Una “chiamata”, una “vocazione”, può provocare una commozione
intensa e profonda. Affinché essa abbia valore, occorre la condizione di essere
credenti. Comunicarla, creerà altre commozioni in altri soggetti, talvolta
liete e talvolta dolorose. I componenti di una stessa famiglia si spaccheranno
nel giudicare la scelta di un congiunto “chiamato”, da un lato si penserà alla
volontà del Creatore, dall’altro si formuleranno pregiudizi, opinioni preconcette,
in grado di fare assumere atteggiamenti ingiusti anche nei rapporti sociali. I
convincimenti tradizionali e comuni ai più, impediscono spassionatezza e
rettitudine nei giudizi. Il pregiudizio si presenta alla nostra coscienza come
un messaggio, mascherato di saggezza e di verità, che stravolge la nostra
ragione.
Dopo una
interminabile assemblea, tornavo dall’enopolio di cui sono il presidente del
consiglio di amministrazione. Mia madre, ottantottenne, con una memoria recente
andata da un po’, aveva preteso di appuntarsi su di un foglio una telefonata di
una donna che chiedeva un appuntamento per il giorno successivo. Sul foglio di
carta, in bella calligrafia, tre o quattro mezze frasi: giovane amica, voce
pacata, domani a ora di pranzo chiamala, è importante! Capire? Se fossi stato
amico della più rinomata sibilla! Per fortuna la badante rumena che la
accudiva, ricordava il cognome soltanto, Gallo. Tirai fuori da un cassetto
della scrivania una rubrica, scorsi tutti i Gallo, di donne erano cinque, due
anziane ed una di mezza età, con le due rimaste, entrambe giovani, bastarono
solo due telefonate. La prima la inoltrai ad Amalia, rispose sua madre: - Mi
dispiace, è partita stamattina per Parigi.
L’altra Gallo giovane non poteva essere che Gertrude. Spesso, da Palermo
o da Monreale, si immetteva sulla statale a scorrimento veloce Palermo Sciacca,
la vecchia via Valeria, ed in meno di venti minuti mi veniva a trovare a San
Cipirello, in cantina. Mi raccontava delle sue gioie, del suo fidanzato, dei suoi
crucci di fronte alle miserie del mondo, e sfogava le sue rabbie per le
tragedie umane che vedeva in giro. Io, nato un decennio dopo suo padre, cercavo
ogni volta di farle capire che questo mondo è oggi un luogo migliore per
nascerci di quanto non lo fosse per il passato. Quando rispose al telefono, mi
chiese se fossi stato libero nella mattinata del giorno dopo, per annunciarmi
una scelta importante. La invitai a venire, Gertrude era sempre deliziosa,
bellissima, piacevole da ascoltare, mai logorroica, sempre concisa e sempre
attenta. Per chi non sapeva della sua storia, era difficile capire che fosse
stata adottata a sedici anni.
Quando giunse in
cantina, dopo un caffè, diventò austera: - “Entro in convento, mi faccio
suora”. Mi creò commozione quella frase, non so se lieta o dolorosa, certamente
fu violenta e penetrante, di quelle che non si dimenticano. Non trovai parole,
guardai i suoi occhi, erano pieni di gioia e di serenità, ed un’altra
commozione mi colse, forse violenta più della prima.
Dovetti riprendermi
prima di chiederle l’ordine scelto, la città, la data del suo ingresso in
convento. Nulla le domandai sulle riflessioni, se aveva deciso della sua vita,
lo aveva fatto in maniera ponderata. Mai conobbi donna di siffatto carattere!
Il commiato arrivò di li a poco, davanti alla sua automobile: - Mario, sei
sempre convinto che questo mondo è oggi un luogo migliore per nascerci di
quanto non lo fosse per il passato?
- Si, risposi, anche
se ci sono più morti per fame di quanti non ne fecero le guerre nel passato,
esistono più rimedi per sconfiggere le malattie una volta fatali e, grazie a
Dio, gli orizzonti della scienza si allargano sempre di più. Amica mia, le
tante Gertrude che si immolano, sono il segno tangibile della Provvidenza.
Sorrise Gertrude, mi
abbracciò e andò via.
Quando finito il noviziato, assistetti al taglio dei suoi
capelli, il giorno in cui pronunciò i voti e si chiamò suor Teresa, capii che
una nuova e rigogliosa pianta era nata in quell’immenso giardino dei talari.
La rinuncia
[Tratto dal romanzo “GERTRUDE” di
Mario Scamardo]
[… Per amore di Matilde, la ragazza pensò di rinunziare alla sua
felicità. Il suo cuore sanguinava, divenne abulica, a fronte del suo carattere
forte, si fece cogliere più volte dall’indecisione e dallo sconforto. L’unico
interlocutore che le era rimasto era il Crocefisso ligneo. Con gli occhi pieni
di lacrime si inginocchiò e Gli parlò.
- Anche quest’ultimo
affetto tende ad esaurirsi. Mia madre è nelle Tue mani. Il dialogo con lei è
diventato un triste monologo, io le faccio le domande e contemporaneamente mi
do le risposte. Questa donna mi ha dato tutto, come lo ha fatto suo marito. La
amo come la luce degli occhi miei, non affiderei le sue cure a nessuno al
mondo, anche se la madre di Ermenegildo mi propone badanti ed infermiere, pur
di farmi sposare suo figlio. Io lo amo Ermenegildo e, per tanto, non voglio
incatenarlo al baratro della mia famiglia. Desidero che trovi una realtà ben
più consona al suo bisogno di essere amato e riverito, anche se a pensar ciò mi
duole. Sarebbe cattiveria la mia, fino a quando Matilde avrà un alito di vita,
le mie attenzioni non posso dirottarle su nessun altro. Stasera gli parlerò e,
per la prima volta, mentirò con lui, gli dirò che i sentimenti che provavo, non
son più quelli di una volta, che non lo amo più.
Singhiozzò Gertrude, si
disperò.
- Gesù, perdonami per
quello che dirò, ma lo amo tanto che voglio la sua felicità, e sull’altare
dell’amore che provo per mia madre, sacrifico il mio.
Ermenegildo
impietrì alle parole di Gertrude, anche se quello per Matilde era un amore diverso,
riconobbe che era molto più grande di quello che provava per lui. Un bacio
sulla guancia ed una stretta di mano suggellarono il loro addio. Il tenente
mogio mogio imboccò l’uscio e chiuse la porta dietro di se.
Furono
giorni terribili quelli a seguire, più passava il tempo e più aumentava la
fatica, più psicologica che fisica per Gertrude. Due volte la settimana in
ospedale al Centro di Igiene Mentale, uscire e rientrare a casa era
un’avventura in compagnia di una donna che era diventata un’automa, e quando,
su consiglio dei sanitari la sedava, la rinchiudeva in casa e di fretta si
recava a far la spesa, in farmacia, dal medico curante. Non più un parrucchiere
o un maquillage, anche se la sua bellezza le consentiva ampiamente di farne a
meno. Ritornò ad alzare i capelli sulla nuca e di rado fece una manicure.
Un mattino
bussarono alla porta, Gertrude ravviò di corsa i suoi capelli e corse ad
aprire. Don Giorgio il fattore e la signora Carolina erano venuti a far visita
a Matilde.
- Da Ribera qua, vi siete
scomodati, avete affrontato un viaggio così lungo.
- Nulla signorina,
abbiamo saputo ed era nostro dovere venire.
- Grazie, mi ha fatto
piacere rivedervi, prego, accomodatevi in salotto, accompagno io la mamma.
Quando, con
lo sguardo nel vuoto e le mani tremolanti, entrò Matilde, la moglie del fattore
non seppe trattenere il pianto, l’abbracciò, la strinse a se e la baciò
ripetutamente, ma la donna continuò a fissare nel vuoto. Gertrude preparò il
caffè e lo offrì agli ospiti. Carolina guardò la ragazza, le si leggeva negli
occhi la sua fatica, il suo stress. La sua bellezza non aveva pari, ma si
notava la trascuratezza nella persona.
- Signorina, noi abbiamo
un figliolo che abita a Palermo, ieri sera quando siamo arrivati, ci ha pregato
di rimanere qualche settimana con lui, se voi lo gradite, posso farvi compagnia
tutti i giorni, vuol dire che mi godrò i nipotini la sera, quando Giorgio mi
verrà a prendere, non ditemi di no, voi avete bisogno di qualche attimo di
tranquillità.
- Certo signorina, non dovete
negarcelo, lo sa Iddio soltanto quanto abbiamo voluto bene a vostro padre e
quanto ne vogliano a vostra madre.
Don Giorgio tirò dalla
tasca una ricevuta e la porse a Gertrude.
- E’ il bonifico che ho
fatto in banca, sul conto di vostra madre, è il ricavato della vendita
dell’agrumeto, i conti ve li porterò appena finita la raccolta. Fate una cosa,
vi accompagnerò io se volete, andate in banca ed intestatevi il conto corrente
che è di vostra madre, non preoccupatevi, mia nuora e mio figlio lavorano
nell’istituto bancario in questione, provvederanno loro a fare il cambio, voi
dovete soltanto firmare.
- Grazie don Giorgio, io
non mi ci raccapezzo in queste cose, faceva tutto mio padre prima, dopo, di
tutto si è curata mia madre, ma da quando è iniziato il suo calvario, è
soltanto confusione nella mia testa.
- Lasciate che mia moglie
vi dia una mano, noi siamo gente alla buona, vi aiuterà a rilassarvi un
pochino, e poi, scusatemi se mi impiccio dei fatti vostri, quando vi ho visto
per la prima volta, sono rimasto estasiato dal vostro sorriso, non consentite
agli eventi di provare a spegnerlo. Un parrucchiere vi farà ritornare ai tempi
trascorsi.
- Che grand’uomo che
siete don Giorgio, grazie, accetterò la compagnia della vostra signora, sento davvero
il bisogno di comprare qualche vestito nuovo, ma soprattutto di parlare con
qualcuno che mi risponda.
Come se una luce avesse
illuminato il volto di Gertrude, la presenza del fattore la rincuorò, si sentì
meno tesa e trovò la forza di elargire un sorriso.
Ogni mattino alle otto in punto trillava il campanello e si
accomodava la signora Carolina. Di tanto in tanto Matilde, come se si tuffasse
nel passato, abbracciava la donna e le chiedeva del figlio e dei nipoti.
Carolina con l’amore che la contraddistingueva, rispondeva alla signora, pur
sapendo che da un momento all’altro avrebbe scordato ogni cosa. Gertrude,
quando finiva di compiere il rito delle medicine e della pulizia personale di
mamma, faceva delle piccole raccomandazioni alla signora Carolina ed
approfittava per fare le commissioni, con la tranquillità di non avere lasciata
sola sua madre.
Ermenegildo chiamava di tanto in tanto al telefono, chiedeva di
Matilde e, non trovando altre parole, le faceva coraggio esortandola di non
trascurarsi. La ragazza rispondeva gentilmente, ringraziava, ma non faceva
trapelare nulla del suo cuore straziato. La presenza di Carolina alleggerì
molto lo stress di Gertrude, le consentì di pensare un po’ più a se stessa. La
donna, un pomeriggio che Matilde sonnecchiava su una poltrona, chiamò la
ragazza a se, la fece sedere accanto, raccolse le sue mani, le strinse
dolcemente.
- Signorina Gertrude,
ammiro la sua dedizione a sua madre, che la merita tantissimo, ma provi a
riflettere un poco sul suo futuro. Non è negandosi la felicità che lei vorrà
più bene a questa donna, affatto, provi a ripensare a quante sofferenze ha dato
al suo fidanzato ed alla famiglia di lui, e provi a pensare alle sue. Io sono
vecchia, mi sono accorta di quanto il suo cuore è in pena, è difficile
caricarsi sulle spalle due grossi macigni, un’ammalata di aterosclerosi con l’alzheimer,
con tutto quello che richiede, e la rinuncia ad un sentimento grande.
- Signora Carolina, ho
riflettuto su tutto ciò, tante volte. Lei sa che io sono stata adottata, non sa
forse che io ho conosciuto prima di incontrare mio padre e mia madre, stenti e
patimenti, solitudine e, talvolta, disprezzo. Loro mi hanno fatto diventare una
principessa, facendomi vivere una vita da favola, ed in cambio non mi hanno
chiesta nulla. Se tempo e salute mi bastano, sono contenta di consacrare la mia
vita all’assistenza di mia madre, è il minimo che posso fare. Ero troppo
piccola quando la madre che mi ha partorito, è morta di tisi, non potevo far
nulla, la miseria me l’ha portata via, ed io l’ho amata e la ricordo tutti i
giorni nelle mie preghiere.
Carolina abbassò gli
occhi umidi, colse la fermezza, baciò con tenerezza le mani di Gertrude e seppe
dirle soltanto:
- Devi trovare tanta
forza e tanto coraggio, figlia mia.
L’ultimo giorno di
permanenza della moglie del fattore a casa sua, Gertrude ne approfittò per fare
un giro in città. Non aveva indossato mai pantaloni, si infilò un elegante paio
di jeans, infilò dentro una camicetta bianca con le maniche lunghe, strinse
alla vita una bella cintura, calzò un paio di scarpe nere coi tacchi a spillo,
sciolse i capelli freschi di parrucchiere e si mise in macchina. In centro,
comprò una borsa da regalare alla signora Carolina ed un portafogli ed una
cintura per don Giorgio. Mentre ammirava una vetrina di una boutique,
nell’agenzia accanto, la stessa dove aveva prenotato il tour in Tunisia, si
accorse che seduto dietro una scrivania c’era Manzur, la guida che le aveva
fatto perdere la testa a Tozeur. Ebbe un momento di esitazione, stette per
andar via, ma fu più forte di lei, aprì la porta ed entrò. Manzur, colto alla
sprovvista, si alzò, le andò incontro inebetito e si fermò davanti a lei.
- Ciao Manzur, che ci fai
tu a Palermo?
- Ciao Gertrude, come
sono felice di vederti. Cosa vuoi, lavoro per questo tour operator, almeno due
volte all’anno sono a Palermo.
- Potevi dirmelo, ci
saremmo sentiti ed avrei fatto io la tua guida in città.
- Gertrude, sei diventata
più bella, questi pantaloni mettono a nudo tutta la tua avvenenza.
- Grazie, sei gentile ed
in vena di complimenti.
- Quando posso vederti?
- Quanto rimani in città?
- Una settimana.
- Bene, dammi il tuo
numero di telefono, domani ti chiamerò e ci metteremo d’accordo.
- Va bene, io non ho
orari da rispettare, in qualunque momento.
- Benissimo, ora devo
rientrare.
Gertrude si accostò a
Manzur e lo baciò sulla guancia lasciandogli sul viso il segno del rossetto.
Dopo che il fattore e sua moglie si congedarono, la ragazza
imboccò Matilde, le somministrò le medicine e la preparò per la notte. Non
seppe aspettare l’indomani per telefonare al suo amico tunisino, l’aveva presa
la frenesia, la sua mappa ormonale stava ritornando in entropia. Mentre si
accingeva a prepararsi la cena, alzò la cornetta del telefono, compose il
numero ed attese.
- Hallo?
- Sono Gertrude, hai
finito di lavorare?
- Si, proprio in questo
istante, dove sei?
- Sono a casa, se non hai
impegni, io sto preparando per cena, se vuoi ti aspetto, preparerò per due.
- Si, certo, ma non
voglio arrecarti disturbo.
- Pensi che mi disturbi
passare qualche ora assieme a te? Su, prendi carta e penna, scrivi l’indirizzo
e piglia un taxi, apparecchio per due.
Gertrude apparecchiò,
sistemò un vaso di fiori sulla tavola e si adoperò ai fornelli. Mezz’ora dopo
trillò il campanello. La ragazza corse ad aprire, sulla soglia Manzur con in
mano un’ottimo vino spumante. L’abbraccio tra i due si protrasse e le loro
labbra si incontrarono.
- Accomodati.
- Bella, casa tua, abiti
da sola?
- No, abito con mia
madre, lei non è in uno stato di salute discreto, l’alzheimer la sta
trasformando lentamente in un vegetale. L’ho sistemata già per la notte.
Gertrude notò il disagio
del tunisino.
- Non ti preoccupare, la
sua è una malattia con cui bisogna saper convivere.
Prese per mano Manzur.
- Vieni in soggiorno, la
cena è pronta.
- Grazie, desidero
lavarmi le mani.
Gertrude lo accompagnò in
bagno e lo attese in soggiorno.
- Ho preparato
all’italiana, non so se sono stata all’altezza.
- Io ho mangiato in mezzo
mondo, quella italiana è una tra le migliori cucine, la tua sarà sicuramente
pari alla tua bellezza.
-
Accomodati, stura lo spumante, accompagneremo la mia spigola all’acqua pazza.
Per fortuna tu non sei praticante e bevi gli alcolici, dopo, per accompagnare
il carpaccio di pescespada,
stureremo una bottiglia di vionier che
ho già messo in frigo.
Manzur
eseguì con la maestria di un sommelier l’apertura dello spumante, ne versò nei
due flute, ne offrì una a Gertrude, prese la mano di lei e, prima di sedersi,
la baciò.
Tra discorsi, alzate di calici e occhiatine
d’intesa, la cena ebbe termine. Gertrude si alzò, prelevò dalla credenza dei
bicchieri e due bottiglie di amaro, invitò il tunisino a seguirla in salotto,
versò l’amaro, glielo offrì e sedette fianco a fianco con lui. Poi, come una
gattina cominciò a stuzzicarlo infilandogli le sue dita tra i capelli. Un lungo
bacio, poi ancora un altro, una serie infinita. Gertrude si alzò, lo prese per
mano:
- Vieni, ti
mostro la mia camera.
- Ma, tua
madre...
- Mia madre
già dorme da un pezzo, io dormo nella camera con mia madre già dagli inizi
della sua malattia, non dormo nella mia da allora.
Manzur
titubò un pochino, ma si lasciò trasportare dalla passione che s’era
impadronita della ragazza ed anche di lui.
Appena
dentro, Gertrude accostò la porta, abbracciò il ragazzo e lo baciò con grande
trasporto, poi, lo fece sedere su una sponda del suo letto alla francese, aprì
la cerniera dietro le sue spalle e lasciò cadere il suo vestito di seta. Non
portava intimo, come il titolo di un celebre film, “Sotto il vestito niente”, e
si adagiò accanto al ragazzo. Il preludio lasciava intravedere una notte di
grande passione, ma Gertrude si irrigidì quando incrociò lo sguardo col suo
Crocefisso ligneo dall’espressione di dolore, scattò come una molla, si alzò in
piedi, raccolse il suo abito di seta e si coprì davanti. Dritta e seria, uscì
dalla stanza come un’ombra, lasciando Manzur mezzo nudo ed inebetito, con gli
occhi pieni di stupore. Il tunisino si ricompose con grande dignità, anche se
non capì nulla di quello che stava succedendo attorno a lui. Uscì dalla camera
ed incontrò Gertrude nella saletta d’ingresso. Mogio mogio, senza chiedere
spiegazioni, aspettò che gli venisse aperta la porta e, senza voltarsi varcò la
soglia.
Gertrude
scoppiò in un pianto dirotto, si accostò alla finestra, attese che il tunisino
salisse su un taxi, poi si adagiò davanti al televisore e, senza accorgersene,
si addormentò. L’aver letto giorni prima una citazione di Robert Brault: “Godi delle piccole cose, perché un giorno
ti guarderai indietro e ti accorgerai che erano grandi”, non le era servito
a nulla! …]
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Grazie!
Ottima narrazione, bravo!
RispondiEliminaNarrato eccellente, complimenti!
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