lunedì 21 gennaio 2013

IL TERREMOTO DEL BELICE










     Avevo vent'anni, ero militare presso la Compagnia Genio Trasmissioni della Brigata di fanteria Pinerolo a Trani. La mattina del 15 gennaio 1968, dopo la colazione corsi in fureria, sulla scrivania del comandante trovai la Gazzetta del Mezzogiorno, la sfogliai cercando notizie del terremoto in Sicilia. Il paesino dove abitavano i miei genitori, dov'ero nato e dov'ero vissuto era nell'area del Belice, speravo di trovare qualcosa che mi rassicurasse, ma non c'era una notizia che non parlasse dei 351 morti, dei 557 feriti, dei 40.000 senza tetto. Tutto era confuso, anche le notizie diramate per radio. Provai a telefonare a casa, non rispondeva nessuno e il telefono del comune era muto. Che fare? Chiesi al mio capitano una licenza per recarmi a casa, stranamente mi fu accordata in giornata, 10 giorni più due di viaggio. Dalla Puglia non c'era un aereo per la Sicilia, e la via ferrata era un disastro. Giunsi a Palermo dopo due giorni, non c'erano le corriere per raggiungere il mio paese, feci l'autostop ed un camion mi scaricò ad un chilometro da casa mia. Il paese era deserto, tanti cornicioni a terra, qualche strada transennata; un vecchio bar-tabacchi era gremito di gente, entrai, chiesi della mia famiglia, ebbi notizia che c'era stato solo qualche ferito, l'anziano tabaccaio mi disse di aver visto mio padre in mattinata perchè era andato a rifornirsi di fiammiferi. Casa mia era sbarrata, allora pensai che i miei potevano essere in campagna dove mio padre aveva realizzato con struttura antisismica un magazzino atto a contenere derrate. Fu lì che li trovai, attorno al fuoco, assieme a tanti altri amici e conoscenti che approfittavano di quella struttura solida e nuova per evitare di dormire sulle automobili o all'addiaccio. Quello fu un inverno molto rigido, per fortuna accanto al manufatto mio padre, da buon contadino, aveva un orto, tutt'attorno era un olezzante giardino d'agrumi e all'esterno c'era un forno a legna.

     Voglio riportare per intero un articolo tratto da un volume "Mezzo secolo di Sicilia" di Marco Romano e Michele Russotto:

Il terremoto del Belice

     Il cretto di Burri è lì, mastodontico ed inquietante, come una colata di cemento su secoli di storia. Attorno è tutto un fiorire di arte (o presunta tale) contemporanea, spesso bizzarra, ancor più spesso inutile, se non addirittura beffarda. Ma niente e nessuno è riuscito a cancellare il ricordo di quel terribile gennaio del '68. Quando una spaventosa sequela di scosse di terremoto mise in ginocchio un'intera valle: il Belice. Le cicatrici non si sono rimarginate, alcune baracche "provvisorie" sono ancora "provvisoriamente" abitate. L'occasione della grande ricostruzione è diventata lo spunto della grande speculazione. Venti leggi, poco più di tremila miliardi (ma per il Friuli ne furono stanziati 16 mila e per l'Irpinia addirittura 25 mila) praticamente buttati al vento.
     Eppure il bilancio di quel terribile '68 fu spaventoso: 81 scosse in 16 giorni (118 in un mese), 351 morti, 557 feriti, 40 mila senzatetto, quattro paesi - Gibellina, Salaparuta, Poggioreale, Montevago - letteralmente rasi al suolo (e poi ricostruiti poco più in là), altri cinque - Santa MargheritaBelice, Santa Ninfa, Partanna, Salemi, Contessa Entellina - distrutti quasi del tutto. In diecimila lasciarono la Sicilia, presi dal panico. Non tutti sarebbero poi ritornati. Eppure vent'anni dopo erano ancora ottomila le persone che vivevano nelle baracche. Trent'anni dopo sarebbero scese a poco meno di duecento. Trent'anni dopo!
     Ma come andarono le cose? Il racconto rischia di sfociare nel romanzo, nell'esaltazione emotiva di immagini e situazioni. Ma tutto è tragicamente vero. La prima scossa in assoluto durò appena 4 secondi e raggiunse il settimo grado della scala Mercalli. Erano le 13,28 di domenica 14 gennaio. L'ora di pranzo. Il primo canale mandava in onda "la tv degli agricoltori", rubrica dedicata ai problemi delle campagne e dunque molto seguita in una zona dove la terra era praticamente l'unico vero sostentamento. A Palermo migliaia di tifosi si preparavano per andare allo stadio (i rosanero di Di Bella, dominatori della B, giocavano contro il fanalino Potenza, la serie A era ormai dietro l'angolo), al Fiamma faceva incassi super il film "Cenerentola" e bene andava al Nazionale "Quella sporca dozzina". Chi invece restava a casa, aspettava "Settevoci" di Pippo Baudo, appuntamento cult dell'epoca.
     La scossa fu avvertita, eccome. Ma durò poco perchè facesse presagire cosa stava per accadere. Alle 14,15 il bis, alle 16,50 la terza "scrollata". La sensazione che stesse succedendo qualcosa di terribile cominciava a serpeggiare. Giungeva notizia che l'epicentro era nel triangolo Gibellina - Salaparuta - Montevago, si diceva che c'era stato già qualche crollo. A Gibellina il sindaco Nicolò Pace disponeva l'immediata sospensione dell'afflusso alle urne per l'elezione del nuovo consiglio comunale. Ma fino a sera non succedeva più nulla. Tornava un pò di serenità, erano in pochi quelli che decidevano di dormire all'aperto. I più previdenti. Perchè il finimondo sarebbe scoppiato lle 3 del 15 gennaio: nono grado della scala Mercalli (che equivale a "scossa disastrosa, con rovina totale di alcuni edifici"). Pochi secondi ed è catastrofe. Eppure, incredibile ma vero, le dimensioni della tragedia non sono subito chiare a tutti. Dovevano passare parecchie ore prima di capire cosa è successo realmente. I primi ad arrivare nei paesi della valle non sono i soccorsi, ma i giornalisti. Scriverà su "Epoca" l'inviato Pietro Zullino: "Da Montevago il veno diffonde un lezzo dolciastro, spaventoso, insopportabile. Sono i cadaveri delle persone uccise di sorpresa dal terremoto. Ma sono anche i corpi di uomini, donne e bambini che le macerie avevano sepolto senza uccidere, e che altri uomini non hanno potuto salvare per mancanza di mezzi. Imprevidenza, confusione, improvvisazione e ritardi hanno resa caotica l'opera di soccorso delle vittime del disastro, mentre le autorità tenevano inconcludenti riunioni: medicinali non distribuiti per mancanzai autorizzazione, ruspe rimaste inutilizzate a Palermo, soldati privi di badile, autocarri che viaggiavano vuoti, rifornimenti di viveri e indumenti che venivano presi d'assalto..."
     Il giorno dopo, un'altra scossa, che spinge i più impauriti a lasciare con ogni mezzo possibile la Sicilia, mentre a Camporeale si aprono sul terreno dei veri e propri crateri fiammeggianti, le "maccalube". Il terremoto non da tregua, comincia il pellegrinaggio delle istituzioni: arriva il presidente della Repubblica Saragat, arriva il presidente del Consiglio Moro. Ma non viene proclamato alcun lutto nazionale e la Rai alterna le immagini del disastro alle interviste ai cantanti che si preparano per il Festival si Sanremo. Sabato 20 gennaio, mentre nel Belice si rimboccano le maniche migliaia di volontari, il consiglio dei ministri vara il primo pacchetto di provvedimenti a favore dei terremotati: mezzo milione "una tantum" per tutte le famiglie colpite, sovvenzioni fino a 500 mila lire per riparare i fabbricati, sospensione di tributi e canoni d'affitto. In tutto, 45 miliardi.
     Non è finita, però. Giovedì 25 gennaio, 11 giorni dopo la prima scossa, un'altro momento di panico: la scala Mercalli torna a segnare otto gradi, si contano altri 20 morti, mentre a rendere tutto più difficile ci si mette anche la neve.
     Si andrà avanti per tutto gennaio. Poi si comincerà, lentamente, faticosamente, a tornare a vivere. E partirà il carrozzone della vergogna, della bronto-burocrazia, degli scandali, dell'inefficienza. Il governo istituirà l'Ispettorato delle zone terremotate, ma si penserà a costruire impianti sportivi, centri sociali, snodi autostradali ed enormi cattedrali prima ancora delle case.
     Il Belice diventerà l'Eldorado di speculatori e artisti e, naturalmente, la mafia non resterà a guardare. Secoli di storia verranno letteralmente seppelliti. Fino all'ultima delle beffe, assurta a simbolo di tanto scempio. Il giorno di Ferragosto del 1994, la gigantesca cattedrale di Gibellina, progettata dall'architetto Quaroni, si affloscia al suolo come un sacco di patate vuoto. Non era ancora neanche stata inaugurata. E a Gibellina da oltre 30 anni si prega in un auditorium.

Questa è la storia!

Alle popolazioni del Belice, ho dedicato una mia lirica in lingua siciliana. Mi dispiace per quanti avranno difficoltà nel leggerla e capirla, mi riferisco a quanti non conoscono questa lingua. Non si possono tradurre
emozioni, stati d'animo, sensazioni, e la traduzione in lingua italiana le farebbe perdere i suoi significati.


BELICI   1968

La Vaddi di lu Belici durmia...
l'ossa s'arripusava ogni criaturi,
fora, lu friddu attassava li mura
dintra, tra li linzola, la notti passava a la calura.
Li muli a la stadda lintaru di manciari,
li cani 'ntunaru un gran lamentu,
no!... nun abbaiavanu alla luna,
no!... chissu fù l'avvirtimentu,
la terra trimau!...
Primu, secunnu, terzu strantuliuni,
poi, comu curpiti a tradimentu
mureru, a unu a unu.
Trava, sulara, mura e cuvirtizzi,
tutti s'allavancaru, 'nto 'nvuluni.
La morti cu la favuci a li manu,
vigliacca!... Travagghiau tutta la notti.
Li strati chini chini di cristiani
all'apertu circavanu riparu:
- figghiu!... Gridava nna matri
circannu tra li resti d'un sularu.
Chistu è lu paisi di li piccatura?...
'N'infernu 'nta nna notti addivintau,
tuttu distruttu, - chista è nna svintura!...
Puru Cristu 'ncruci l'abbannunau...
Lu cielu si grapiu, lampi e trona;
l'acqua si l'assupparu para para
poviri nuccinteddi a peri fora
'ntisiru lu friddazzu e la furtura.
Ogni notti la passaru ddà, all'apertu,
sti figghi di sta terra marturiata.
Nna manna di frascazza era lu lettu,
puru la luna stesi ammucciata.
Passati su tant'anni di dda notti,
li picciriddi sunnu già omini granni
e ppi li strati a vuci china gridanu:
- Aviti vistu passari lu Cuvernu?
Un vecchiu ccu la varva tutta bianca,
sapennu 'nsoccu vonnu li criatura,
chiancennu dici a tutti: - Bona genti,
circallu è tempu persu, nun cci senti!      

Spero di non avere rattristito nessunodopo 45 anni, ad ogni gennaio, il ricordo delle vittime del terremoto del Belice mi ritorna alla mente e, spesso, mi strappa una commozione.

giovedì 10 gennaio 2013

TEATRO SICILIANO - LA NOTTI DI NATALI












     Avevo 25 anni quando ho tirato su una compagnia teatrale, "Le Maschere jatine". Alla ricera continua di copioni in lingua siciliana, lo scopo era duplice, cimentarsi col teatro e soprattutto togliere dalla strada un bel pò di ragazzi. Non mi fu difficile raggiungere ambedue gli scopi e, in un tempo davvero breve. In un paesino come il mio, a venti minuti da Palermo, dove la mafia, fiorente, arruolava con facilità, molti genitori videro di buon occhio l'iniziativa, per cui un vecchio salone parrocchiale prima e un cinema in disuso dopo furono sempre gremiti di spettatori. La fatica non fu vana, tra attori, comparse, costumiste, siparisti, addetti alle luci e all'audio, cinque pomeriggi la settimana ci incontravamo in un centinaio. Dopo tempo i testi erano sempre più difficili da reperire, allora decisi di cimentarmi come autore teatrale, una decina di opere che avevano il compito di tenere incollati per tre ore al pomeriggio più ragazzi possibile.      
     Son passati quarant'anni, la compagnia è ancora operante, ma soprattutto ha assolto pienamente allo scopo per cui è stata creata, sottrarre quanto più possibile ragazzi alla strada, al malaffare, alla droga. Ci siamo riusciti? Se dura da tanto tempo, credo proprio di si!
     Qualche opera mia ha fatto il giro del mondo, U 'NCUCCHIAVIDDICHI, (Il senzale di matrimoni) commedia in due atti. Oggi voglio regalarvene una, capisco che in lingua siciliana sarà astrusa per i non isolani e i calabresi, e di ciò me ne scuso, ma mi impegno a scriverne una in lingua italiana.



LA NOTTI DI NATALI
(Commedia in due atti)

di    Mario Scamardo





 

P I R S U N A G G I


                   SARA………………………….Figghia unica di Genia e Politu
                  
                   GENIA…………………………Matri di Sara

                   POLITU………………………...Patri di Sara

                   TONINO……………………….Maritu di Sara

                   SASA’………………………….Figghiu di Sara e Toninu

                   SIGNURA ALESSIA………….Muggheri di l’amanti di Sara





DISCRIZIONI DI LI PIRSUNAGGI


         SARA
Trent’anni, bruna dalla chioma fluente, piena di fascino. Le sue misure perfette sono coperte da un abito elegantissimo. Le labbra dipinte di rosso scarlatto, due grosse perle adornano le piccole orecchie, una vistosa collana le cinge il collo slanciato e le sue mani diafane sono adornate da parecchi anelli. La vanità la si coglie di primo acchitto, ma nulla di esagerato e nulla che la renda sgraziata. Figlia unica, e come tale, viziata. Sposata con Tonino, è madre di Sasà.

         GENIA
Cinquantacinque anni, capelli corti di colore castano con qualche ciocchetta argentata, quasi a testimoniare lo scorrere del mezzo secolo. Donna ancora piacente nelle sue forme tondeggianti, il viso è marcato dalla tensione che Sara le ha procurato quando, lasciando il marito, è ritornata alla casa paterna col bambino. Donna di carattere e madre.

         POLITU
Sessant’anni, bell’uomo, i pochi capelli canuti sono ravviati all’indietro con cura. Papà di Sara, segnato dal dolore che gli ha procurato la figlia, scarica tutte le sue attenzioni sul nipotino, Sasà.

         SASA’
Cinque anni, bruno, figlio di Sara e Tonino, vive con la madre a casa dei nonni.

         TONINO
                   Trentacinque anni, uomo distinto, elegante nella figura, sposo di Sara.

         SIGNURA ALESSIA
Trentenne, belloccia, corpulenta, vestita con parsimonia. Due occhi tristi e pieni di lacrime segnano il suo dolore, è la moglie dell’amante di Sara.





A T T O   P R I M O


Stanzone di modesta casa con un mobile-armadio posto al centro della parete di fondo; alla parete di sinistra un mobile cassettiera.
Sulla parete di fondo, a destra ed a sinistra due usci portano: nel corridoio dove c’è la comune, mentre il secondo porta in altri ambienti (cucina, camere da letto, ecc.). Sulla parete di destra una finestra da sulla strada. Una sedia a dondolo, due poltrone e un divano ben sistemati. Tanti quadri alle pareti, in pieno inverno.


(Epuca prisenti)



 

S C E N A   I
Sara e Genia
        SARA
(Adagiata sulla sedia a dondolo con un libro tra le mani, alza gli occhi dal libro, mette tra le pagine una cartolina, poi con voce bassa si rivolge alla madre che sferruzza seduta sul divano) Mamà, chi sintisti chianciri u picciriddu?…
GENIA
(Smette di sferruzzare, ripone gomitolo e ferri sul divano, poi alzandosi, lentamente) No, nun l’haiu ‘ntisu, ma ora vaiu a viu. (Si avvia verso l’uscio di destra) Aeri sira nnuccinteddu fici nna siritina di chianciri… (Va via per la destra).
         SARA
(Si alza, va a guardarsi allo specchio del mobile centrale, si aggiusta con vanità una ciocca di capelli, poi va alla finestra).
         GENIA
(Rientrando si turba nel vedere la figlia alla finestra) Aeri sira nun cci fù versu d’accurdallu a to figghiu, to patri arrivau ca si siddiau… (Alzando la voce) Però tu si sempri a finestra!…
         SARA
(Ripigliando posizione sul dondolo) E chi, nun si po’ mancu guardari!… ‘Nta sta casa mi sentu accupata!…
         GENIA
(Sedendosi anche lei e ripigliando i ferri) E già!… Chista è a secunna casa dunni ti manca l’aria!… Prima ‘nta chidda di to maritu, e ora ‘nta chista!
         SARA
                   (Alzandosi di scatto) E chi voi!… Chissu distinu m’assignau Diu…
         GENIA
(Con calma, ripigliando un punto che le era scappato) Zittuti, e senza parrari di Diu, ca ‘nta ssu discursu nun c’entra ppi nenti… A to mala testa c’entra… e… suprattuttu st’amici ca ti dunanu raggiuni, ca sunnu chiù menza testa di tia!
         SARA
(Va alla finestra, dopo avere posato il libro sul mobile, la spalanca e comincia a soffiarsi il viso con le mani. Poi irritatissima) M’acchiananu vampati di cavuru ca mi veni di moriri…
         GENIA
(Con grande sarcasmo) E u cavuru di nna banna avi a dari, a mia mi scinni ‘nte manu (Facendo il gesto di menar botte) e a tia t’acchiana ‘nta testa!


         SARA
(Sbuffante) E tu sempri sti risposti pronti hai… a canciu di darimi cunfortu, mi duni sempri sucuzzuna!…
         GENIA
(Posando i ferri ed alzandosi) E chissi ti meriti!… A mia e a to patri cu nni duna cunfortu?… Ca nni pari malu puru a mettiriu nasu fora, tutti nni talianu ccu l’occhi sbarrachiati comu si fussimu armali rari, e tutti nni ridinu ‘nta facci!… To patri puvureddu, doppu nna vita di travagghiu, ca nna spingula nun cci l’ha pututu appizzari mai nuddu, quannu s’avia a godiri la vicchiaia filici e cuntenti di aviriti ‘ngrizzatu, bella accazzunatedda, cu ddu galantomu di to maritu, si ritrova ora a subiri tanti murtificazioni ppi la mala testa tò… (Si asciuga una lacrima).
         SARA
(Imbarazzata, nervosa, con stizza) O solitu semu!… Ogni ghiornu stu stessu discursu, l’haiu frariciu ‘ntesta!… A me maritu cci manca sulu ca u fannu santu ppi vuavutri, ma cu mia nun appi mai modi, nun appi una sula attinzioni, nun appi mai nna bella parola!… (Torna alla finestra).
         GENIA
‘Nca certu, ora si lassa u maritu picchì quannu trasi di nisciutu nun ti dici: - Ma chi bella vesta ca ti facisti!… Oppuru : - Sarì, chi bellu tincimussu ca t’accattasti!… E poi?.. Chi t’avia a diri ddu puvureddu ca si susi all’arba ppi ghiri a travagghiari e torna a cuddata di lu suli!… (Con sarcasmo) – Ma che belle sopracciglia finte che hai, le hai rititate da Elena Rubistaine a Parigi, ovvia come sono lunghe, ti danno un fascino orientale… accussì t’avia a diri?… E comu facia, doppu nna jurnata e menza o pruvulazzu, ca turnava ccu l’occhi unci quantu un tammurinu e arriniscia a vidiri appena appena u piattu cu a minestra, quannu u truvava!…
         SARA
                   (Adiratissima) Mamà!
         GENIA
(Minacciosa) Zittuti u sai, e lassami sfuari a chi nun c’è to patri!… Ma chi ti mancava?… Robbi, tutti chiddi ca vuliatu!… Aneddi, cci vulissiru n’atri ottu manu ppi mittiritilli tutti! Cullani, setti tinn’accattau ‘nta cinc’anni di matrimoniu, comu si fussitu n’armalu ccu setti testi! Lu frigoriferu chinu e ‘nchinatu!… Hai nna scarpera ca pari nna fornitura di casermaggiu ppi surdati. Tutti li duminichi, a costu di nun si pigghiari un ghiornu di riposu, ti purtava fora, (Alzando il tono) cirami, tiatri, e poi ‘ntall’astaciuni a mari, sula, ppi tri misi!…
         SARA
                   Bonu mamà!
        


         GENIA
(Adiratissima) Santudiantanuni veru, ti dissi lassami sfuari e fammilli arruzzuliari tutti sti piccati, po’ essiri ca cci rifretti e ti nni torni a casa.(Si risiede sul divano) A mari, sula, cu l’amici ca ti vulisti scartari, e iddu  carriava ‘nzoccu cci urdinavatu…
         SARA
E chi è tuttu chissu di fronti a la so gilusia?… Tu lu canusci sulu di fora, eu mi cci curcava ‘nsemmula!
         GENIA
                   (Con sarcasmo e stizza) Cci facisti un figghiu!…
         SARA
                   E’ gilusu comu un cani!
         GENIA
E certu!… Smorfii nun nni sparagnasti mancu una… (Si alza e scoprendosi tutto un braccio, con sarcasmo) Dottore, guardi che anellino caruccio mi ha regalato mio marito… e mentri, ti scummigghiavatu finu ‘nta spadda, sì, picchì l’aneddi ora si mettinu ‘ntall’uvitu… Avvocato, (Allargando la scollatura) vede questo golier, me lo sono comprato nella migliore gioielleria della città, guardi, guardi… e t’allargavatu a scollatura finu a faricci vidiri u viddicu… Notaio, senta l’odore di questa colonia, è francese originale, guardi come lascia liscia la pelle… e ddu nutareddu allisciava ca pari ca ti facia sfilaturi… e to maritu, santu omu, agghiuttia vilenu!
         SARA
Bonu mamà! Finiscila ca s’arrisbigghia u picciriddu!… Anzi, va viri si s’arrisbigghiau e cci fai un pocu di latti.
         GENIA
Si, picchì tu si ciunca, e a mia mi pigghiasti a menzu sirviziu, (Asciugandosi una lacrima) cci vaiu picchì ddu nuccinteddu nun avi curpa, e poi, picchì lu vogghiu beniri chiù di l’occhi mei, eu e to patri puru. (Esce per l’uscio di destra).
         SARA
(Come se il discorso con la madre non ci fosse mai stato, si riguarda allo specchio, controlla il suo trucco e ritorna alla finestra. Suonano alla porta).
         GENIA
(Entrando e vedendo la figlia alla finestra) Nun t’hannu finutu i quaranati?… Sunau to maritu e sta acchianannu i scali, vinni a vidiri u picciriddu…
         SARA
(Mostrando un forte imbarazzo) Dicci ca nun ci sugnu, ca sugnu ‘nto nutaru, nun cci vogghiu parrari…


         GENIA
Si, e cci dicu, si mi spia, ca si ‘nto nutaru, ppi massaggi….(Gesticolando con smorfia, poi tentenna il capo in segno di rassegnazione, mentre Sara esce per la sinistra e lei va ad aprire l’uscio).

S C E N A    II
Genia e Tonino

        TONINO
                   (Entrando in cappotto) Ossa benerica…
         GENIA
                   (Premurosa) Trasi Toninu, trasi, levati u cappottu e t’assetti…
         TONINO
                   (Procedendo verso il divano) C’è Sara?… (Siede).
         GENIA
                   Mi dissi di diriti ca è nisciuta… (Siede sul divano)
         TONINO
                   Sempri ‘ncurnata è, nun si po’ arrimuddari…
         GENIA
Dura, dura comu nna mazza di ferru!… Ma dda avi a dari… e siddu entru tri ghiorna nun si nni torna a casa, comu è veru ca c’è Diu, la jettu fora!
         TONINO
Nonzi, matri mea, ppi mia l’avi a fari, ‘mmenzu la strata nò, adaciu adaciu arrimuddarisi avi… U picciriddu chi fa dormi?…
         GENIA
Si, s’avia arrisbigghiatu e s’addummisciu arreri, lu vò vidiri?.. E’ tuttu dda sant’armuzza di to patri, nna stampa e nna fiura.
         TONINU
U viu appena mi nni vaju, (Tira di tasca un involtino che man mano scarta, contiene un piccolo orsacchiotto di peluche) cci purtavi stu pupiddu, sicuru ca cci piaci, l’atra matina ‘nta la vitrina dunni era spostu, lu taliau chiossai di nna vota, sicuru ca cci piaci, (Esce dall’altra tasca un secondo involtino, una scatolina che contiene una spilla d’oro, la apre) e chista spilla l’accattavi ppi Sara… (Abbassa gli occhi a terra e ammutolisce. Guarda la suocera che non parla, anche lei ha gli occhi a terra, poi va verso il mobile, depone la scatolina aperta) Cci la lassu ccà aperta, accussì comu trasi a vidi, ora vaju ‘nto picciriddu… (In punta di piedi varca l’uscio di destra).




S C E N A    III
Genia e Politu
        GENIA
(Rimasta sola piglia l’orsacchiotto di peluche, lo stringe al seno, poi con voce tremante) Puru ppi idda pinzau, la testa scafazzata si la miritassi, ma iddu cci purtau a spilla… (Piange in silenzio… Suonano alla porta, si alza dalla poltrona dove un momento prima si era seduta, si asciuga il viso, si ricompone e va ad aprire, sull’uscio di destra si incontra col marito che sta per entrare. A Politu sulla soglia) Picchì sunasti mentri c’aviatu a chiavi?…
         POLITU
(Con un grosso involto che porta a due mani, imbacuccato in un pesante cappotto) Ppi fallu arrisbigghiari.
         GENIA
‘Nca bonu, nuatri l’annacamu p’addummiscillu, e tu scampanii p’arrisbigghiallu!
         POLITU
                   Arrisbigghialu ca cci purtavu nna bricichetta a quattru roti.
         GENIA
(Guardando l’involucro, con fare sbalordito) A quattru?… E chi è mulu to niputi?…
         POLITU
E’ ppi ‘nsignarisi, a quattru prima, poi, appena si ‘nsigna, a lampu a dui…
         GENIA
Virica u picciriddu è normali, nun è scimia, viri di faricci pigghiari l’abitudini armalischi toi!…
         POLITU
(Scarta la bicicletta. Alla moglie che lo guarda incuriosita) Roti ‘nnavi quattru picchì  dui, chisti chiù nichi, servinu ppi nun lu fari abbattiri, u viri? (mostrando le due ruote laterali).
         GENIA
E tu, sempri esageratu si, cu tri roti avissi accummiratu puru, ma tu si cci ‘nn’era una a setti roti l’avissitu accattatu u stessu!
         POLITU
                   Và, va chiamalu ca u mittemu ‘ncapu.
         GENIA
                   Ora po’ essiri ca veni, c’è so patri dda dintra…
         POLITU
                   Cui, Toninu?
         GENIA
                   ‘Nca cui Muzio Scevola!… So patri Toninu è!

         POLITU
                   E to figghia chi è puru dda dintra?…


         GENIA
                   (Sedendosi sul divano e ripigliando i ferri) C’è e nun c’è…
         POLITU
                   Com’è stu discursu, c’è o nun c’è?
         GENIA
                   Ppi essiri c’è!… Ma si mi spia Toninu, nun c’è, è ‘nto nutaru…
         POLITU
                   E Toninu u sapi ca è dintra e ca tu hai a diri ca nun c’è?
         GENIA
                   Sulu un cretinu nun lu capisci, e Toninu è spertu!
         POLITU
(Va verso il divano e nota l’orsacchiotto, lo piglia in mano, poi alla moglie) Cci l’accattasti tu o picciriddu?
         GENIA
                   No, so patri…
         POLITU
(Accompagnando lo sguardo che si posa sulla scatolina con la spilla posta sul mobile, vi si avvicina e prendendo la scatola in mano) E sta spilla di cu è?…
         GENIA
                   Di to figghia Sara, cci la purtau so maritu…
         POLITU
                   E idda è sempri ‘nto nutaru?…
         GENIA
Sempri… Secunnu mia s’ha ‘ntisu tutti i discursi, e cu tuttu ca c’è a spilla ppu menzu, ancora nun ha finutu di fari atti!… (Entrano Tonino ed il bambino).

S C E N A    IV
Tonino – Sasà  più Detti

        TONINO
                   (Al suocero) Ossa benerica… (Va a stringergli la mano).
         SASA’
                   (Corre dal nonno e gli salta in braccio).
         POLITU
(Dopo avere baciato il bambino lo porta accanto alla bicicletta nuova) Talè Sasà, talia chi ti purtau u nannareddu tò…

         SASA’
                   (Spalancando gli occhi per mirarsi il regalo… poi al padre) Papà è mia?
         TONINO
                   Tutta tua, u nonnu ti l’accattau.

         GENIA
(Al bambino) E ti l’accattau ccu nna rota di chiù, a quattru roti, accussì nun cadi!
         SASA’
(Montando sulla bicicletta e pedalando sotto lo sguardo meravigliato e soddisfatto dei nonni) Papà, nonna, u viri comu piraliu forti…
         GENIA
(Con fare preoccupato a Sasà) Attentu a nonna… piralia adaciu adaciu e senza stricari ‘nte mobili… to nannu nun su fici u cuntu ca perora si nicu ppi mannariti fora ‘nto curtigghiu a ghiucari…
         POLITU
                   (A Toninu) Toninu, assittamunni ca a stari all’aggritta nun si vusca nenti.
         TONINO
(Ai suoceri) No, mi nni vaju, ora ca vitti u picciriddu e vi vitti tutti boni di saluti… mi nni vaju e si dumani tornu prestu ddu trvagghiu passu arreri… (Quasi fra sé e sé, con immensa tristezza) Po’ essiri ca  Sarina nun avi nuddu ‘mpegnu e la trovu dintra, anchi ppi sapiri si cci piaciu a spilla… (Si china, bacia il bambino che si rimette a pedalare).
         GENIA
Quannu tu vò veniri veni, a qualunqui mumentu, di notti o di jornu, e si  vò veniri ogni sira a manciari ccà, po’ veniri, a nuatri nni fai sulu piaciri, e u picciriddu cci senti tantu preu, ca addumanna ogni anticchia.
POLITU
Certu, chista è casa tò… cu voli stari ‘nto nutaru cci stà (Alludendo alla figlia e alzando il tono per farsi sentire) e si vulissi nun cci jri chiù ‘nto nutaru e vulissi manciari cu nuatri, comu fussi giustu di fari, nni facissi un piaciri a nuatri, unu a so figghiu e… unu a idda stessa!…
         TONINO
(Si avvicina all’uscio ed esce. Un attimo dopo esce Genia per la sinistra)

S C E N A   V
Sasà e Politu

        POLITU
(Al bambino) Sasà ppi stasira lenta cu ssa bricichetta, veni ccà, ca mentri to nanna va pripara ppi manciari eu ti cuntu un fattareddu di quannu era nica to matri. (Il bambino lascia la bicicletta e salta sulle ginocchia del nonno cha ha preso posto sulla poltrona).
         SASA’
                   Nonnu, tu l’aviatu a bricichetta quann’eratu nicu?
         POLITU
No, però avia un cavadduzzu a dondulu, un cavadduzzu ca paria ca parrava, mi l’avia fattu me nannu, a manu, ccu un lignu di chiuppu…
         SASA’
                   E a mamma l’avia a bricichetta?
         POLITU
No, to matri avia nna pupa, una bambola tutta di pezza, ccu nna vesta tutta arraccamata ccu tanti nastriteddi e un cappidduzzu ca cci cummigghiava la tistuzza.
         SASA’
                   E parrava?
         POLITU
No Sasà, nun avia la vuci, picchì li pupi nun parranu, ma era tantu graziusa ca paria ca parrava, e tanti voti, paria ca chiancia…
         SASA’
Chiancia?… (Si vede aprire piano piano l’uscio di sinistra, dallo spiraglio si nota Sara che origlia).
         POLITU
E si, chiancia… picchì to matri, prima chianciu idda pp’avilla, poi, quannu paria ca avia scupertu lu jocu di la matri, la jttava ‘nta  n’agnuni e la lassava sula ppi ghiorna e ghiorna… e a pupa, cu tuttu ca era di pezza chiancia, si sintia abbannunata comu li ciaravidduzzi a cui cci mori a matri…

S C E N A    VI
Sara più Detti

        SARA
(Comparendo dall’uscio di sinistra) Papà, ma chi cci cunti o picciriddu, di dunni ti vinni tutta sta fantasia!…
         POLITU
Nun è fantasia, u staiu abbituannu a ‘nsoccu cci po’ capitari, picchì sicutannu di stu passu, eu e to matri muremu di collira, e finennu nuatri a stu criaturi cci finisci comu a pupa, comu u ciaraveddu… e nun cci arresta chi chianciri!… (Si stringe il bambino al petto).
         SARA
(Avvicinandosi alla finestra ed aprendo le imposte) ‘Nta sta casa c’è sempri cavuru, s’accupa, mi sentu mancari l’aria…



         POLITU
(Al bambino) Sasà, u viri to matri, cancillau a menza stagioni, anzi, i cancillau tutti, si passa dalla stati, senza né ‘nvernu né primavera, all’avutra stati, e si fussi ppi idda un cci fussi mancu a notti… sempri jornu, sempri suli a picu e sempri lu sciluccazzu d’austu!…
         SARA
                   Ma chi cci pozzu fari si sentu sempri cavuru!…
        
         POLITU
E già… chi cci po’ fari… Nun sì Diu tu! Sulu Diu i potti fari quattru stagiuni, e tu fusti capaci di sfidari a Iddu, vincillu e fari una stagiuni sula, a stati!… Chidda du cavuru!…
         SARA
                   (Stizzita dalle parole del padre) Eu nun risistu, ora nesciu!…
         POLITU
A chist’ura?… Cu stu friddu?… Già, mi l’avia scurdatu, tu hai nna stagiuni sula!
SASA’
         Mamma, cci vegnu puru.
POLITU
         Lassa stari Sasà, a mamma babbia, nun nesci, nun avi dunni jri…
SARA
         Haiu a nesciri ppi forza, ca haiu ‘mpegni!
POLITU
         E di chi tipu?…
SARA
Haiu ‘mpegni e basta! (Esce per la sinistra sbattendo l’uscio dopo avere preso una borsetta da dietro l’uscio di destra).
         POLITU
(A Sasà) U viri figghiu meu, ti fici, cci jucau, ora tu sì comu a pupa, comu u ciaraveddu… (Scuote la testa) Chianciri ti tocca!… (Stringe il bambino a se e gli accarezza dolcemente la nuca).
         SASA’
(Deluso per non essere potuto uscire con la madre, al nonno) Nonnu, portamicci tu fora, vogghiu vidiri li luci addumati ‘nta villa, e puru vogghiu vidiri l’ochi ‘ntall’acqua.
         POLITU
(Dondolando pian pianino Sasà)  Sasà, nuatri dui nun semu comu a to matri, nuatri semu genti normali, avemu tutti quattru stagioni, e perora è ‘nvernu, c’è friddu, e si ti portu fora cu stu tempu, ti po’ pigghiari un malannu… Eu nun mi scantu di to matri, ma cu la senti a to nanna si ‘nzamà Signuri pigghiassitu nna ‘nfruenza, e poi, chi putissi diri to patri?… Aspittamu comu li genti normali, prima ca finisci lu ‘nvernu, poi, ca cumincia la primavera, e appena lu suli quaria anticchia e si po’ stari senza né capputtinu né cappeddu, allura ‘nta villa cci putemu stari matinati e siritini e cci putemu dari a manciari a tutti l’ochi chi cci sunnu ‘ntall’acqua. (Sasà che aveva seguito il nonno a bocca aperta, socchiude piano piano le palprebe e si addormenta tra le sue braccia).

S C E N A    VII
Genia e Politu
        GENIA
(Entrando in grembiule da cucina. Al marito) E chi fù, u facisti addummisciri?… Avia a pastina pronti…
         POLITU
                   (Imbarazzato, sentendosi quasi in colpa) Chi fa, l’arrisbigghiu?
         GENIA
Dammillu a mia ca mi lu portu dda dintra e l’arrisbigghiu adaciu adaciu. (Prende in braccio Sasà e se lo porta in cucina).

S C E N A    VIII
Politu

         POLITU
(Rimasto solo sulla scena, si porta le mani alla testa in segno di disperazione, si avvicina alla finestra, poi…) Chi vriogna, chi vriogna… sta figghia sula, cu la testa china di scorci di babbaluci… Dunni sbagliamu eu e so matri ‘nto criscilla?… Dda santa fimmina di me muggheri la crisciu cu lu ciatu, e idda?… Nna sira ‘nto nutaru, nna sira ‘nto dutturi, n’avutra sira ‘ntall’avvocatu, e ccu nna scusa è sempri fora, sempri mutata, e trova sempri tri o quattru avutri fimmini, sfacinnati comu è idda ca cci dunanu raggiuni!… (Si avvicina alla sedia a dondolo, la scuote facendola dondolare, poi si gira di scatto verso il tavolo, piglia il libro e lo apre proprio dove c’è la cartolina posta da Sara come segnalibro, la tira fuori, si pone sotto il lampadario, legge con voce tremante) Alle otto al solito posto, tuo Andrea. (Esita un pochino, poi a mezza voce dopo aver guardato l’orologio) Genia…

S C E N A    IX
Genia e Politu

         GENIA
(Affacciandosi) Chi voi… (Poi vedendo il marito pallido e stravolto) Chi ti successi, picchì si accussì giarnu?…
         POLITU
                   (Mostrandole la cartolina) Leggi ccà, cu è Andrea, lu canusci tu?
         GENIA
(Dopo aver preso la cartolina in mano e aver letto) No!… A stu puntu semu arrivati?… (Scoppia in singhiozzi) Puru l’amanti!… (Siede sul divano e piange disperatamente).



         POLITU
(Va a posare il libro sul tavolo, ma dalle ultime pagine salta fuori una lettera, la raccoglie da terra, apre la busta e ne tira fuori un biglietto piegato in due. Ritorna sotto il lampadario e legge ad alta voce) A mio padre che mi sa capire. Ho trovato il grande amore, sono fuggita con lui, non cercatemi! A Sasà gli volete bene quanto me, un giorno tornerò a riprenderlo, non condannate il mio gesto. Vi voglio bene, Sara.(Piega il biglietto, lo ripone nella busta, lo consegna alla moglie, poi siede sul divano e ammutolisce).
         GENIA
(Riapre la busta, legge tutto d’un fiato, poi al marito) Dumani accattami  nna cartullina listata a luttu dunni c’è scrittu: “PER MIA CARA FIGLIA”, ca la vogghiu chiantari darreri la porta! (Richiude il foglio nella busta e, dopo averlo piegato in quattro, se lo infila nella scollatura. Piangendo) Sasà, poviru figghiuzzu meu… Orfanu picciriddu… Ma si persi la matri è giustu ca si godi lu patri, si Toninu sinni voli veniri a stari ccà, chista è casa so!… Bisogna avvirtillu, prima ca u veni a sapiri di avutru! (Si alza di scatto, va alla finestra e scruta, poi sbottando) E comu si viri bona a strata… E allatu sta finestra vennu certi quaranati!… Certu, l’amuri avvampa e si senti cavuru… Ma comu nun cci pinzavu prima! (Dandosi una manata alla fronte). A so patri scrissi, “Ca la sapi capiri”… Dumani, pezzi nivuri puru ‘nta scupa, e a u picciriddu fascia nivura ‘nto vrazzu, pezza nivura ‘nta cammisa e pezza nivura puru ‘nta bricichetta, anzi, (Chiudendo la finestra e sbattendo le ante) quattru pezzi nivuri, una ppi rota! (Va per la sinistra, torna di lì a poco con addosso il cappotto, al marito) Nesciu…
         POLITU
                   E dunni vai?…
         GENIA
Vaju nni Toninu, è megghiu ca cci la damu nuatri la mala nutizia, si la pigghia ‘ncriminali si po’ cunsumari… Teni d’occhiu o picciriddu. (Esce per la comune).


F I N E    I    A T T O


A T T O    S E C O N D O

Stesso ambiente del primo atto. In un angolo fa bella mostra un albero di Natale addobbato con mille lampadine colorate e tantissimi doni.
Politu seduto sul dondolo legge il giornale, Genia sferruzza. E’ la vigilia di Natale, Sasà sta sistemando alcuni pacchettini sotto l’albero.











S C E N A    I
Genia – Sasà e Politu

         GENIA
(Con un occhio alla maglia ed uno al bambino) Attentu a matri, si voi ca ti dura finu a la Bifania nun lu ‘nfruntari l’arvulicchiu, sunnu tri voti ca cci junciu pallini…
         SASA’
(Continuando a sistemare i suoi pacchettini) Nun li rumpu, si veni a mamma cci dicu ca mi li purtau Babbu Natali… Nonna, quannu veni a mamma?…
         GENIA
(Fa finta di non sentire e non risponde, anzi aumenta il ritmo dello sferruzzare).
         POLITU
(Al bambino) Ora veni to patri, nn’assittamu tutti ‘nsemmula e manciamu, poi a to patri cci facemu nna surprisa…
         SASA’
                   (Imbronciato) Quali surprisa… E a mamma nun veni?…
         POLITU
(Cercando di cambiar discorso) Nna bella surprisa, to nanna stamatina truvau sutta l’arvulu una cammisa, e Babbu Natali ‘nto pizzinu cci scrissi: “ ppi Toninu, ca si la merita”.
         SASA’
                   (Sempre più imbronciato, interrompendolo) Si, ma a mamma?…
         GENIA
(Che aveva assistito al penare di Sasà, asciugandosi due lacrimoni) A mamma… (Singhiozza).
         SASA’
                   (Al nonno, con due occhietti tristi) Comu a pupa, è veru?…
         POLITU
(Posa il giornale, trae il bambino a se) Si u nonnu, comu a pupa!… Ma ora veni u papà e facemu festa, e dumani tutti tri ni nni jamu a la Santa Missa e ti portu fora a vidiri l’ochi…
         GENIA
(Si alza, posa gomitolo e ferri, al marito) Vaiu ‘nta cucina quantu viu a chi è u furnu! (Suonano alla porta).
         POLITU
                   (Alla moglie) Mi pari prestu ppi essiri Toninu, viri cu è.
         GENIA
                   (Avviandosi all’uscio) E picchì e prestu, ormai scurau. (Esce).

S C E N A    II
Signura Alessia   più  Detti

        SIGNURA ALESSIA
                   (Accompagnata da Genia, entrando) Si può?…
         GENIA
Trasissi e s’assetta, (Al marito) Politu, sta signura è la muggheri di lu gioielleri Andrea Passalacqua, chiddu ca avi u negoziu cca ‘nfacci davanti o purtuni.
         POLITU
(Allunga la mano per salutare, mentre Sasà va verso la cucina ed esce di scena) Si accomodi, s’assittassi…

S C E N A   III
Detti  meno  Sasà

         SIGNURA ALESSIA
(Vistosamente imbarazzata, tituba nel sedersi, poi si accomoda e con lei siedono tutti) Signor Politu e signura Genia, è la dispirazioni chi mi purtau a nesciri di casa, lu rimorsu e la vriogna, picchì chiddu chi subistivu vui l’haiu subitu puru eu… (Piange dirotto) Si vuliti mi susu e mi nni vaju, scacciatimi si vuliti, ittatimi puru fora… (Singhiozza).
         POLITU
Ma chi diciti signura mia, nui semu cristiani vattiati. (Imbarazzato) Lu sacciu figghia mia, semu tutti vittimi di la fuddia di ddi dui scillirati, di me figghia e di vostru maritu… Chi curpa vuliti ca vi damu, tutti dui nni jncheru la facci di fangu, e l’unichi chi paganu u cuntu sunnu me niputi e li vostri figghi… Nna siritina comu chista, la vigilia di lu Santu Natali ogni nnuccinteddu vulissi ‘ncudduriarisi ‘ntra li vrazza di so patri e di so matri…Nun c’è caminu e nun c’è braceri chi ti po’ quariari lu cori, chi ti fa avvampari li masciddi comu lu ciatu di la matri e, adaciu adaciu, ti fa addummisciri ‘ntra li so vrazza, aspittannu ca sona la campana di menzannotti chi t’annunzia la nascita di lu Santu Bammineddu… (Si ferma un attimo, con voce commossa) Ma chi cci contu a nna matri addulurata comu a vui, a vui c’aviti lu cori straziatu comu a chiddu nostru… (China il capo).
         SIGNURA ALESSIA
(A Genia) A vui ca siti matri e mi sapiti sentiri, quali curpa mi pozzu dari si nun capivi mai chi mi stava succirennu, nuddu sinturi, nuddu sintumu, nun si tradiu mai, e mai eu mi nni potti addunari.


         GENIA
(Assentendo col capo) E di chi vuliavu addunarivi… ‘nta sti cosi, li pirsuni chiù vicini sunnu l’urtimi a capiri e l’urtimi a sapiri…
         SIGNURA ALESSIA
‘Ntall’urtimi tempi mi dicia ca a casa sintia friddu, e nun cci vastavanu magghiuna e stufi e niscia fora, ca fora si risturava… Curcatu si sintia ‘nfriddulutu, a tavula sintia friddu… Si nn’assittavamu ‘nto saluni, dicia ca nu cci putia stari picchì c’era a furtura, e si mittia fora… (Genia inarca le ciglia e segue con maggiore attenzione) ‘Nta cucina nun cci trasia picchì c’era a nivera, si mittia a trimari comu un foddi e sbarrachiava i finestri ppi quariarisi, dicia iddu…
         GENIA
                   (Al marito) E già!… Comu a calamita!
         SIGNURA ALESSIA
                   (Che non aveva capito) Comu?…
         GENIA
U viri signura mea, ccà succiria a riversa!… Me figghia avia i quaranati, idda grapia a finestra e s’arrifriscava, vostru maritu, quannu a grapia, cci arrivava u caluri di me figghia e si risturava!
         SIGNURA ALESSIA
                   (Confusa) E ora?…
         GENIA
Ora stannu a finestri chiusi,stannu allatu e si scancianu u caluri… Idda fa a stufa e iddu si quaria, quannu iddu fa a ghiaccera, idda s’arrifrisca!… E si, comu a calamita, s’attiranu!
         POLITU
(Che non ha battuto ciglio) Comu a calamita… E i picciriddi, comu a pupa, ‘ntall’agnuni…
        SIGNURA ALESSIA
E la cretina di mia ca cci vulia chiamari u dutturi, ca mi paria stranu ca dintra, ‘nta lu ‘nvernu, cci putissi essiri chiù friddu ca fora.
         POLITU
                   Stagione unica, sulu afa e sciloccu!…
         SIGNURA ALESSIA
Eu sugnu ccà p’addumannarivi un cunsigghiu, vui signura Genia, lu sapiti ca sugnu sula a stu munnu, ca mi canusciti di picciridda.
         GENIA
Parrati, ‘nta la disgrazia ca nn’accumuna, si pozzu un cunsigghiu di matri vi lu dugnu cu lu cori…
         SIGNURA ALESSIA
Mi ficiru accapiri ca me maritu e vostra figghia si sciarriaru, e picca passa ca si spartinu, mi dissiru ca nun si capiscinu, e sacciu puru ca vostra figghia vulissi turnari a casa vostra… (Genia e Politu sono frastornati,si guardano negli occhi senza trovare parola).
POLITU
(A Genia per allontanarla un pochino e poter parlare da solo con la Signora Alessia) Vai ‘nta cucina e pripara nna tazzicedda di cafè, bellu cavuru, ca sta svinturatedda di la signura Alessia mi pari ‘nfriddulutedda, e poi nni rianimamu tutti, ca n’avemu di bisognu…
         GENIA
(Alzandosi, alla signora Alessia) Forsi è megghiu ca cci fazzu un bellu tè, cavuru cavuru (Si avvia).

S C E N A    IV
Signura Alessia   e  Politu

        SIGNURA ALESSIA
(Singhiozzando ed asciugandosi le lacrime) Ccà cci arrivavu cu la facci, (singhiozza a cuor pieno) nesciri di dintra fù comu jri a lu patibulu, (Battendosi le mani sulle ginocchia) la genti pari ca mi sparava cu l’occhi, (riprende a singhiozzare e comincia a darsi con tutte e due le mani schiaffi di disperazione) chi vriogna, chi vriogna!… (Continua a disperarsi).
         POLITU
(Rimane un po’ in silenzio e lascia sfogare la signora Alessia, poi, come a volerla rincuorare) Signura Alessia nun si dispirassi, nun facissi accussì, e sopratuttu, (Abbassando gli occhi a terra e scandendo piano piano le parole) siddu è veru ca ritornanu ognunu a la so casa, circamu di nun perdiri la calma, figghi avi lei e figghi avi me figghia… Svinturati li so figghi e… svinturatu me niputi… (Dalla stizza si morde una mano) Ma chi curpa hannu sti nuccinteddi, e a ddu svinturatu di me enniru, si nun torna chiù a la casa, cu cci po’ dari tortu!… (Un attimo di silenzio pervade la stanza, poi un ulteriore insorgere dell’ira) Ammazzata si miritassi, pistata cu li peri! Ma pi ssu picciriddu, ca lu viu piniari chiamannu sempri mamma, sugnu eu ca mi fazzu pistari comu cardedda! (Si dispera).

S C E N A    V
Genia  più  Detti

         GENIA
(Entrando con un vassoio e tre tazze fumanti di tè) Stu picciriddu nun duna abbentu, sta murritiannu cu nna machinicchia sutta u tavulinu da cucina. (Posa il vassoio sul tavolo e porge una tazza alla signora Alessia) Si lu pigghiassi bellu cavuru accussì si ristora. (Poi porge la tazza al marito).
         SIGNURA ALESSIA
(Dopo avere sorbito il tè) Sugnu cunfusa signora mia, lei ca è matri e mi po’ capiri, eu nun l’haiu cu so figghia, e Diu m’avissi a castiari si l’haiu cu vuatri… L’haiu cu mia stessa ca nun capivu nenti di nenti! Mi cunsigghiassi, pi ssi figghi chi misimu a lu munnu, comu m’haiu a cumpurtari?…
         GENIA
Nun si dispirassi, si dici: megghiu un maghiru accordu ca nna ricca sintenza. Capisciu ca nun è facili ridiri a cu t’ha tradutu, ma pi li figghi si po’ fari chistu e avutru, e lu cunsigghiu chi cci pozzu dari è chiddu di ridiri. Ridiri ppi vidiri ridiri li picciriddi… Un patri, tintu o bonu è sempri un patri!…
POLITU
(A capo chino sulla poltrona) E già, un patri… Ma i picciriddi su pupi di pezza! Amari ddi figghi di ddu patri chi perdi la raggiuni, ma chiù amari ancora ddi figghi la cui raggiuni la perdi la matri!… Chi mascara ppi idda!… E chi mascara ca cci lassau a so figghiu!… Figghiu di… (Si tura la bocca per non lasciarsi sfuggire il termine).
         GENIA
(Interrompendolo) E bonu, Diu è pruvvidenti e m’avi a dari la forza di supirari tutti ssi ‘mpicci!… (Poi stizzata) Ma cci nni voli firi ppi tenisi carmi e ppi suppurtari sti cruci!
         SIGNURA ALESSIA
(Si alza) Matruzza mia, mi paria c’avia a truvari ddu cristiani ca m’avianu a manciari ‘nte robbi, ca m’avianu assicutari pi li scali, ‘nveci truvavu n’avutru patri e n’avutra matri (prendendo la mano di Genia)  e pi chissu vi vasu li manu. (Bacia la mano a Genia).
         GENIA
(Abbracciandola e tirando dolcemente il capo di Alessia sulla sua spalla) Figghia mia, sfoati a chianciri ora, sfoati, ma ridi di dumani ‘mpoi… Ridi, ridi, ppi vidiri ridiri a li to figghi. (La stringe a se con commozione).
         SIGNURA ALESSIA
(Le stringe fortemente le mani e la bacia sulla guancia) Grazii matri mia, grazii ppi tuttu chiddu ca mi sta dicennu e ppi la forza chi mi sta dannu, grazii, (Poi va da Politu) e grazii patruzzu meu, di stu mumentu nun si chianci chiù, si ridi, eu e vossia puru, ppi vidiri ridiri a li nuccinteddi. (Si avvia all’uscio accompagnata da Genia).






S C E N A    VI
Genia  e  Politu

        
         GENIA
(Rientrando dal vano ingresso al marito) Politu, chi pietà ca mi fici sta sfurtunata di la signura Alessia, mi chiancia lu cori… Ma dimmi, cci dissi giustu?… Cci lu detti giustu lu cunsigghiu?… (Il marito non risponde, sempre a capo chino, pensoso) Nun facemu ca sbagliavu?… (Poi si accosta alla poltrona del marito, si inginocchia accanto ai suoi piedi e pigliandogli dolcemente una mano scoppia in lacrime) A nuatri dui, chiù sfurtunati d’idda, cu nni lu duna un cunsigghiu, cu nni dici comu avemu a fari… e cu lu sapi si to figghia torna… (Poggia il capo sulle ginocchia del marito che le accarezza il capo teneramente).
         POLITU
(Appoggia la sua fronte sulla testa di Genia) Un patri, nna matri, li mettinu a lu munnu, tribulazioni, patimenti… (Poi si alza, solleva la moglie e la fa sedere) Preoccupazioni, palpiti di cori… L’accumpagnamu cu l’occhi e li criscemu cu lu ciatu! Cci dassimu la vita, la stessa vita chi ti inchinu quannu vannu criscennu e ti armanu nna festa ‘ntunnu… Campi sulu ppi iddi e certi voti straviri finu a pariri riddiculu. Quantu sogni, quantu castelli in aria, quantu suspiri, e ti sacrifichi picchì addiventanu lu to specchiu, e tu illusu, vulissitu riviviri la to vita attraversu d’iddi, e poi…
         GENIA
                   (Alzandosi ed abbracciandolo dolcemente) E poi?…
         POLITU
E poi, doppu chi l’ha viziatu, chi l’ha accuntintatu in tuttu e ppi tuttu, doppu  ca li vidi belli ‘ngrizzateddi cu la so famigghia, doppu ca po’ diri a tia stessu: “ora pozzu moriri tranquillu”, comu nna petra di l’ariu, scopri ca hai nutricatu nna serpi vilinusa ca cu nna pitrata rumpi lu specchiu dunni ti guardavi, e ti metti nna mascara di fango ‘nta la facci… Si nni va di casa lassannu a tutti, maritu, patri, matri, figghiu, e si va a ghiunciri ccu unu, ccu n’avutru scursuni vilinusu chi lassa muggheri e picciriddi! (Si da due manate alla faccia e piange di stizza).
         GENIA
(Al marito) Assettati e calmati, chianciri u mortu su lacrimi persi. E’ chiù giurizziusu circari nna soluzioni ca jri appressu a lacrimi e rimpianti!… Testa rutta?… Miricina! A manu a manu ca li cosi si vannu prisintannu, lu Signuri è pruvidenti e nn’avi a fari truvari la soluzioni. (Politu l’accarezza al viso e ambedue si siedono in poltrona. Dopo un po’ si alza di scatto) U picciriddu, s’appi addummisciri ‘nta cucina, quantu lu vaju a curcu. (Esce).

S C E N A    VII
Politu

         POLITU
(Si stropiccia gli occhi, poi passa le mani sulle ginocchia quasi a volerle riscaldare) Chi bella vigilia di Natali stamu passannu!… Eu chianciu e mi disperu, dda santa fimmina di me muggheri chiù dispirata di mia cerca di darimi curaggiu, u picciriddu s’addummisciu sutta u tavulinu e Toninu ca dissi ca vinia, a chist’ura sarà curcatu… (Mentre Genia rientra suonano alla porta. Alla moglie) Sonanu, viri cu è.

S C E N A    VIII
Genia  e  Politu

         GENIA
                   (Va verso l’uscio).
         POLITU
(Vedendo che la moglie perde tempo nel rientrare) Genia… (Non ottenendo risposta) Genia…
         GENIA
(Ricompare) Affacciavu puru dda scala ma nun vitti a nuddu, appi ad essiri scherzu di picciutteddi. (Si siede sul divano e piglia i ferri e la lana, poi accorgendosi che sta finendo il gomitolo) Politu, si mi teni nna matassa, la cogghiu. (Si alza, presso il mobile preleva una matassa di lana, la svolge e la pone tra le mani pronte del marito che la tende, cerca il bandolo e comincia ad arrotolare il gomitolo).
         POLITU
Bona mi finiu, ‘nta stu presepiu ca è sta casa cci mancava sulu a cunocchia, e stasira, vigilia di lu santu Natali mi tuccau di falla a mia. (Risuona il campanello) Va viri cu tuppulia, viremu a cu cci mancianu i manu sta vota.
         GENIA
                   (Mentre va verso l’uscio, al marito) Chi ura su.
         POLITU
Tu pozzu diri a occhiu, cu sti manu ammarazzati comu fazzu a taliari chi ura su?!
         GENIA
(Rientrando) E su ddu voti, addumannu cu tuppulia e nun mi rispunni nuddu, (Sposta il polsino del marito e sbircia sull’orologio facendo una smorfia).

         POLITU
                   Chi è fermu?
         GENIA
                   No camina, sunnu l’unnici e menza ‘ncarcateddi.
         POLITU
                   E comu mai nun haiu sonnu?
         GENIA
Certu, sta matina ti tirasti finu a li novi… Ora capisciu picchì Sasà s’addummisciu sutta u tavulinu… (Riprende il gomitolo, risiede e continua a raccogliere il filo. Si sente singhiozzare. Genia si ferma ad ascoltare con attenzione, posa il gomitolo) Nun c’è vuluntà stasira (Si alza) U picciriddu s’appi arrisbigghiari (Va dal bambino, poi rientrando) Ma u picciriddu dormi a sonnu chinu… (S’ode ancora singhiozzare).
         POLITU
Ma quali picciriddu, levami sta matassa di li manu, (La moglie esegue) quantu vaiu a taliu ‘nta scala (Va, mentre Genia ripone in un cassetto lana e ferri).
         GENIA
                   (Nella direzione dell’ingresso al marito) Chi è u picciriddu ddi vicini?

S C E N A    IX
Politu – Genia  e  Sara

        POLITU
(Entrando e accompagnando Sara con una mano sulla spalla, vestita senza cura, con i capelli in disordine sotto un fasciacollo di lana)  Menzannotti!…
         GENIA
                   (Immobile, sgomenta) Saruzza…
         SARA
                   (Immobile sull’uscio, a capo chino, piange).
         POLITU
(Notando lo sgomento della moglie rimasta immobile) Genia, pripara ppi manciari, adduma arreri u furnu e…
         SARA
(Cade in ginocchio davanti ai genitori, piange a dirotto, mentre si asciugano le lacrime sia Politu che Genia, ma rimangono immobili. Suona il campanello).
         GENIA
(Corre all’uscio, rientra appena dopo con Tonino che la bacia sulla guancia).


S C E N A    X
Tonino  più  Detti

         TONINO
(Entrando) Buon Natale… (Alla vista di Sara in ginocchio si blocca, non gli viene fuori più la parola, balbetta) Sara… (E si avvicina a lei lentamente).
         POLITU
(Guarda la scena e capisce che Tonino è stato capace di perdonare, poi a Genia). L’addumasti u furnu?…
         GENIA
(Inebetita, non capisce l’insistenza di Politu, ma va verso la cucina come un’automa) Si, lu staiu addumannu…

S C E N A    XI
Sara – Toninu – Politu  e  Sasà

        SASA’
(Comparendo in pigiama, di corsa va verso la madre tra la meraviglia di tutti, le salta al collo e la bacia dieci, cento, mille volte. Poi, con voce quasi sommessa) …Mamma…  (Sospira profondamente).
         SARA
(Sempre in ginocchio, stringe il bambino forte forte ed alza gli occhi cercando Tonino per implorare il suo perdono).
         TONINO
(Mentre Politu va verso la cucina con la luce negli occhi ed esce di scena di tre quarti per meglio osservare il quadretto, si china verso Sara, la solleva da terra ed insieme stringono al petto Sasà. Le campane della Chiesa annunciano , suonando a distesa, la mezzanotte santa).



T  E  L  A