Tratto dal romanzo IL MATTO di Mario Scamardo
LA BURLA
In fondo al viale
alberato che porta al lago, coperta dai rami di fitti alberi di noci, si
intravede una casetta molto piccola, appena un paio di ambientini a piano terra
ed una mansarda, tutta dipinta in bianco. Il tetto è realizzato in tegole
marsigliesi color mattone, dove svettano in maniera simmetrica due piccoli
abbaini ed un comignolo con in cima un galletto di latta. Un cancelletto in
ferro battuto, permette l’accesso ad uno stretto viale ben curato e lindo che
porta sotto i fitti noci. Davanti l’ingresso della villetta, una lunga e
robusta panca in castagno ed un paio di sedie a dondolo, di ottima fattura e
affacciate tra loro. Sui pali di recinzione, tutt’attorno, tanti piccoli
giocattoli o parti di essi: vagoni di trenini, bamboline, il coperchio di un
tamburo di latta, un vecchio Pierrot in pezza, un paio di cerchi, i resti di un
triciclo, un Pulcinella con due marionette senza nome ed altri rottami, tanti,
da eccitare la fantasia dei passanti. Qualcuno pensava che quel luogo potesse
essere il cimitero delle bambole o, addirittura, quello di tutti i giocattoli,
un luogo incantato che suscitava il mistero e con esso la curiosità, la paura,
la diffidenza. Il giardino incantato qualcuno lo definì, dove il tempo poteva
fermarsi, consentendo alla fantasia di galoppare ed al sogno di realizzarsi.
Ignazio, il proprietario della villetta
era un uomo dai comportamenti inconsueti, nessuno conosceva la sua età, forse
cinquant’anni, forse sessanta, ma sembrava senza tempo. Non lo si vedeva mai in
giro, tranne che per le commissioni necessarie, ritirare la posta dalla
cassetta situata sul montante del cancelletto, fare la spesa, recarsi di tanto
in tanto in banca e qualche volta in chiesa, ad ore insolite, quando non
c’erano funzioni.
Ignazio vestiva in maniera insolita,
talvolta indossava pantaloni con il cavallo basso alla turca o alla
cavallerizza, con stivali neri e lucidi. Non andava a cavallo, non ne possedeva
uno, e nei paraggi non esisteva alcun maneggio. Calcava enormi cappelli di paglia
in estate ed altri di feltro, a tese larghissime nei colori più azzardati,
durante l’inverno. Tutto ciò gli fece meritare l’appellativo di “matto”, per
cui la sua casa diventò nel tempo la casa di Ignazio il “matto”, in realtà egli
si chiamava Rossi.
Molti ragazzi passavano sbirciando tra le
sbarre del cancello, lanciavano un ranocchio o un sasso nel viale, facevano gli
scongiuri e tiravano innanzi. Ignazio si accorgeva della miseria in cui erano
cresciuti quei giovani e scuoteva fortemente i pali della recinzione, facendo
muovere i giocattoli, come per dire che anche se rottami, riuscivano ancora a
offrire sensazioni, mentre l’ignoranza e la mediocrità schiavizzavano,
riducendo l’uomo a marionetta, atta a ripetere sempre gli stessi gesti senza
capirne il motivo, solo e soltanto per uniformarsi alla massa, solo per spirito
di emulazione. Alcune signore, quando lo incontravano al supermercato,
all’ufficio postale o in banca, abbozzavano piccoli e beffardi sorrisi e gli
cedevano il turno, non tanto perché eccedevano in cortesie nei suoi confronti,
quanto per avere il tempo di osservarlo per bene, negli atteggiamenti, nelle
movenze, nel linguaggio, nel vestiario e poi, una volta lontano dai loro occhi,
per poter trovare le parole false di commiserazione per il “matto”.
Ignazio accettava i falsi atti di
cortesia e, per ringraziare le signore, accennava, a sua volta, ad un piccolo
inchino e con due dita toccava la tesa del suo cappello. Altre signore invece
incontrandolo, mostravano di avere molto rispetto per il suo decoro, per il suo
perbenismo e per la riservatezza, allora Ignazio, intuendo ciò ricambiava la
stima con atti continui di cavalleria, cedeva loro il passo inchinandosi,
cedeva il suo posto nelle file, si premurava ad aiutare loro a portare qualche
involto o chiamava per loro un taxi. Una collettività spaccata in due, due
culture diverse, una pregna di ignoranza e di pregiudizi, l’altra colta e
tollerante.
Nessuno sapeva come e di cosa vivesse
Ignazio, ma egli era stato sempre autonomo e non era mai ricorso all’aiuto di
qualcuno. Nessuno era mai entrato nella sua casa, tranne l’elettricista per
mettergli a posto un guasto. Non era rimasto dentro più di mezzora, ma tutti in
paese sapevano come era fatta la sua casa, come erano disposti i suoi mobili, i
suoi quadri e la batteria di pentole di lucido rame attaccate alla parete del
piccolo vano cucina, anche nei piccoli particolari più insignificanti, e tutti
sapevano che la mansarda era occupata da un immenso numero di libri, per tutte
e quattro le pareti e fino al tetto. Al centro c’era solo un tavolo grande,
proprio tra gli abbaini, con sopra due lampade, due scrittoi, due calamai colmi
d’inchiostro, due penne, ed al centro del tavolo vi era posto un grosso leggio
con la Bibbia aperta sul Vangelo di Giovanni.
Il “matto” passava le sue giornate tra la
sua mansarda da dove, attraverso gli abbaini scrutava il mondo attorno a se e
le sedie a dondolo davanti l’uscio di casa.
Due stanzette a piano terra, due scrittoi
con due calamai in mansarda, due sedie a dondolo davanti l’uscio, eppure
Ignazio era solo, solo con se stesso, solo con i suoi libri, solo con i suoi
vecchi giocattoli che vedeva sempre girandosi attorno, attaccati ai pali della
recinzione. Strano tutto ciò, la fantasia dei suoi concittadini si sbizzarriva
trovando soluzioni a tutti gli interrogativi. Qualcuno lo immaginò in coppia
con una donna troppo bella che non si vedeva perché succube della sua gelosia,
qualcun altro pensò che la sua compagna avesse l’aspetto d’un mostro e che
fosse tenuta legata ad una catena fissata ad un anello piantato nel pavimento, qualcuno ancora pensò al suo
sdoppiamento ed alla sua capacità di bilocazione, fino al punto da fargli
dividere la casa con quel demone che guidava la sua pazzia e che si
materializzava di notte, i più intelligenti, per la verità pochi, pensarono che
si confrontasse col suo alter ego.
Niente di tutto ciò, Ignazio viveva da
solo ed usava le due sedie a dondolo affacciate, una fino a mezzodì, quando il
sole era allo zenith, quella che dava le spalle ad oriente, per poter leggere o
lavorare senza avere il sole negli occhi, l’altra, quella che dava le spalle ad
occidente, la usava dopo mezzodì, per lo stesso motivo, e così era per gli
scrittoi in mansarda. Degli abbaini, affacciati tra loro, sfruttava la luce che
entrava, evitando che l’ombra del suo corpo potesse oscurargli il piano di
scrittura. Nella casa del “matto” tutto poteva sembrare strano, ma tutto aveva
un posto ed una funzione, persino la lunga panca di castagno davanti all’uscio
che gli serviva da bancale per la invasatura dei gerani dai colori più svariati
che ornavano i davanzali delle finestre, gli abbaini, i vialetti e tutt’intorno
la villetta. Quando non invasava i gerani la lunga panca veniva usata anche per
stendervi ad asciugare le stuoie che ricavava intrecciando le fibre della palma
che cresceva rigogliosa dietro la casa. Ignazio per i gerani aveva una cura
particolare, ogni anno li trapiantava e li rinnovava, ed ogni anno i suoi vasi
erano fioriti in maniera quasi eccessiva e ai pochi che gli chiedevano perché i
suoi fiori fossero così rigogliosi rispondeva:
- Ama il prossimo
tuo come te stesso!
Non capendo l’attinenza con i gerani, la
gente girava i tacchi e mentre andava via sentiva Ignazio che gridava:
- Sono il mio prossimo
i miei gerani!
Poi
soddisfatto ridacchiava e dava una scrollata ai pali della recinzione, facendo
si che i giocattoli che vi erano appesi si muovessero e partecipassero anche
loro alla soddisfazione che gli dava l’allontanare la gente che riteneva
curiosa, intrigante, ignorante e cattiva. Aveva visto tante volte la gente che
si avvicinava alla staccionata, mentre cercava di staccare un ninnolino o parte
di esso per servirsene come amuleto. Quando non vi riusciva, tirava fuori un
ferro di cavallo, un corno rosso, un minuscolo gobbo, lo strofinava sulla
ringhiera e lo conservava gelosamente. Ciò dall’origine dei tempi è servito
all’uomo a scongiurare le proprie paure, riponendo la fiducia in qualcosa che
potesse rendere forte l’individuo. Forse il pentacolo che il “matto” portava al
collo, aveva innescato nella mente di alcuni suoi concittadini l’idea che
potesse essere un operatore dell’occulto o, addirittura un mago impazzito,
quindi agli ignoranti faceva paura, incuteva terrore, allora bisognava schermarsi.
Il pentacolo per eccellenza è la stella a cinque punte, prodotto dallo sviluppo
di un pentagono, prolungandone i lati. Detta stella, con una sola punta verso
l’alto, rappresenta l’uomo, il microcosmo, le cinque piaghe di Gesù, i cinque
elementi, aria, acqua, terra, fuoco ed etere. Se capovolta la stella, con due
punte verso l’alto, rappresenta il male e diventa simbolo per il satanismo,
usata in pratiche di magia nera e di stregoneria. Ciò che impressiona della
magia è la pretesa di sottomettere Dio, angeli e demoni, le forze della natura
e l’uomo ai voleri del mago. Tale aspetto marca in maniera forte come, quanto
promesso dalla magia, non si leghi con la condotta morale di vita dell’uomo.
Tra i testi che Ignazio divorava c’era un trattato sulla magia, egli lo aveva
letto, non lo aveva mai ripreso e giaceva impolverato in cima ad una pila di
altri libri tra i quali uno sui tarocchi e le profezie di Nostradamus. I
sedicenti maghi distinguono i tipi di magia, in funzione del fine da
raggiungere. La magia bianca, che servirebbe a proteggere lavoro, salute,
attività economiche, vita familiare. La magia rosa o rossa riguarderebbe
l’amore da conquistare o separare e la sfera sessuale. La magia nera, praticata
per nuocere, distruggere nemici, procurare disastri, vendette, contrasti,
malattie e morte. La magia viola
affronta una vetusta filosofia della morte, la Grande Madre. Alla magia verde,
non molto conosciuta, è legata l’alchimia, dall’arabo al-Kimiya, forse dal greco chyma,
(fusione dei metalli). Scienza molto antica, praticata in parecchie zone del
mondo allora conosciuto, tendeva a perfezionare i fini della natura,
trasformando ogni metallo in oro, e garantendo all’uomo persino l’immortalità.
Ignazio aveva maturato il pensiero che se
l’uomo si spinge verso l’occulto cercandosi un mago, allora i suoi fustigatori
diventano: la curiosità, la disperazione, il desiderio di onnipotenza, la
mancanza di sicurezza e, per le proprie certezze e speranze, ha la necessità di
chiedere conferma. Altri fustigatori sono la solitudine ed il vuoto attorno a
se. Da credente, accantonava tutto ciò, sedeva all’ombra di un noce e meditava
sulla capacità dell’uomo di spiegare i fenomeni che gli stanno attorno. Dava un grande ruolo alla casualità, per cui
bisognava pensare alle cause che producono i fenomeni, senza che esse si vedano
per forza, indispensabile è pigliare
conoscenza degli effetti. Risalendo alla Natura, Ignazio era capace di arrivare
ad una Intelligenza, ad una Mente Cosmica, ad un Organizzatore Universale, ad
un Essere Supremo. Le sue puntate ad ore insolite in chiesa, quando non c’erano
le funzioni, quando c’era pochissima gente o, meglio, nessuno, gli davano
l’opportunità di meditazioni serene, senza essere distolto da cicalecci,
sguardi o quant’altro che non gli permettesse di studiare il simbolismo
contenuto all’interno. Si interrogava spesso Ignazio su cosa fosse una
religione, ed aveva maturato che non era tradizione pura, sentimento puro o
culto fine a se stesso. Essa era un insieme di atteggiamenti e di idee nei
riguardi della Causa Causante, dove l’uomo riconosce se stesso dipendente dalla
divinità mantenendosi in relazione con essa.
Di quanto pensasse la gente di lui, il
“matto” lo sapeva, l’aveva colto da atteggiamenti, piccoli gesti, scorci di
discorsi captati, anche se ciò lo irritava molto, trovava la forza di non
esternare la sua rabbia, tranne che nello squassare la staccionata. Da tanto
tempo pensava ad una vendetta, ma voleva che fosse geniale e di grande effetto.
Una sera Ignazio serrò le imposte della
sua villa, irrigò abbondantemente le sue piante, uscì sulla strada con una
valigia, si tirò dietro le spalle il cancello, calzò un cappello di feltro a
tese larghe di colore grigio fumo e, a piedi, si avviò verso la stazione
ferroviaria. Per giorni e giorni regnò il silenzio nella villa e non si vide
muovere una foglia, non si aprì un’imposta, non fu accesa una luce. Ognuno che
passava guardava dentro e, senza timore che il “matto” potesse dir qualcosa,
curiosava con il naso tra le sbarre del cancello. Ignazio aveva forse una
famiglia ed era andato a trovarla, forse un fratello lontano, forse un amico
chissà dove, oppure si era ammalato gravemente e se ne stava ricoverato in un
ospedale, tutto ciò pensava la gente, e ne parlava. Un mattino furono notati,
attaccati ai muri della cittadina, dei manifesti di necrologio, tutti si
fermavano a leggere: “Serenamente si è
spento Ignazio Rossi, i parenti ne danno notizia. Non fiori ma opere di bene”. Per un poco di giorni si parlò del
“matto” e della sua dipartita, la presenza di qualche sconosciuto in giro fece
pensare a familiari, venuti nella cittadina forse per sistemare quanto c’era da
fare dopo la sua dipartita.
Dopo qualche settimana la gente passava
davanti al cancello e quasi non sbirciava più, non si muovevano i pali della
recinzione e nemmeno i giocattoli, ma non ingiallivano le piante, specialmente
i gerani erano sempre più rigogliosi ed il terreno era umido. Nella casa
sembrava non esserci anima viva, non si erano più aperte le finestre degli abbaini,
non più le imposte a piano terra, non più il cancello, mai più una luce accesa,
eppure quei gerani qualcuno doveva innaffiarli.
Era passato quasi un anno dal momento in
cui Ignazio era uscito da quella casa con la valigia ed era andato alla stazione
ferroviaria, e di lui in paese non si parlava più. Una mattina qualcuno passò, guardò verso la
villetta dal cancello aperto e vide le luci del piano terra accese e le imposte
degli abbaini aperte. Cosa pensare se non ad un nuovo inquilino e, quando la curiosità
lo portò a spingersi un poco al di la del cancello, sentì lo squassare dei pali
della recinzione ed il rumore dei giocattolini, saltò fuori in strada si diede
a correre a gambe levate e a gridare. Di li a poco un bel po’ di gente fece
ressa davanti alla villa, e Ignazio, quando li vide, uscì fuori col suo
cappello di paglia chiaro a larghe tese ed i suoi pantaloni alla turca, si
affacciò sulla strada e disse:
- Perché tanta
curiosità, io non vi ho invitati, ma, se volete entrare accomodatevi!
La gente si tirava indietro, come se
fosse davanti ad un fantasma, il “matto” aggiunse:
- La mia morte vi
ha soddisfatto certamente, avete gioito quando vi siete liberati di me, io
guardavo i vostri visi compassati e bugiardi che ostentavano pietà davanti al
necrologio! Falso, tutto falso, travestito in mezzo a voi ascoltavo storie
fantastiche che mi vedevano protagonista, ma erano inventate da voi, mi avete
fatto fare delle cose orribili con le vostre fantasie bacate, mi avete fatto
ingoiare bambini in un sol boccone, avete giurato di avermi visto
contemporaneamente in due e più luoghi diversi, avete assistito, nelle notti di
luna piena, alla crescita dei peli sul mio corpo e all’allungarsi delle unghie
delle mie mani, e avete visto allungare i miei canini ed azzannare la gente per
la strada, tutto frutto delle vostre frustrazioni, della vostra ignoranza,
della vostra cattiveria. Io non sono morto! Mi sono burlato di voi, vi ho
sorpreso mentre volevate rubare i miei gerani, di notte, ma vi ho dissuaso con
dei rumori e, dal buco della serratura, qualcuno voleva sbirciare dentro per
scoprire il mistero di una moglie mostruosa incatenata al pavimento.
Si
avvicinò alla piccola folla :
- Toccatemi, non
sono un fantasma, sono vivo e vegeto, sono io, Ignazio il “matto”, il mago, lo
stregone, il lupo mannaro, il mangia bambini, l’azzannatore!
La
gente stupita si allontanava quasi con vergogna. Un fanciullo di circa sei anni
lasciò la mano della madre e corse verso Ignazio, lo abbracciò alla cintola e
gli chiese:
- Quando mi
ripari il mio orsacchiotto a cui si è staccato un braccio?
Ignazio si chinò prese in braccio il bambino
che lo guardava con gli occhietti dolci, lo baciò su una gota rosea e pasciuta,
poi gli rispose con estrema dolcezza:
- Portami il tuo orsacchiotto,
lo cureremo, gli attaccheremo il braccio e tu tornerai ad averlo amico, dormirà
con te nel tuo letto, ti farà compagnia di notte.
Baciò
nuovamente il bambino sulla guancia, lo pose a terra.
- Ora va dalla tua mamma e quando passi da qui
continua ad accarezzare i miei gerani, diventeranno più belli, le piante si
nutrono anche dell’innocenza e della tenerezza dei bambini.
Si tolse il cappello, lo pose in capo al
fanciullino e gli disse:
- Tienilo, te lo regalo, portami i tuoi
giocattoli rotti e quelli dei tuoi compagnetti, quando vorrai, li accomoderò
tutti.
Gli
poggiò la sua mano sulla guancia e lo accarezzò con tenerezza, poi rincasò e
ripigliò la vita di sempre.
Ottima lettura!