sabato 19 aprile 2014

AMORI A TEMPO - [Tratto da L'ORRENDO FASCINO DELLE MUTAZIONI di Mario Scamardo] (19/04/2014)

















 
          Ogni uomo è uno specchio animato in cui, senza tregua, si riflettono i molteplici aspetti del mondo esteriore e si ridestano incessantemente nuovi mondi di sensazioni, di immagini, di pensieri, di sentimenti.
Se percorriamo le vie cittadine una miriade di cose colpiscono i nostri sensi, e giungono alla nostra coscienza: il sereno del mattino, il via vai della gente, un semaforo che lampeggia, il suono delle campane, il grido di uno strillone, e operai, e massaie al mercato, lo stridere dei freni di un’automobile; qui il fermarsi di un capannello, là un fuggi fuggi, un bimbo che piange, un campanile che svetta, il profumo di un’aiuola, il discorso di un amico incontrato per strada; e intanto ci torna alla mente il genitore sofferente, e il petto ci trema, pensiamo alle sue parole con un affetto nuovo, subito ritorniamo col pensiero a quanto abbiamo appreso dalla vita, acquisiamo sicurezza, misuriamo la nostra forza, attestiamo in un attimo la gioconda voluttà di salire fino alla vetta della nostra ascesa, e sorridiamo al lieto avvenire che la nostra fantasia ci dipinge dinanzi. Fantasia e sogno sono due valori di cui l’uomo non può fare a meno. E’ con l’animo fremente di sensazioni, di affetti, di speranze, di pensieri, di propositi, che ci mettiamo nelle condizioni di ascoltare e di interiorizzare.
Quanti potrebbero esattamente riportare ciò che hanno visto, udito, notato, pensato, immaginato, sperato, fantasticato, dopo avere attraversato la città? Ma se tra i fatti infiniti che si sono affacciati alla nostra coscienza, uno ci ha profondamente colpito, non solo non lo dimenticheremo, ma lo sentiremo vivere in noi, con una esaltazione di gioia, o con terrore ed angoscia, che esso dominerà ogni altra impressione e per lungo tempo non riusciremo a cacciarlo nonostante i nostri sforzi.
Quando nell’anima sboccia una speranza lieta, nobile, da rendere tutto attorno illuminato, si sente il bisogno di comunicarla a chi ci vuol bene. Spesso raccogliamo i nostri pensieri intorno ad un tema, la nostra mente s’illumina di un’idea, e veniamo presi da un’irrequietezza gioiosa e fremiamo per la smania di correre a casa, per scrivere quello che abbiamo nel cuore, che ci freme dentro, che vuole essere detto, che ci angustierebbe se non lo dicessimo.
Le immagini luminose, i sentimenti di impeto veemente, i fantasmi di compiuta bellezza, vanno partoriti dalla mente come creatura nuova dall’alvo materno, vanno trasferiti al braccio, alla mano, ad un foglio.
La forza che crea, come una nuova vita, una realtà fantastica, un mondo di figure, di fatti, di immagini, di sentimenti, di affetti, è l’Arte che consente a tutti di comprendere l’opera più bella.
La poesia è il linguaggio esaltato della fantasia e del sentimento; la prosa invece ha sempre, in generale, alcunchè di più pacato, di più mediato; è l’espressione naturale di chi esercita la facoltà della ragione. Essa è il linguaggio proprio della scienza e della filosofia.
        L’essere umano muta nel tempo, come l’orientamento del galletto di latta in cima al camino, ad ogni mutar della brezza. Gli incontri, le vicende alterne della vita, le passioni, i dolori e le gioie, i falsi orgogli, i facili arricchimenti, le ricerche di un’opulenza incontrollata, creano sovente condizioni per metamorfosi continue e, spesso, generano i grandi vortici, dove i percorsi diventano irreversibili e le vie sono senza ritorno. Davanti a ciò bisogna interrogarsi sulla fine che hanno fatto sia la fantasia che il sogno. I pensieri non si rincorrono più in un caotico susseguirsi di immagini sbiadite, non si inseguono e non si confondono, sovrapponendosi gli uni agli altri. L’uomo non si vede più bambino ai piedi di una erta nell’intento di risalirla, rimane immobile, ed il tempo che passa non viene più scandito. La sommità non verrà mai raggiunta e non si presenta la necessità di scappare da nessun destino che comunque lo piglierà per mano e lo condurrà all’oblio della ragione ed alla morte. L’uomo non lotterà disperatamente contro qualcosa che non conosce e, l’unica immagine che sarà in grado di fissare, gli darà l’incertezza di una lotta utile.

        Lo scrittore argentino Adolfo Bioy Casares, considerato uno dei maestri della letteratura latinoamericana, trattando in un suo capolavoro il sogno e la fantasia, così diceva: “Ho cercato di sfuggire al fantastico, ma mi ha subito riacciuffato”.

[Tratto dal romanzo “L’orrendo fascino delle mutazioni” di Mario Scamardo]

Amori a tempo

La “Domus”, l’agenzia immobiliare di Guido Mura, diretta da Rosetta, si era trasferita al centro della Palermo dei capitali, in un piano ammezzato di un meraviglioso palazzo di fine ‘800, in via Libertà. Cinquecento metri quadri, con una decina di vani adibiti ad uffici, un grande salone con pareti affrescate usato per le riunioni, mobili in stile, ed in fondo ad un corridoio, l’accesso ad una segreteria particolare e, quindi, ad un grande studio ammobiliato con gusto, con le pareti ricoperte da oli ed acqueforti, un paralume in stile rococò sulla grande scrivania, e un grande fascio di rose gialle in un vaso di cristallo; quello era il posto di lavoro di Rosetta.
Almeno trenta persone, tra dattilografi, segretarie e tecnici lavoravano nell’agenzia, ed un telefono dopo l’altro squillavano, dando l’idea della mole di lavoro che vi si sviluppava.
Fu una sera ad un ricevimento in una delle ville liberty di Mondello che Rosetta conobbe una nobildonna veneta, quarantenne, con due occhioni color del cielo, capelli tirati sempre su da luccicanti pettinini tempestati di strass ed un corpo da fare invidia ad una diciottenne. Tutti la chiamavano Benedicta, ma dopo solo due incontri Rosetta la chiamò affettuosamente Beba. Le due donne si vedevano quasi tutte le sere, ed era Rosetta che andava a trovarla nella sua villa, e tutte le volte le portava un fascio di rose scarlatte che Beba gradiva sistemare nei tanti vasi del suo immenso salotto. Spesso Rosetta non rientrava a casa, rimaneva ospite della nobildonna per la notte e, talvolta, per più notti consecutive. Beba era titolare di una agenzia immobiliare nella capitale, e spesso le due donne si recavano a Roma e vi permanevano per interi fine settimana. Nulla di più normale in tutto ciò, fino a quando, dopo un piccolo diverbio tra le due, Beba le trasferì alcune quote societarie della sua agenzia. A Palermo a qualcuno vennero dei sospetti, la nobildonna veneta non aveva bisogno di denaro e Rosetta avrebbe dovuto accumularne tanto per poter comprare delle quote societarie, cosa c’era sotto? Nulla di più elementare, Beba era lesbica e si era innamorata perdutamente di Rosetta che ricambiava quel sentimento. Dopo il trasferimento della seconda trance di quote, avvenuto dopo una furibonda lite, le due donne, per festeggiare il loro riappacificarsi decisero di fare insieme un viaggio in India che durò oltre trenta giorni. Beba era diventata gelosa, ogni tanto scopriva che Rosetta la tradiva con parecchi uomini e tanto esulava dai loro patti, fino al punto che una sera, la pedinò e la vide entrare a casa di un noto professionista palermitano e ne uscì solo a notte fonda. La nobildonna andò su tutte le furie, incaricò un investigatore privato ed ebbe dopo poco tempo foto e filmati delle sue performances con uomini diversi. Una sera Rosetta si recò nella villa di Beba, le porse il fascio di rose, l’aiutò a sistemarle nei vasi e, dopo una cenetta a lume di candela, venne invitata a visionare delle cassette in televisione. Rosetta assistette silenziosa ed immobile alla visione, e quando si accese la luce nel salotto, con una flemma che non era stata mai la sua, disse a Beba: - Amica mia, perché ti formalizzi di tanto, io ti ho dato quello che potevo, ricordati che non sono io la lesbica, tu sei una bella donna ed io, con immensa passione, ti ho dato me stessa, non dimenticare che sono femmina e non ti tradirei mai con un'altra donna, tanto deve bastarti! – La fissò attendendo una reazione ma l’altra non fiatò, le buttò le braccia al collo e la baciò appassionatamente sulle labbra. Ora era Rosetta che faceva la spola tra Palermo e Roma, tre quarti dell’agenzia della capitale erano diventati suoi, conquistati sul campo, impegnando soltanto il suo corpo; non era mai stata uno stinco di santo e, se nella sua mente era maturata l’idea che doveva strappare a Beba anche l’ultimo quarto di quella agenzia, per averla, sarebbe passata anche sul cadavere di sua madre. E fu così, circa un anno dopo Beba le trasferì l’intera agenzia, in seguito ad una lite furibonda al limite delle percosse, e quell’atto segnò pochi giorni dopo la fine del loro idillio. Rosetta chiese un periodo di riflessione e di meditazione che durò all’infinito, poi, con una calma socratica, le comunicò che i suoi sentimenti erano crollati. Beba le telefonò mille volte, la inseguì per ogni dove, la supplicò, la minacciò, si disperò, la colpì la depressione e fu per lei un esaurimento nervoso. Imbottita di sedativi Beba si trascurò nella persona, vestì in maniera trasandata, invecchiò repentinamente, ed i suoi occhi color del cielo si velarono di grigio per sempre. Rosetta non chiese mai di Beba, non andò mai a trovarla, non ebbe per lei un solo pensiero e, quando gli amici comuni gliene parlavano, lei li ignorava e cambiava discorso.
 Due anni dopo Guido Mura, proprietario della “Domus”, innamoratissimo di Rosetta, dopo avere consumato interminabili periodi di passione con lei, per vivere, finì a fare il commesso in un negozio di tessuti della città; Rosetta, tra le lenzuola, gli aveva strappato l’agenzia immobiliare che l’uomo aveva tirato su con enormi sacrifici.              

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