Avevo vent'anni, ero militare presso la Compagnia Genio Trasmissioni della Brigata di fanteria Pinerolo a Trani. La mattina del 15 gennaio 1968, dopo la colazione corsi in fureria, sulla scrivania del comandante trovai la Gazzetta del Mezzogiorno, la sfogliai cercando notizie del terremoto in Sicilia. Il paesino dove abitavano i miei genitori, dov'ero nato e dov'ero vissuto era nell'area del Belice, speravo di trovare qualcosa che mi rassicurasse, ma non c'era una notizia che non parlasse dei 351 morti, dei 557 feriti, dei 40.000 senza tetto. Tutto era confuso, anche le notizie diramate per radio. Provai a telefonare a casa, non rispondeva nessuno e il telefono del comune era muto. Che fare? Chiesi al mio capitano una licenza per recarmi a casa, stranamente mi fu accordata in giornata, 10 giorni più due di viaggio. Dalla Puglia non c'era un aereo per la Sicilia, e la via ferrata era un disastro. Giunsi a Palermo dopo due giorni, non c'erano le corriere per raggiungere il mio paese, feci l'autostop ed un camion mi scaricò ad un chilometro da casa mia. Il paese era deserto, tanti cornicioni a terra, qualche strada transennata; un vecchio bar-tabacchi era gremito di gente, entrai, chiesi della mia famiglia, ebbi notizia che c'era stato solo qualche ferito, l'anziano tabaccaio mi disse di aver visto mio padre in mattinata perchè era andato a rifornirsi di fiammiferi. Casa mia era sbarrata, allora pensai che i miei potevano essere in campagna dove mio padre aveva realizzato con struttura antisismica un magazzino atto a contenere derrate. Fu lì che li trovai, attorno al fuoco, assieme a tanti altri amici e conoscenti che approfittavano di quella struttura solida e nuova per evitare di dormire sulle automobili o all'addiaccio. Quello fu un inverno molto rigido, per fortuna accanto al manufatto mio padre, da buon contadino, aveva un orto, tutt'attorno era un olezzante giardino d'agrumi e all'esterno c'era un forno a legna.
Voglio riportare per intero un articolo tratto da un volume "Mezzo secolo di Sicilia" di Marco Romano e Michele Russotto:
Il terremoto del Belice
Il cretto di Burri è lì, mastodontico ed inquietante, come una colata di cemento su secoli di storia. Attorno è tutto un fiorire di arte (o presunta tale) contemporanea, spesso bizzarra, ancor più spesso inutile, se non addirittura beffarda. Ma niente e nessuno è riuscito a cancellare il ricordo di quel terribile gennaio del '68. Quando una spaventosa sequela di scosse di terremoto mise in ginocchio un'intera valle: il Belice. Le cicatrici non si sono rimarginate, alcune baracche "provvisorie" sono ancora "provvisoriamente" abitate. L'occasione della grande ricostruzione è diventata lo spunto della grande speculazione. Venti leggi, poco più di tremila miliardi (ma per il Friuli ne furono stanziati 16 mila e per l'Irpinia addirittura 25 mila) praticamente buttati al vento.
Eppure il bilancio di quel terribile '68 fu spaventoso: 81 scosse in 16 giorni (118 in un mese), 351 morti, 557 feriti, 40 mila senzatetto, quattro paesi - Gibellina, Salaparuta, Poggioreale, Montevago - letteralmente rasi al suolo (e poi ricostruiti poco più in là), altri cinque - Santa MargheritaBelice, Santa Ninfa, Partanna, Salemi, Contessa Entellina - distrutti quasi del tutto. In diecimila lasciarono la Sicilia, presi dal panico. Non tutti sarebbero poi ritornati. Eppure vent'anni dopo erano ancora ottomila le persone che vivevano nelle baracche. Trent'anni dopo sarebbero scese a poco meno di duecento. Trent'anni dopo!
Ma come andarono le cose? Il racconto rischia di sfociare nel romanzo, nell'esaltazione emotiva di immagini e situazioni. Ma tutto è tragicamente vero. La prima scossa in assoluto durò appena 4 secondi e raggiunse il settimo grado della scala Mercalli. Erano le 13,28 di domenica 14 gennaio. L'ora di pranzo. Il primo canale mandava in onda "la tv degli agricoltori", rubrica dedicata ai problemi delle campagne e dunque molto seguita in una zona dove la terra era praticamente l'unico vero sostentamento. A Palermo migliaia di tifosi si preparavano per andare allo stadio (i rosanero di Di Bella, dominatori della B, giocavano contro il fanalino Potenza, la serie A era ormai dietro l'angolo), al Fiamma faceva incassi super il film "Cenerentola" e bene andava al Nazionale "Quella sporca dozzina". Chi invece restava a casa, aspettava "Settevoci" di Pippo Baudo, appuntamento cult dell'epoca.
La scossa fu avvertita, eccome. Ma durò poco perchè facesse presagire cosa stava per accadere. Alle 14,15 il bis, alle 16,50 la terza "scrollata". La sensazione che stesse succedendo qualcosa di terribile cominciava a serpeggiare. Giungeva notizia che l'epicentro era nel triangolo Gibellina - Salaparuta - Montevago, si diceva che c'era stato già qualche crollo. A Gibellina il sindaco Nicolò Pace disponeva l'immediata sospensione dell'afflusso alle urne per l'elezione del nuovo consiglio comunale. Ma fino a sera non succedeva più nulla. Tornava un pò di serenità, erano in pochi quelli che decidevano di dormire all'aperto. I più previdenti. Perchè il finimondo sarebbe scoppiato lle 3 del 15 gennaio: nono grado della scala Mercalli (che equivale a "scossa disastrosa, con rovina totale di alcuni edifici"). Pochi secondi ed è catastrofe. Eppure, incredibile ma vero, le dimensioni della tragedia non sono subito chiare a tutti. Dovevano passare parecchie ore prima di capire cosa è successo realmente. I primi ad arrivare nei paesi della valle non sono i soccorsi, ma i giornalisti. Scriverà su "Epoca" l'inviato Pietro Zullino: "Da Montevago il veno diffonde un lezzo dolciastro, spaventoso, insopportabile. Sono i cadaveri delle persone uccise di sorpresa dal terremoto. Ma sono anche i corpi di uomini, donne e bambini che le macerie avevano sepolto senza uccidere, e che altri uomini non hanno potuto salvare per mancanza di mezzi. Imprevidenza, confusione, improvvisazione e ritardi hanno resa caotica l'opera di soccorso delle vittime del disastro, mentre le autorità tenevano inconcludenti riunioni: medicinali non distribuiti per mancanzai autorizzazione, ruspe rimaste inutilizzate a Palermo, soldati privi di badile, autocarri che viaggiavano vuoti, rifornimenti di viveri e indumenti che venivano presi d'assalto..."
Il giorno dopo, un'altra scossa, che spinge i più impauriti a lasciare con ogni mezzo possibile la Sicilia, mentre a Camporeale si aprono sul terreno dei veri e propri crateri fiammeggianti, le "maccalube". Il terremoto non da tregua, comincia il pellegrinaggio delle istituzioni: arriva il presidente della Repubblica Saragat, arriva il presidente del Consiglio Moro. Ma non viene proclamato alcun lutto nazionale e la Rai alterna le immagini del disastro alle interviste ai cantanti che si preparano per il Festival si Sanremo. Sabato 20 gennaio, mentre nel Belice si rimboccano le maniche migliaia di volontari, il consiglio dei ministri vara il primo pacchetto di provvedimenti a favore dei terremotati: mezzo milione "una tantum" per tutte le famiglie colpite, sovvenzioni fino a 500 mila lire per riparare i fabbricati, sospensione di tributi e canoni d'affitto. In tutto, 45 miliardi.
Non è finita, però. Giovedì 25 gennaio, 11 giorni dopo la prima scossa, un'altro momento di panico: la scala Mercalli torna a segnare otto gradi, si contano altri 20 morti, mentre a rendere tutto più difficile ci si mette anche la neve.
Si andrà avanti per tutto gennaio. Poi si comincerà, lentamente, faticosamente, a tornare a vivere. E partirà il carrozzone della vergogna, della bronto-burocrazia, degli scandali, dell'inefficienza. Il governo istituirà l'Ispettorato delle zone terremotate, ma si penserà a costruire impianti sportivi, centri sociali, snodi autostradali ed enormi cattedrali prima ancora delle case.
Il Belice diventerà l'Eldorado di speculatori e artisti e, naturalmente, la mafia non resterà a guardare. Secoli di storia verranno letteralmente seppelliti. Fino all'ultima delle beffe, assurta a simbolo di tanto scempio. Il giorno di Ferragosto del 1994, la gigantesca cattedrale di Gibellina, progettata dall'architetto Quaroni, si affloscia al suolo come un sacco di patate vuoto. Non era ancora neanche stata inaugurata. E a Gibellina da oltre 30 anni si prega in un auditorium.
Questa è la storia!
Alle popolazioni del Belice, ho dedicato una mia lirica in lingua siciliana. Mi dispiace per quanti avranno difficoltà nel leggerla e capirla, mi riferisco a quanti non conoscono questa lingua. Non si possono tradurre
emozioni, stati d'animo, sensazioni, e la traduzione in lingua italiana le farebbe perdere i suoi significati.
BELICI 1968
La Vaddi di lu Belici durmia...
l'ossa s'arripusava ogni criaturi,
fora, lu friddu attassava li mura
dintra, tra li linzola, la notti passava a la calura.
Li muli a la stadda lintaru di manciari,
li cani 'ntunaru un gran lamentu,
no!... nun abbaiavanu alla luna,
no!... chissu fù l'avvirtimentu,
la terra trimau!...
Primu, secunnu, terzu strantuliuni,
poi, comu curpiti a tradimentu
mureru, a unu a unu.
Trava, sulara, mura e cuvirtizzi,
tutti s'allavancaru, 'nto 'nvuluni.
La morti cu la favuci a li manu,
vigliacca!... Travagghiau tutta la notti.
Li strati chini chini di cristiani
all'apertu circavanu riparu:
- figghiu!... Gridava nna matri
circannu tra li resti d'un sularu.
Chistu è lu paisi di li piccatura?...
'N'infernu 'nta nna notti addivintau,
tuttu distruttu, - chista è nna svintura!...
Puru Cristu 'ncruci l'abbannunau...
Lu cielu si grapiu, lampi e trona;
l'acqua si l'assupparu para para
poviri nuccinteddi a peri fora
'ntisiru lu friddazzu e la furtura.
Ogni notti la passaru ddà, all'apertu,
sti figghi di sta terra marturiata.
Nna manna di frascazza era lu lettu,
puru la luna stesi ammucciata.
Passati su tant'anni di dda notti,
li picciriddi sunnu già omini granni
e ppi li strati a vuci china gridanu:
- Aviti vistu passari lu Cuvernu?
Un vecchiu ccu la varva tutta bianca,
sapennu 'nsoccu vonnu li criatura,
chiancennu dici a tutti: - Bona genti,
circallu è tempu persu, nun cci senti!
Spero di non avere rattristito nessuno, dopo 45 anni, ad ogni gennaio, il ricordo delle vittime del terremoto del Belice mi ritorna alla mente e, spesso, mi strappa una commozione.
Il giorno dopo, un'altra scossa, che spinge i più impauriti a lasciare con ogni mezzo possibile la Sicilia, mentre a Camporeale si aprono sul terreno dei veri e propri crateri fiammeggianti, le "maccalube". Il terremoto non da tregua, comincia il pellegrinaggio delle istituzioni: arriva il presidente della Repubblica Saragat, arriva il presidente del Consiglio Moro. Ma non viene proclamato alcun lutto nazionale e la Rai alterna le immagini del disastro alle interviste ai cantanti che si preparano per il Festival si Sanremo. Sabato 20 gennaio, mentre nel Belice si rimboccano le maniche migliaia di volontari, il consiglio dei ministri vara il primo pacchetto di provvedimenti a favore dei terremotati: mezzo milione "una tantum" per tutte le famiglie colpite, sovvenzioni fino a 500 mila lire per riparare i fabbricati, sospensione di tributi e canoni d'affitto. In tutto, 45 miliardi.
Non è finita, però. Giovedì 25 gennaio, 11 giorni dopo la prima scossa, un'altro momento di panico: la scala Mercalli torna a segnare otto gradi, si contano altri 20 morti, mentre a rendere tutto più difficile ci si mette anche la neve.
Si andrà avanti per tutto gennaio. Poi si comincerà, lentamente, faticosamente, a tornare a vivere. E partirà il carrozzone della vergogna, della bronto-burocrazia, degli scandali, dell'inefficienza. Il governo istituirà l'Ispettorato delle zone terremotate, ma si penserà a costruire impianti sportivi, centri sociali, snodi autostradali ed enormi cattedrali prima ancora delle case.
Il Belice diventerà l'Eldorado di speculatori e artisti e, naturalmente, la mafia non resterà a guardare. Secoli di storia verranno letteralmente seppelliti. Fino all'ultima delle beffe, assurta a simbolo di tanto scempio. Il giorno di Ferragosto del 1994, la gigantesca cattedrale di Gibellina, progettata dall'architetto Quaroni, si affloscia al suolo come un sacco di patate vuoto. Non era ancora neanche stata inaugurata. E a Gibellina da oltre 30 anni si prega in un auditorium.
Questa è la storia!
Alle popolazioni del Belice, ho dedicato una mia lirica in lingua siciliana. Mi dispiace per quanti avranno difficoltà nel leggerla e capirla, mi riferisco a quanti non conoscono questa lingua. Non si possono tradurre
emozioni, stati d'animo, sensazioni, e la traduzione in lingua italiana le farebbe perdere i suoi significati.
BELICI 1968
La Vaddi di lu Belici durmia...
l'ossa s'arripusava ogni criaturi,
fora, lu friddu attassava li mura
dintra, tra li linzola, la notti passava a la calura.
Li muli a la stadda lintaru di manciari,
li cani 'ntunaru un gran lamentu,
no!... nun abbaiavanu alla luna,
no!... chissu fù l'avvirtimentu,
la terra trimau!...
Primu, secunnu, terzu strantuliuni,
poi, comu curpiti a tradimentu
mureru, a unu a unu.
Trava, sulara, mura e cuvirtizzi,
tutti s'allavancaru, 'nto 'nvuluni.
La morti cu la favuci a li manu,
vigliacca!... Travagghiau tutta la notti.
Li strati chini chini di cristiani
all'apertu circavanu riparu:
- figghiu!... Gridava nna matri
circannu tra li resti d'un sularu.
Chistu è lu paisi di li piccatura?...
'N'infernu 'nta nna notti addivintau,
tuttu distruttu, - chista è nna svintura!...
Puru Cristu 'ncruci l'abbannunau...
Lu cielu si grapiu, lampi e trona;
l'acqua si l'assupparu para para
poviri nuccinteddi a peri fora
'ntisiru lu friddazzu e la furtura.
Ogni notti la passaru ddà, all'apertu,
sti figghi di sta terra marturiata.
Nna manna di frascazza era lu lettu,
puru la luna stesi ammucciata.
Passati su tant'anni di dda notti,
li picciriddi sunnu già omini granni
e ppi li strati a vuci china gridanu:
- Aviti vistu passari lu Cuvernu?
Un vecchiu ccu la varva tutta bianca,
sapennu 'nsoccu vonnu li criatura,
chiancennu dici a tutti: - Bona genti,
circallu è tempu persu, nun cci senti!
Spero di non avere rattristito nessuno, dopo 45 anni, ad ogni gennaio, il ricordo delle vittime del terremoto del Belice mi ritorna alla mente e, spesso, mi strappa una commozione.
Tristissimo ricordo narrato ottimamente.
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