se sempre curatissime. Sul piccolo tavolo dell’angusta cella, una ciotola in alluminio ed un flacone di gocce che conteneva un diuretico. Le sue caviglie erano gonfie per un eccessivo ritegno di liquidi e, quando portava la mano sul cuore, lo faceva per controllarne il battito diventato aritmico. Sotto gli occhi, due borse stavano a testimoniare che la sua salute era alquanto precaria. Chissà se mai il rimorso aveva sfiorato la sua mente. Diceva Victor Hugo: “ Se Dio avesse considerato opportuno che l’uomo guardasse indietro gli avrebbe posto gli occhi nella nuca”, mentre Seneca: “ Cosa c’è di più bello di esaminare la giornata passata? Come sarà sereno e lieve il sonno che seguirà questo esame della nostra coscienza!”. L’assenza di riflessione su se stessi conduce a considerare responsabile dei mali che capitano qualcun’ altro: un individuo o più, il fato, Dio stesso. La colpa delle nostre sventure si proietta sugli altri procurandoci sollievi. Così, evitiamo di fare i conti con la nostra coscienza. Se Rosetta avesse riflettuto sul suo passato e avesse considerato le sue responsabilità, si sarebbe messa in discussione e avrebbe rischiato di attribuirsi quelle colpe che prima erano degli altri.
Diceva Giovenale: “La pena più grande è portare sul cuore, giorno e notte, il testimone delle proprie colpe”.
Fu un mattino, dopo l’ora d’aria, che Rosetta e la giovane ed affascinante secondina percorsero i corridoi per rientrare in cella. Rosetta era nervosa, un paio di giorni prima aveva rifiutato il colloquio con l’anziana madre, un relitto umano che si accompagnava ad un bastone, che aveva consumato da tempo gli ultimi segni di una bellezza e di un fascino andati, seguendo con dolore e con qualunque assenza di rassegnazione i crescendi, sempre più negativi, della vita di Rosetta. Quando fu davanti la cella, la giovane donna le chiese se avesse gradito qualche minuto di conversazione. Rosetta entrò, posò sul tavolinetto il libro che stava leggendo, “Viaggio in Italia” di Goethe, fece accomodare sull’unica sedia la ragazza, poi sfogliò il libro e si fermò davanti ad una frase sottolineata marcatamente in rosso dove stava scritto: “l’Italia senza la Sicilia non lascia alcuna immagine nell’anima”. Lesse la frase e disse alla ragazza: - io ero bella quanto te, ho avuto il potere di far ruotare attorno a me il mondo. Ho usato la bellezza ed il fascino per ottenere quanto desideravo. – Prese le mani della giovane e le accarezzò: - quanto sono belle le tue mani, sfilate, aggraziate nella forma, mi fanno tornare alla mente dolci ricordi... - lasciò le mani della ragazza e riprese a parlare dopo aver fissato per un po’ le sbarre robuste di quella cella fredda: - l’uomo è un debole, davanti ad un bel paio di gambe, sovente, perde il ben dell’intelletto, si annulla la sua intelligenza e la sua razionalità. Apparentemente sembra che abbia sempre comandato, ma ogni sua determinazione è stata la scelta ponderata di una donna, e la stessa, tanto è più “femmina”, tanto più lo determina in tutte le sue azioni, come un rio Fato. L’uomo è molto superficiale, e noi donne siamo dotate del senso pratico delle cose. I poteri forti sono stati sempre rappresentati dagli uomini, ma nell’ombra c’è sempre stata una donna a condizionarli e determinarli. Le grandi scelte dei politici, dei finanzieri, delle grandi lobbyes di potere, e, financo della mafia, anzi soprattutto di essa, sono state prese da donne. Io ho vissuto tutto ciò, ma sono una delle poche a pagare il conto con la giustizia, tantissime altre continuano a godere dei privilegi che uno Stato debole e talvolta cieco consente loro. – La secondina ascoltava quasi esterrefatta, guardando negli occhi Rosetta che, quasi con enfasi, le stava raccontando il suo ruolo in quel mondo di malaffare in cui si era cacciata. Poi, quasi con riverenza le chiese: - ma allora lei sostiene che la mafia è femmina? – Rosetta la guardò, poi, carezzandole una ciocca di capelli che le sfuggiva dal basco azzurro le rispose: - inverosimile, vero? Così credono in molti, i più arguti, inquirenti, magistrati, politici. Si, la mafia è donna, ed è difficile da estirpare anche per il fatto che eliminando i “pupi”, agiti dalle donne, le stesse, rimaste indisturbate e soprattutto libere, costruiscono altri “pupi” e li manovrano con l’intelligenza e l’arte della seduzione, talvolta subentrano nel ruolo. Le donne hanno sempre avuto una parte importante nelle organizzazioni criminali, ed il ruolo è divenuto indispensabile col lievitare dell’”affare”droga. Le donne della mafia sono sempre state le “depositarie della tradizione mafiosa”, in quanto da sempre hanno trasmesso ai figli il senso del silenzio e dell’omertà. E più facile che il più incallito dei mafiosi collabori con la giustizia , una donna di mafia mai! Se si pensa che la donna non abbia peso nel contesto territoriale in cui è inserita, si commette un grave errore, ad “essere mafiosi”i figli vengono educati dalle madri, in ogni angolo dove il fenomeno alligna. In Barbagia, le donne addestrano i figli a compiere la vendetta che loro hanno organizzato, secondo le rigide regole del Codice del luogo. Basta visionare gli atti processuali per capire che, morto o arrestato il “pupo”, la sua donna finisce di comandare nell’ombra e assurge al ruolo di “Capo”in maniera palese. Le più note: Pupetta Maresca, Rosetta Cutolo, Giuseppina e Maria Zaza[1], Angela Salvo, Anna Vitale, Grazia Santapaola[2]. - Rosetta fissò negli occhi la sua interlocutrice e, quasi volendole fare un regalo, le sussurrò: - Vedi, tu sei una donna giovane e splendida, hai tutte le doti per essere una femmina dominante, saresti in grado di arrivare, così come ho fatto io, all’apice del potere che sfida lo Stato! – Nessun pentimento era approdato alla coscienza di Rosetta, i suoi sentimenti erano avvizziti, la sua mente era bacata e il carcere, che avrebbe dovuto rieducarla, l’aveva ancora di più incrudita. Poi riprese: - ti sei accontentata di così poco, hai accettato quasi passivamente il lavoro che fai, reclusa volontaria tra le recluse. La natura ti ha dotato di un corpo perfetto e tu, come un maiale in un letamaio, non ti accorgi della perla che hai sotto gli occhi! – La ragazza si sentì offesa e si alzò di scatto: - ma cosa dice, io non ho voglia di finire i miei giorni in fondo ad una cella, io odio i delinquenti, mi fanno schifo! Ho scelto di stare da questo lato della barricata, anche se misera la mia, voglio che sia una vita di libertà. Un solo attimo della mia libertà, della mia autodeterminazione, vale molto più di tutti i tesori che la malavita del mondo intero può accumulare. – Rosetta la guardò fissa negli occhi, il suo sguardo sembrava solo di commiserazione, diede le spalle alla giovane donna, aprì lo sportello di un pensile, tirò fuori, di nascosto, uno stiletto realizzato con un manico di cucchiaio, appuntito e ben affilato e, con ferocia, si avventò contro la giovane cogliendola alla sprovvista. Le gridò a squarciagola: - Ti odio! Non meritavi di essere così bella, ti odio! – e a denti stretti: - miserabile aguzzina, la tua bellezza non può diventare la mia tortura, ti odio maledetta! - Le trapassò parecchie volte il cuore facendola accasciare a terra senza vita. Quando accorsero altre detenute e altre guardie trovarono Rosetta serena, con le mani insanguinate, come una belva che aveva finito da poco di consumare il suo pasto. Guardava fissa la ragazza esanime a terra e, come se si mirasse allo specchio, accarezzava i suoi capelli, stopposi, ormai senza luce che le cadevano sulle spalle disordinatamente. Una settimana dopo, prima che il giudice incaricato di svolgere le indagini relative all’omicidio la sottoponesse ad interrogatorio, legò un lenzuolo alle sbarre della finestrella della sua cella e si suicidò impiccandosi. Dai giornali, il giudice Palagonia apprese la morte della Bianchi, provò pena e rabbia, si disperò e pianse. Andò al suo funerale e pose l’ultima rosa rossa sulla sua bara.
Fu un mattino, dopo l’ora d’aria, che Rosetta e la giovane ed affascinante secondina percorsero i corridoi per rientrare in cella. Rosetta era nervosa, un paio di giorni prima aveva rifiutato il colloquio con l’anziana madre, un relitto umano che si accompagnava ad un bastone, che aveva consumato da tempo gli ultimi segni di una bellezza e di un fascino andati, seguendo con dolore e con qualunque assenza di rassegnazione i crescendi, sempre più negativi, della vita di Rosetta. Quando fu davanti la cella, la giovane donna le chiese se avesse gradito qualche minuto di conversazione. Rosetta entrò, posò sul tavolinetto il libro che stava leggendo, “Viaggio in Italia” di Goethe, fece accomodare sull’unica sedia la ragazza, poi sfogliò il libro e si fermò davanti ad una frase sottolineata marcatamente in rosso dove stava scritto: “l’Italia senza la Sicilia non lascia alcuna immagine nell’anima”. Lesse la frase e disse alla ragazza: - io ero bella quanto te, ho avuto il potere di far ruotare attorno a me il mondo. Ho usato la bellezza ed il fascino per ottenere quanto desideravo. – Prese le mani della giovane e le accarezzò: - quanto sono belle le tue mani, sfilate, aggraziate nella forma, mi fanno tornare alla mente dolci ricordi... - lasciò le mani della ragazza e riprese a parlare dopo aver fissato per un po’ le sbarre robuste di quella cella fredda: - l’uomo è un debole, davanti ad un bel paio di gambe, sovente, perde il ben dell’intelletto, si annulla la sua intelligenza e la sua razionalità. Apparentemente sembra che abbia sempre comandato, ma ogni sua determinazione è stata la scelta ponderata di una donna, e la stessa, tanto è più “femmina”, tanto più lo determina in tutte le sue azioni, come un rio Fato. L’uomo è molto superficiale, e noi donne siamo dotate del senso pratico delle cose. I poteri forti sono stati sempre rappresentati dagli uomini, ma nell’ombra c’è sempre stata una donna a condizionarli e determinarli. Le grandi scelte dei politici, dei finanzieri, delle grandi lobbyes di potere, e, financo della mafia, anzi soprattutto di essa, sono state prese da donne. Io ho vissuto tutto ciò, ma sono una delle poche a pagare il conto con la giustizia, tantissime altre continuano a godere dei privilegi che uno Stato debole e talvolta cieco consente loro. – La secondina ascoltava quasi esterrefatta, guardando negli occhi Rosetta che, quasi con enfasi, le stava raccontando il suo ruolo in quel mondo di malaffare in cui si era cacciata. Poi, quasi con riverenza le chiese: - ma allora lei sostiene che la mafia è femmina? – Rosetta la guardò, poi, carezzandole una ciocca di capelli che le sfuggiva dal basco azzurro le rispose: - inverosimile, vero? Così credono in molti, i più arguti, inquirenti, magistrati, politici. Si, la mafia è donna, ed è difficile da estirpare anche per il fatto che eliminando i “pupi”, agiti dalle donne, le stesse, rimaste indisturbate e soprattutto libere, costruiscono altri “pupi” e li manovrano con l’intelligenza e l’arte della seduzione, talvolta subentrano nel ruolo. Le donne hanno sempre avuto una parte importante nelle organizzazioni criminali, ed il ruolo è divenuto indispensabile col lievitare dell’”affare”droga. Le donne della mafia sono sempre state le “depositarie della tradizione mafiosa”, in quanto da sempre hanno trasmesso ai figli il senso del silenzio e dell’omertà. E più facile che il più incallito dei mafiosi collabori con la giustizia , una donna di mafia mai! Se si pensa che la donna non abbia peso nel contesto territoriale in cui è inserita, si commette un grave errore, ad “essere mafiosi”i figli vengono educati dalle madri, in ogni angolo dove il fenomeno alligna. In Barbagia, le donne addestrano i figli a compiere la vendetta che loro hanno organizzato, secondo le rigide regole del Codice del luogo. Basta visionare gli atti processuali per capire che, morto o arrestato il “pupo”, la sua donna finisce di comandare nell’ombra e assurge al ruolo di “Capo”in maniera palese. Le più note: Pupetta Maresca, Rosetta Cutolo, Giuseppina e Maria Zaza[1], Angela Salvo, Anna Vitale, Grazia Santapaola[2]. - Rosetta fissò negli occhi la sua interlocutrice e, quasi volendole fare un regalo, le sussurrò: - Vedi, tu sei una donna giovane e splendida, hai tutte le doti per essere una femmina dominante, saresti in grado di arrivare, così come ho fatto io, all’apice del potere che sfida lo Stato! – Nessun pentimento era approdato alla coscienza di Rosetta, i suoi sentimenti erano avvizziti, la sua mente era bacata e il carcere, che avrebbe dovuto rieducarla, l’aveva ancora di più incrudita. Poi riprese: - ti sei accontentata di così poco, hai accettato quasi passivamente il lavoro che fai, reclusa volontaria tra le recluse. La natura ti ha dotato di un corpo perfetto e tu, come un maiale in un letamaio, non ti accorgi della perla che hai sotto gli occhi! – La ragazza si sentì offesa e si alzò di scatto: - ma cosa dice, io non ho voglia di finire i miei giorni in fondo ad una cella, io odio i delinquenti, mi fanno schifo! Ho scelto di stare da questo lato della barricata, anche se misera la mia, voglio che sia una vita di libertà. Un solo attimo della mia libertà, della mia autodeterminazione, vale molto più di tutti i tesori che la malavita del mondo intero può accumulare. – Rosetta la guardò fissa negli occhi, il suo sguardo sembrava solo di commiserazione, diede le spalle alla giovane donna, aprì lo sportello di un pensile, tirò fuori, di nascosto, uno stiletto realizzato con un manico di cucchiaio, appuntito e ben affilato e, con ferocia, si avventò contro la giovane cogliendola alla sprovvista. Le gridò a squarciagola: - Ti odio! Non meritavi di essere così bella, ti odio! – e a denti stretti: - miserabile aguzzina, la tua bellezza non può diventare la mia tortura, ti odio maledetta! - Le trapassò parecchie volte il cuore facendola accasciare a terra senza vita. Quando accorsero altre detenute e altre guardie trovarono Rosetta serena, con le mani insanguinate, come una belva che aveva finito da poco di consumare il suo pasto. Guardava fissa la ragazza esanime a terra e, come se si mirasse allo specchio, accarezzava i suoi capelli, stopposi, ormai senza luce che le cadevano sulle spalle disordinatamente. Una settimana dopo, prima che il giudice incaricato di svolgere le indagini relative all’omicidio la sottoponesse ad interrogatorio, legò un lenzuolo alle sbarre della finestrella della sua cella e si suicidò impiccandosi. Dai giornali, il giudice Palagonia apprese la morte della Bianchi, provò pena e rabbia, si disperò e pianse. Andò al suo funerale e pose l’ultima rosa rossa sulla sua bara.
La metamorfosi si era compiuta in tutte le sue fasi, Rosetta aveva riempito tutti i vuoti della sua esistenza ed era approdata all’ultimo, il peggiore!
[1] A. Baglivo, Camorra S.p.a., Rizzoli, Milano, 1983.
[2] C. Stajano (a cura di), Mafia. L’atto di accusa dei giudici di Palermo, Editori Riuniti, Roma, 1986.
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