giovedì 1 maggio 2014

LA RINUNCIA - Tratto dal romanzo GERTRUDE di Mario Scamardo - (01. Maggio. 2014)




Una “chiamata”, una “vocazione”, può provocare una commozione intensa e profonda. Affinché essa abbia valore, occorre la condizione di essere credenti. Comunicarla, creerà altre commozioni in altri soggetti, talvolta liete e talvolta dolorose. I componenti di una stessa famiglia si spaccheranno nel giudicare la scelta di un congiunto “chiamato”, da un lato si penserà alla volontà del Creatore, dall’altro si formuleranno pregiudizi, opinioni preconcette, in grado di fare assumere atteggiamenti ingiusti anche nei rapporti sociali. I convincimenti tradizionali e comuni ai più, impediscono spassionatezza e rettitudine nei giudizi. Il pregiudizio si presenta alla nostra coscienza come un messaggio, mascherato di saggezza e di verità, che stravolge la nostra ragione.


    Dopo una interminabile assemblea, tornavo dall’enopolio di cui sono il presidente del consiglio di amministrazione. Mia madre, ottantottenne, con una memoria recente andata da un po’, aveva preteso di appuntarsi su di un foglio una telefonata di una donna che chiedeva un appuntamento per il giorno successivo. Sul foglio di carta, in bella calligrafia, tre o quattro mezze frasi: giovane amica, voce pacata, domani a ora di pranzo chiamala, è importante! Capire? Se fossi stato amico della più rinomata sibilla! Per fortuna la badante rumena che la accudiva, ricordava il cognome soltanto, Gallo. Tirai fuori da un cassetto della scrivania una rubrica, scorsi tutti i Gallo, di donne erano cinque, due anziane ed una di mezza età, con le due rimaste, entrambe giovani, bastarono solo due telefonate. La prima la inoltrai ad Amalia, rispose sua madre: - Mi dispiace, è partita stamattina per Parigi.  L’altra Gallo giovane non poteva essere che Gertrude. Spesso, da Palermo o da Monreale, si immetteva sulla statale a scorrimento veloce Palermo Sciacca, la vecchia via Valeria, ed in meno di venti minuti mi veniva a trovare a San Cipirello, in cantina. Mi raccontava delle sue gioie, del suo fidanzato, dei suoi crucci di fronte alle miserie del mondo, e sfogava le sue rabbie per le tragedie umane che vedeva in giro. Io, nato un decennio dopo suo padre, cercavo ogni volta di farle capire che questo mondo è oggi un luogo migliore per nascerci di quanto non lo fosse per il passato. Quando rispose al telefono, mi chiese se fossi stato libero nella mattinata del giorno dopo, per annunciarmi una scelta importante. La invitai a venire, Gertrude era sempre deliziosa, bellissima, piacevole da ascoltare, mai logorroica, sempre concisa e sempre attenta. Per chi non sapeva della sua storia, era difficile capire che fosse stata adottata a sedici anni.
    Quando giunse in cantina, dopo un caffè, diventò austera: - “Entro in convento, mi faccio suora”. Mi creò commozione quella frase, non so se lieta o dolorosa, certamente fu violenta e penetrante, di quelle che non si dimenticano. Non trovai parole, guardai i suoi occhi, erano pieni di gioia e di serenità, ed un’altra commozione mi colse, forse violenta più della prima.
    Dovetti riprendermi prima di chiederle l’ordine scelto, la città, la data del suo ingresso in convento. Nulla le domandai sulle riflessioni, se aveva deciso della sua vita, lo aveva fatto in maniera ponderata. Mai conobbi donna di siffatto carattere! Il commiato arrivò di li a poco, davanti alla sua automobile: - Mario, sei sempre convinto che questo mondo è oggi un luogo migliore per nascerci di quanto non lo fosse per il passato?
-  Si, risposi, anche se ci sono più morti per fame di quanti non ne fecero le guerre nel passato, esistono più rimedi per sconfiggere le malattie una volta fatali e, grazie a Dio, gli orizzonti della scienza si allargano sempre di più. Amica mia, le tante Gertrude che si immolano, sono il segno tangibile della Provvidenza.
    Sorrise Gertrude, mi abbracciò e andò via.
Quando finito il noviziato, assistetti al taglio dei suoi capelli, il giorno in cui pronunciò i voti e si chiamò suor Teresa, capii che una nuova e rigogliosa pianta era nata in quell’immenso giardino dei talari.



La rinuncia

[Tratto dal romanzo “GERTRUDE” di Mario Scamardo]

    [… Per amore di Matilde, la ragazza pensò di rinunziare alla sua felicità. Il suo cuore sanguinava, divenne abulica, a fronte del suo carattere forte, si fece cogliere più volte dall’indecisione e dallo sconforto. L’unico interlocutore che le era rimasto era il Crocefisso ligneo. Con gli occhi pieni di lacrime si inginocchiò e Gli parlò.
- Anche quest’ultimo affetto tende ad esaurirsi. Mia madre è nelle Tue mani. Il dialogo con lei è diventato un triste monologo, io le faccio le domande e contemporaneamente mi do le risposte. Questa donna mi ha dato tutto, come lo ha fatto suo marito. La amo come la luce degli occhi miei, non affiderei le sue cure a nessuno al mondo, anche se la madre di Ermenegildo mi propone badanti ed infermiere, pur di farmi sposare suo figlio. Io lo amo Ermenegildo e, per tanto, non voglio incatenarlo al baratro della mia famiglia. Desidero che trovi una realtà ben più consona al suo bisogno di essere amato e riverito, anche se a pensar ciò mi duole. Sarebbe cattiveria la mia, fino a quando Matilde avrà un alito di vita, le mie attenzioni non posso dirottarle su nessun altro. Stasera gli parlerò e, per la prima volta, mentirò con lui, gli dirò che i sentimenti che provavo, non son più quelli di una volta, che non lo amo più.

Singhiozzò Gertrude, si disperò.
- Gesù, perdonami per quello che dirò, ma lo amo tanto che voglio la sua felicità, e sull’altare dell’amore che provo per mia madre, sacrifico il mio.

Ermenegildo impietrì alle parole di Gertrude, anche se quello per Matilde era un amore diverso, riconobbe che era molto più grande di quello che provava per lui. Un bacio sulla guancia ed una stretta di mano suggellarono il loro addio. Il tenente mogio mogio imboccò l’uscio e chiuse la porta dietro di se.
Furono giorni terribili quelli a seguire, più passava il tempo e più aumentava la fatica, più psicologica che fisica per Gertrude. Due volte la settimana in ospedale al Centro di Igiene Mentale, uscire e rientrare a casa era un’avventura in compagnia di una donna che era diventata un’automa, e quando, su consiglio dei sanitari la sedava, la rinchiudeva in casa e di fretta si recava a far la spesa, in farmacia, dal medico curante. Non più un parrucchiere o un maquillage, anche se la sua bellezza le consentiva ampiamente di farne a meno. Ritornò ad alzare i capelli sulla nuca e di rado fece una manicure.
Un mattino bussarono alla porta, Gertrude ravviò di corsa i suoi capelli e corse ad aprire. Don Giorgio il fattore e la signora Carolina erano venuti a far visita a Matilde.
- Da Ribera qua, vi siete scomodati, avete affrontato un viaggio così lungo.
- Nulla signorina, abbiamo saputo ed era nostro dovere venire.
- Grazie, mi ha fatto piacere rivedervi, prego, accomodatevi in salotto, accompagno io la mamma.

Quando, con lo sguardo nel vuoto e le mani tremolanti, entrò Matilde, la moglie del fattore non seppe trattenere il pianto, l’abbracciò, la strinse a se e la baciò ripetutamente, ma la donna continuò a fissare nel vuoto. Gertrude preparò il caffè e lo offrì agli ospiti. Carolina guardò la ragazza, le si leggeva negli occhi la sua fatica, il suo stress. La sua bellezza non aveva pari, ma si notava la trascuratezza nella persona.
- Signorina, noi abbiamo un figliolo che abita a Palermo, ieri sera quando siamo arrivati, ci ha pregato di rimanere qualche settimana con lui, se voi lo gradite, posso farvi compagnia tutti i giorni, vuol dire che mi godrò i nipotini la sera, quando Giorgio mi verrà a prendere, non ditemi di no, voi avete bisogno di qualche attimo di tranquillità.
            - Certo signorina, non dovete negarcelo, lo sa Iddio soltanto quanto abbiamo voluto bene a vostro padre e quanto ne vogliano a vostra madre.

Don Giorgio tirò dalla tasca una ricevuta e la porse a Gertrude.
- E’ il bonifico che ho fatto in banca, sul conto di vostra madre, è il ricavato della vendita dell’agrumeto, i conti ve li porterò appena finita la raccolta. Fate una cosa, vi accompagnerò io se volete, andate in banca ed intestatevi il conto corrente che è di vostra madre, non preoccupatevi, mia nuora e mio figlio lavorano nell’istituto bancario in questione, provvederanno loro a fare il cambio, voi dovete soltanto firmare.
- Grazie don Giorgio, io non mi ci raccapezzo in queste cose, faceva tutto mio padre prima, dopo, di tutto si è curata mia madre, ma da quando è iniziato il suo calvario, è soltanto confusione nella mia testa.
- Lasciate che mia moglie vi dia una mano, noi siamo gente alla buona, vi aiuterà a rilassarvi un pochino, e poi, scusatemi se mi impiccio dei fatti vostri, quando vi ho visto per la prima volta, sono rimasto estasiato dal vostro sorriso, non consentite agli eventi di provare a spegnerlo. Un parrucchiere vi farà ritornare ai tempi trascorsi.
- Che grand’uomo che siete don Giorgio, grazie, accetterò la compagnia della vostra signora, sento davvero il bisogno di comprare qualche vestito nuovo, ma soprattutto di parlare con qualcuno che mi risponda.

Come se una luce avesse illuminato il volto di Gertrude, la presenza del fattore la rincuorò, si sentì meno tesa e trovò la forza di elargire un sorriso.
    Ogni mattino alle otto in punto trillava il campanello e si accomodava la signora Carolina. Di tanto in tanto Matilde, come se si tuffasse nel passato, abbracciava la donna e le chiedeva del figlio e dei nipoti. Carolina con l’amore che la contraddistingueva, rispondeva alla signora, pur sapendo che da un momento all’altro avrebbe scordato ogni cosa. Gertrude, quando finiva di compiere il rito delle medicine e della pulizia personale di mamma, faceva delle piccole raccomandazioni alla signora Carolina ed approfittava per fare le commissioni, con la tranquillità di non avere lasciata sola sua madre.
    Ermenegildo chiamava di tanto in tanto al telefono, chiedeva di Matilde e, non trovando altre parole, le faceva coraggio esortandola di non trascurarsi. La ragazza rispondeva gentilmente, ringraziava, ma non faceva trapelare nulla del suo cuore straziato. La presenza di Carolina alleggerì molto lo stress di Gertrude, le consentì di pensare un po’ più a se stessa. La donna, un pomeriggio che Matilde sonnecchiava su una poltrona, chiamò la ragazza a se, la fece sedere accanto, raccolse le sue mani, le strinse dolcemente.
- Signorina Gertrude, ammiro la sua dedizione a sua madre, che la merita tantissimo, ma provi a riflettere un poco sul suo futuro. Non è negandosi la felicità che lei vorrà più bene a questa donna, affatto, provi a ripensare a quante sofferenze ha dato al suo fidanzato ed alla famiglia di lui, e provi a pensare alle sue. Io sono vecchia, mi sono accorta di quanto il suo cuore è in pena, è difficile caricarsi sulle spalle due grossi macigni, un’ammalata di aterosclerosi con l’alzheimer, con tutto quello che richiede, e la rinuncia ad un sentimento grande.
- Signora Carolina, ho riflettuto su tutto ciò, tante volte. Lei sa che io sono stata adottata, non sa forse che io ho conosciuto prima di incontrare mio padre e mia madre, stenti e patimenti, solitudine e, talvolta, disprezzo. Loro mi hanno fatto diventare una principessa, facendomi vivere una vita da favola, ed in cambio non mi hanno chiesta nulla. Se tempo e salute mi bastano, sono contenta di consacrare la mia vita all’assistenza di mia madre, è il minimo che posso fare. Ero troppo piccola quando la madre che mi ha partorito, è morta di tisi, non potevo far nulla, la miseria me l’ha portata via, ed io l’ho amata e la ricordo tutti i giorni nelle mie preghiere.

Carolina abbassò gli occhi umidi, colse la fermezza, baciò con tenerezza le mani di Gertrude e seppe dirle soltanto:
- Devi trovare tanta forza e tanto coraggio, figlia mia.

L’ultimo giorno di permanenza della moglie del fattore a casa sua, Gertrude ne approfittò per fare un giro in città. Non aveva indossato mai pantaloni, si infilò un elegante paio di jeans, infilò dentro una camicetta bianca con le maniche lunghe, strinse alla vita una bella cintura, calzò un paio di scarpe nere coi tacchi a spillo, sciolse i capelli freschi di parrucchiere e si mise in macchina. In centro, comprò una borsa da regalare alla signora Carolina ed un portafogli ed una cintura per don Giorgio. Mentre ammirava una vetrina di una boutique, nell’agenzia accanto, la stessa dove aveva prenotato il tour in Tunisia, si accorse che seduto dietro una scrivania c’era Manzur, la guida che le aveva fatto perdere la testa a Tozeur. Ebbe un momento di esitazione, stette per andar via, ma fu più forte di lei, aprì la porta ed entrò. Manzur, colto alla sprovvista, si alzò, le andò incontro inebetito e si fermò davanti a lei.
- Ciao Manzur, che ci fai tu a Palermo?
- Ciao Gertrude, come sono felice di vederti. Cosa vuoi, lavoro per questo tour operator, almeno due volte all’anno sono a Palermo.
- Potevi dirmelo, ci saremmo sentiti ed avrei fatto io la tua guida in città.
- Gertrude, sei diventata più bella, questi pantaloni mettono a nudo tutta la tua avvenenza.
- Grazie, sei gentile ed in vena di complimenti.
- Quando posso vederti?
- Quanto rimani in città?
- Una settimana.
- Bene, dammi il tuo numero di telefono, domani ti chiamerò e ci metteremo d’accordo.
- Va bene, io non ho orari da rispettare, in qualunque momento.
- Benissimo, ora devo rientrare.

Gertrude si accostò a Manzur e lo baciò sulla guancia lasciandogli sul viso il segno del rossetto.
    Dopo che il fattore e sua moglie si congedarono, la ragazza imboccò Matilde, le somministrò le medicine e la preparò per la notte. Non seppe aspettare l’indomani per telefonare al suo amico tunisino, l’aveva presa la frenesia, la sua mappa ormonale stava ritornando in entropia. Mentre si accingeva a prepararsi la cena, alzò la cornetta del telefono, compose il numero ed attese.
- Hallo?
- Sono Gertrude, hai finito di lavorare?
- Si, proprio in questo istante, dove sei?
- Sono a casa, se non hai impegni, io sto preparando per cena, se vuoi ti aspetto, preparerò per due.
- Si, certo, ma non voglio arrecarti disturbo.
- Pensi che mi disturbi passare qualche ora assieme a te? Su, prendi carta e penna, scrivi l’indirizzo e piglia un taxi, apparecchio per due.

Gertrude apparecchiò, sistemò un vaso di fiori sulla tavola e si adoperò ai fornelli. Mezz’ora dopo trillò il campanello. La ragazza corse ad aprire, sulla soglia Manzur con in mano un’ottimo vino spumante. L’abbraccio tra i due si protrasse e le loro labbra si incontrarono.
- Accomodati.
- Bella, casa tua, abiti da sola?
- No, abito con mia madre, lei non è in uno stato di salute discreto, l’alzheimer la sta trasformando lentamente in un vegetale. L’ho sistemata già per la notte.

Gertrude notò il disagio del tunisino.
- Non ti preoccupare, la sua è una malattia con cui bisogna saper convivere.

Prese per mano Manzur.
- Vieni in soggiorno, la cena è pronta.
- Grazie, desidero lavarmi le mani.

Gertrude lo accompagnò in bagno e lo attese in soggiorno.
- Ho preparato all’italiana, non so se sono stata all’altezza.
- Io ho mangiato in mezzo mondo, quella italiana è una tra le migliori cucine, la tua sarà sicuramente pari alla tua bellezza.
- Accomodati, stura lo spumante, accompagneremo la mia spigola all’acqua pazza. Per fortuna tu non sei praticante e bevi gli alcolici, dopo, per accompagnare il carpaccio di pescespada, stureremo una bottiglia di vionier che ho già messo in frigo.

Manzur eseguì con la maestria di un sommelier l’apertura dello spumante, ne versò nei due flute, ne offrì una a Gertrude, prese la mano di lei e, prima di sedersi, la baciò.
    Tra discorsi, alzate di calici e occhiatine d’intesa, la cena ebbe termine. Gertrude si alzò, prelevò dalla credenza dei bicchieri e due bottiglie di amaro, invitò il tunisino a seguirla in salotto, versò l’amaro, glielo offrì e sedette fianco a fianco con lui. Poi, come una gattina cominciò a stuzzicarlo infilandogli le sue dita tra i capelli. Un lungo bacio, poi ancora un altro, una serie infinita. Gertrude si alzò, lo prese per mano:
- Vieni, ti mostro la mia camera.
- Ma, tua madre...
- Mia madre già dorme da un pezzo, io dormo nella camera con mia madre già dagli inizi della sua malattia, non dormo nella mia da allora.

Manzur titubò un pochino, ma si lasciò trasportare dalla passione che s’era impadronita della ragazza ed anche di lui.
Appena dentro, Gertrude accostò la porta, abbracciò il ragazzo e lo baciò con grande trasporto, poi, lo fece sedere su una sponda del suo letto alla francese, aprì la cerniera dietro le sue spalle e lasciò cadere il suo vestito di seta. Non portava intimo, come il titolo di un celebre film, “Sotto il vestito niente”, e si adagiò accanto al ragazzo. Il preludio lasciava intravedere una notte di grande passione, ma Gertrude si irrigidì quando incrociò lo sguardo col suo Crocefisso ligneo dall’espressione di dolore, scattò come una molla, si alzò in piedi, raccolse il suo abito di seta e si coprì davanti. Dritta e seria, uscì dalla stanza come un’ombra, lasciando Manzur mezzo nudo ed inebetito, con gli occhi pieni di stupore. Il tunisino si ricompose con grande dignità, anche se non capì nulla di quello che stava succedendo attorno a lui. Uscì dalla camera ed incontrò Gertrude nella saletta d’ingresso. Mogio mogio, senza chiedere spiegazioni, aspettò che gli venisse aperta la porta e, senza voltarsi varcò la soglia.
Gertrude scoppiò in un pianto dirotto, si accostò alla finestra, attese che il tunisino salisse su un taxi, poi si adagiò davanti al televisore e, senza accorgersene, si addormentò. L’aver letto giorni prima una citazione di Robert Brault: “Godi delle piccole cose, perché un giorno ti guarderai indietro e ti accorgerai che erano grandi”, non le era servito a nulla! …]

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