Tratto dal romanzo IL FASCINO DELLE MUTAZIONI
di Mario Scamardo
IL GIUDICE PALAGONIA INCASTRA LA PANTERA
[...... Lei in un tailleur color granata con
bottoni dorati, capelli raccolti sulla nuca, le mani scarne e curatissime,
entrò accompagnata da un legale e salutò chinando lievemente il capo. Ad un
cenno di Mario si sedette e rispose alle domande di rito, poi fissò negli occhi
il magistrato, non era un implorare aiuto, nemmeno la ricerca di compassione,
era una voglia di sfida, sfida alle istituzioni, di sfida alla società, al
mondo che la circondava. Mario stava per porgere la prima domanda, ma il
difensore intervenne dicendo che la sua cliente si sarebbe avvalsa della
facoltà di non rispondere, il magistrato prese nota di ciò e le fece firmare il
verbale. Rosetta chiese a Mario di potere avere un colloquio da sola, senza il
legale e senza l’agente verbalizzante, Mario fece cenno di si, aspettò che
l’avvocato uscisse e, con un cenno, fece allontanare l’agente, rimasto solo con
lei disse: - signora, senza la presenza del suo legale, l’interrogatorio non
può avere luogo. – Rosetta accennò un sorriso e, dopo un attimo di silenzio: -
io ho un gran rispetto per il tuo lavoro, anche perché le voci sulla tua
incorruttibilità corrono per tutta la città. Tu sei colui che mi ha offerto
l’opportunità di conservare integra la mia onestà, dignità, e, forse, anche la
mia semplicità. Ho scoperto con te l’amore, la nobiltà dei sentimenti, senza
secondi fini, dove tutto è stato dover dare senza mai nulla chiedere, dove non
esiste la ricerca dell’opulenza fine a se stessa. Che mondo eccezionale è il
tuo!.. – Mario stava per parlare e lei poggiò due dita sulle labbra di lui –
non parlare, lascia che lo faccia io, questa città mi ha preso, società di
bestie che si sbranano, incapaci di razionalizzare, animali di branco, vige la
sola legge del più forte, ed è più forte chi possiede tanto intelletto e ancor
di più denaro contemporaneamente.
A me mancavano i soldi, e con ogni mezzo li
ho avuti, li gestisco, e per averne ancora minaccio, truffo, e, qualora
occorresse, non esiterei un solo istante a sparare su chiunque volesse
sbarrarmi la strada. Il denaro è la chiave che apre tutte le porte, corrompe,
travolge, sommerge, e tu sei fuori da questo mondo, lo combatti, credimi, è difficile
che tu possa vincere!... Una città intera è connivente, più sali i gradini
della società borghese e più sei dentro al sistema; più pensi ad una borghesia
staccata, disinteressata, spesso salottiera, fatta di grandi professionisti, di
ottimi artisti, di banchieri, di uomini e donne di chiesa, più sei vicino al
connubio intelletto-denaro, più vicino ai poteri forti, più vicino al più
forte! Nello stesso esercito, tutti hanno la stessa divisa, ma troppe sono le
spie, i traditori, e tutti sono corrotti, travolti dal fascino borghese del
denaro! – Mario, che pur era abituato a sentire discorsi perversi e
delinquenziali, restò sconcertato di fronte a tanta freddezza, si aspettava una
richiesta d’aiuto, la proposta d’un patto con impegno a tornare sulla retta
via, era preparato sinanco alla recita di una scena patetica, che gli
strappasse un accordo, invece, lei era lì, cruda, fredda, determinata,
minacciosa, altera. Quanto male si era insediato in lei, quanta perfidia
l’aveva invasa?.. La cupidigia aveva trasformato un angelo in un demonio, la
sete di potere aveva annientato in lei ogni sentimento!.. Non amava e non
odiava, una razionalità perversa, fredda, il cinismo era diventato il suo
padrone, era riuscita a dominare ogni emozione. Della sua bellezza ne aveva
fatto mercimonio e la usava come merce di scambio per il denaro, per il potere.
Mario non battè ciglio, la lasciò finire e le lanciò la sfida del silenzio, poi,
distese una mano e disse: - Il nostro colloquio è finito, quella è la porta!
Il magistrato per mesi lavorò sodo, non
si dette respiro, raccolse prova su prova, ascoltò testi, non avvicinò anima
viva e, quando non mancò alcuna prova ed ebbe ogni riscontro, trascinò in Corte
di Assise Bianchi Rosetta ed Ettore Mondelli.
Il dibattimento fu lungo, estenuante,
centinaia di testimoni, migliaia di prove, a decina gli alibi, smontati tutti.
Rosetta
in aula non perdette un briciolo della sua alterigia e, più l’accusa la
inchiodava alle sue responsabilità, assieme al suo compagno, più lei lanciava
sfide, con la certezza che alla fine, come in ogni tempo, l’avrebbe spuntata
corrompendo a destra e a manca. Indossava una gonna amaranto, una camicia
bianca ed una giacca di colore azzurro, aveva i capelli raccolti dietro la nuca
e a trattenerli un paio di pettinini di tartaruga madreperlati. La sua bocca
era dipinta dello stesso colore della gonna.
Molti furono i messaggi che arrivarono
all’orecchio di Mario: promesse di denaro, avanzamenti di carriera,
trasferimenti immobiliari, minacce per la vita dei genitori e per la sua, ed
ogni messaggio sembrava sortire l’effetto contrario, la posizione dei due
imputati si aggravava ogni giorno di più. Quando l’ultima prova fu provata,
l’ultimo sforzo di Mario, una lunga e circostanziata requisitoria, alla fine
della quale, prima di chiedere l’applicazione delle pene previste dai codici,
si fermò, fissò negli occhi Rosetta, per voler cogliere in lei, anche se il
peggiore, l’ultimo dei ricordi. La “Pantera” lo fissò anch’essa, tirò i pettini
dai capelli che le scesero sulle spalle, li ravviò con ambo le mani
all’indietro, tiro un lungo sospiro e chinò lievemente il capo. Mario si girò verso
la Corte e chiese per ambedue il massimo della pena. I lupi famelici, ammalati
di rabbia, vanno abbattuti!
Alla
difesa si alternarono tre avvocati, poi concluse con auliche frasi l’avvocato
Azzurri. La Corte si chiuse in camera di consiglio e dopo sei ore rientrò in
aula. Rosetta ed Ettore Mondelli erano già provati per la estenuante attesa, si
coglieva nei loro volti la stanchezza, ma la “Pantera” era ancora altera,
sguardo fiero, impettita si alzò ed ascoltò la lettura della sentenza.
Gli imputati furono condannati a
quindici anni di reclusione, senza attenuanti alcune. Il silenzio piombò
nell’aula e poi, man mano, i primi brusii, i primi commenti, il dubbio non
aveva sfiorato le menti dei magistrati giudicanti. Palermo era abituata a
sentenze che assolvevano per insufficienza di prove, specialmente per la natura dei personaggi che erano saliti sul
banco degli imputati. Cosa stava cambiando?
Quando l’aula giudiziaria fu sgombra,
Mario tolse la sua toga, si avvicinò al
banco vuoto degli imputati, dove un momento prima stava seduta Rosetta, lo
fissò e nel suo pensiero affiorò la dottrina di Buddha, e la teoria filosofica
della reincarnazione estrapolata dall’Induismo. Nascere, morire e rinascere
continuamente è la triste sorte degli uomini, è la ruota dell’esistenza, è il
dolore. La causa del perpetuarsi della vita dei sensi sta nei desideri dei
piaceri, degli onori, delle ricchezze e di qualunque altro bene illusorio.
Bisogna spezzare la ruota dell’esistenza ed eliminare i desideri per mezzo
delle privazioni e della meditazione. – L’amore è un ponte – dice Buddha –
perciò non costruirci sopra una casa! Chi si attacca a qualcosa nella vita,
troverà sofferenza perché tutto passa, tutto è apparenza. - Raccolse le sue
carte dal suo scranno, chiuse la sua borsa e a piccoli passi raggiunse il
porticato del palazzo di giustizia. Il magistrato Palagonia nella sua
lunghissima requisitoria, durata circa otto ore, non fece mai cenno al
contenuto di un fascicolo inserito nel faldone attinente la “Pantera”. Erano
delle carte riguardanti un tentato omicidio sortito come epilogo di un’orgia,
l’ultima di una lunga serie, consumata in Palermo, in un appartamento del
centro storico. Mario non se la sentì di umiliare più di tanto la donna; quanto
aveva in possesso bastava e soverchiava per incastrare gli imputati alle loro
responsabilità. La vita di Rosetta era già diventata un inferno, rimuovere la
mota che le stava attorno sarebbe stato soltanto morboso, un atto di
accanimento inutile, buono solo a far scandalo sulla stampa e ad aggiungere
disperazione e vergogna a quella che sicuramente viveva la sua genitrice.
Rosetta era diventata amica di una certa Mara, un’insegnante di industrie
agrarie, donna alquanto bella e affascinante quanto perversa. Si erano
costruite assieme tanti segreti, uscivano e si accompagnavano con uomini
facoltosi, quasi sempre sposati con prole e dalle situazioni familiari
risaputamene serene. Mara era legata ad un negoziante palermitano mentre
Rosetta consumava i suoi rapporti con un amico dello stesso negoziante. Tante
le notti brave e tante le giornate passate in quell’appartamento attiguo al
negozio. La perversione di Mara aveva indotto Rosetta a consumare spesso delle
orge in quella casa e, man mano che il tempo trascorreva, il numero dei
partecipanti aumentava. A letto, per rendere più eccitante l’orgia, Mara
pretese che le prestazioni sessuali fossero precedute da minacce, da atti
brutali e, quindi, tra le lenzuola
fecero
comparsa un paio di pistole cariche. Tutto andò bene fino a quando accidentalmente
partirono dei colpi che attraversarono il corpo di Mara. Una corsa disperata
contro la morte a sirene spiegate verso l’ospedale salvò miracolosamente la
donna. Ora saltavano i legami tra i partecipanti; ognuno cercò di salvare se
stesso, fu aperta una indagine di polizia, fu istruito un processo. Chi
premette il grilletto? Gli spari furono preterintenzionali? Difficile
ricostruire i fatti davanti a quattro mentitori, ognuno accusava l’altro e
tutti negavano che il loro menage a quattro fosse mai stato consumato. Dal
processo, che al tempo fece epoca, venne fuori che il negoziante amico di Mara
le sparò intenzionalmente. Rosetta, che pure era stata prima attrice nel teatro
delle operazioni, ebbe modo di defilarsi e rese, in una udienza a porte chiuse,
una testimonianza falsa, ma creduta attendibile dalla Corte di Assise, contro
il negoziante, per proteggere la “dignità” sua e dell’amica, ciò inchiodò l’uomo
a delle responsabilità che invece erano di tutti e quattro i partecipanti
all’orgia e fu lo stesso condannato a molti anni di reclusione per tentato
omicidio. Il rimorso colse Rosetta, i suoi nervi non ressero a lungo, lottò
contro le depressioni e gli esaurimenti. La ragazza ebbe paura, per un poco di
tempo si spostò, prima negli Stati Uniti, poi nel bellunese dove aveva delle
amiche, spesso andò in crisi ricorrendo a psicologi e psichiatri, ma mai trovò
il coraggio di recarsi dal magistrato e dire che la sua era stata una
testimonianza falsa che aveva sbattuto in galera un innocente. Odiò, almeno apparentemente,
la sua amica che le faceva tornare alla mente i fatti; Mara, per paura di
ritorsioni, si allontanò anch’essa da Palermo. Quando il piccolo imprenditore,
che si era invaghito alla follia di lei, informato di questo fatto increscioso,
che ormai faceva parte del suo turbinoso passato, le chiese, con le dovute
cautele, se conoscesse Mara, Rosetta ebbe un attimo di esitazione, il suo volto
diventò nero, la sua espressione fu di smarrimento, si innervosì e molto
infastidita rispose di non averla mai conosciuta. L’uomo capì tutto, conosceva
il negoziante, per essere stato suo cliente, che scontava in galera una
condanna ingiusta. Era tanta la passione che lo legava alla donna che fece
finta di nulla, tirò dalla tasca della giacca una scatola contenente un paio
d’orecchini con due preziose gocce d’ambra e gliele regalò. Rosetta con disinvoltura le indossò e, con la vanità
che la contraddistingueva, si guardò allo specchio e riprese l’espressione di
sempre.
Di solito, quando un processo si chiude e la
Corte accoglie le tue tesi, colleghi, avvocati, cancellieri, si congratulano
con te, ti ringraziano per avere dato il tuo contributo alla Giustizia. Non
c’era nessuno ad aspettare Mario davanti all’aula, eppure il processo era uno
dei più importanti, nessuno per i corridoi, neppure i giornalisti, nessuno
sotto il porticato, solo i due agenti in borghese della sua scorta. Aveva
colpito duro il giudice Palagonia, aveva incastrato la “Pantera”! Era così tanto il timore che la
gente aveva dei delinquenti testè condannati? Ma a Palermo era il periodo dei
grandi attentati. Il giovane magistrato nei giorni successivi, vide i suoi
colleghi che, in maniera quasi furtiva, entravano nel suo studio e, quasi
sottovoce, si complimentavano per l’esito del suo lavoro. Solo il Procuratore
fu soddisfatto e ampiamente lo dimostrò convocandolo nel suo ufficio e davanti
a tutti, senza ipocrisia, lo lodò e gli promise ulteriori incarichi delicati.
Mario capì che qualcosa al palazzo di giustizia non andava per il giusto verso,
chiese al Procuratore un piccolo periodo di riposo e si trasferì in campagna
con i suoi genitori.
La
campagna lo rilassava, le lunghe passeggiate a caccia con suo padre e la
lettura dei vecchi romanzi popolari che lo immergevano nella Palermo del settecento.
Mario non vide più Rosetta, venne
trasferita in una casa di pena del nord. In Corte di Assise di Appello le pene
vennero confermate, e lo stesso avvenne in Corte di Cassazione. Al giudice
Palagonia il procuratore affidò altri casi scottanti e la sua vita diventò
quella di un monaco di clausura, i suoi capelli cominciarono ad essere
brizzolati e non ebbe più una vita privata. Otto anni dopo il processo alla
“Pantera” si dimise dalla magistratura ed esercitò la professione di avvocato
penalista.....]
§§§§§§
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