lunedì 1 ottobre 2018

IL GIUDICE PALAGONIA INCASTRA LA PANTERA - 01 ottobre 2018











Tratto dal romanzo IL FASCINO DELLE MUTAZIONI
di Mario Scamardo


IL GIUDICE PALAGONIA INCASTRA LA PANTERA


     [......   Lei in un tailleur color granata con bottoni dorati, capelli raccolti sulla nuca, le mani scarne e curatissime, entrò accompagnata da un legale e salutò chinando lievemente il capo. Ad un cenno di Mario si sedette e rispose alle domande di rito, poi fissò negli occhi il magistrato, non era un implorare aiuto, nemmeno la ricerca di compassione, era una voglia di sfida, sfida alle istituzioni, di sfida alla società, al mondo che la circondava. Mario stava per porgere la prima domanda, ma il difensore intervenne dicendo che la sua cliente si sarebbe avvalsa della facoltà di non rispondere, il magistrato prese nota di ciò e le fece firmare il verbale. Rosetta chiese a Mario di potere avere un colloquio da sola, senza il legale e senza l’agente verbalizzante, Mario fece cenno di si, aspettò che l’avvocato uscisse e, con un cenno, fece allontanare l’agente, rimasto solo con lei disse: - signora, senza la presenza del suo legale, l’interrogatorio non può avere luogo. – Rosetta accennò un sorriso e, dopo un attimo di silenzio: - io ho un gran rispetto per il tuo lavoro, anche perché le voci sulla tua incorruttibilità corrono per tutta la città. Tu sei colui che mi ha offerto l’opportunità di conservare integra la mia onestà, dignità, e, forse, anche la mia semplicità. Ho scoperto con te l’amore, la nobiltà dei sentimenti, senza secondi fini, dove tutto è stato dover dare senza mai nulla chiedere, dove non esiste la ricerca dell’opulenza fine a se stessa. Che mondo eccezionale è il tuo!.. – Mario stava per parlare e lei poggiò due dita sulle labbra di lui – non parlare, lascia che lo faccia io, questa città mi ha preso, società di bestie che si sbranano, incapaci di razionalizzare, animali di branco, vige la sola legge del più forte, ed è più forte chi possiede tanto intelletto e ancor di più denaro contemporaneamente.


 A me mancavano i soldi, e con ogni mezzo li ho avuti, li gestisco, e per averne ancora minaccio, truffo, e, qualora occorresse, non esiterei un solo istante a sparare su chiunque volesse sbarrarmi la strada. Il denaro è la chiave che apre tutte le porte, corrompe, travolge, sommerge, e tu sei fuori da questo mondo, lo combatti, credimi, è difficile che tu possa vincere!... Una città intera è connivente, più sali i gradini della società borghese e più sei dentro al sistema; più pensi ad una borghesia staccata, disinteressata, spesso salottiera, fatta di grandi professionisti, di ottimi artisti, di banchieri, di uomini e donne di chiesa, più sei vicino al connubio intelletto-denaro, più vicino ai poteri forti, più vicino al più forte! Nello stesso esercito, tutti hanno la stessa divisa, ma troppe sono le spie, i traditori, e tutti sono corrotti, travolti dal fascino borghese del denaro! – Mario, che pur era abituato a sentire discorsi perversi e delinquenziali, restò sconcertato di fronte a tanta freddezza, si aspettava una richiesta d’aiuto, la proposta d’un patto con impegno a tornare sulla retta via, era preparato sinanco alla recita di una scena patetica, che gli strappasse un accordo, invece, lei era lì, cruda, fredda, determinata, minacciosa, altera. Quanto male si era insediato in lei, quanta perfidia l’aveva invasa?.. La cupidigia aveva trasformato un angelo in un demonio, la sete di potere aveva annientato in lei ogni sentimento!.. Non amava e non odiava, una razionalità perversa, fredda, il cinismo era diventato il suo padrone, era riuscita a dominare ogni emozione. Della sua bellezza ne aveva fatto mercimonio e la usava come merce di scambio per il denaro, per il potere. Mario non battè ciglio, la lasciò finire e le lanciò la sfida del silenzio, poi, distese una mano e disse: - Il nostro colloquio è finito, quella è la porta!


        Il magistrato per mesi lavorò sodo, non si dette respiro, raccolse prova su prova, ascoltò testi, non avvicinò anima viva e, quando non mancò alcuna prova ed ebbe ogni riscontro, trascinò in Corte di Assise Bianchi Rosetta ed Ettore Mondelli.

        Il dibattimento fu lungo, estenuante, centinaia di testimoni, migliaia di prove, a decina gli alibi, smontati tutti.

Rosetta in aula non perdette un briciolo della sua alterigia e, più l’accusa la inchiodava alle sue responsabilità, assieme al suo compagno, più lei lanciava sfide, con la certezza che alla fine, come in ogni tempo, l’avrebbe spuntata corrompendo a destra e a manca. Indossava una gonna amaranto, una camicia bianca ed una giacca di colore azzurro, aveva i capelli raccolti dietro la nuca e a trattenerli un paio di pettinini di tartaruga madreperlati. La sua bocca era dipinta dello stesso colore della gonna.

        Molti furono i messaggi che arrivarono all’orecchio di Mario: promesse di denaro, avanzamenti di carriera, trasferimenti immobiliari, minacce per la vita dei genitori e per la sua, ed ogni messaggio sembrava sortire l’effetto contrario, la posizione dei due imputati si aggravava ogni giorno di più. Quando l’ultima prova fu provata, l’ultimo sforzo di Mario, una lunga e circostanziata requisitoria, alla fine della quale, prima di chiedere l’applicazione delle pene previste dai codici, si fermò, fissò negli occhi Rosetta, per voler cogliere in lei, anche se il peggiore, l’ultimo dei ricordi. La “Pantera” lo fissò anch’essa, tirò i pettini dai capelli che le scesero sulle spalle, li ravviò con ambo le mani all’indietro, tiro un lungo sospiro e chinò lievemente il capo. Mario si girò verso la Corte e chiese per ambedue il massimo della pena. I lupi famelici, ammalati di rabbia, vanno abbattuti!

Alla difesa si alternarono tre avvocati, poi concluse con auliche frasi l’avvocato Azzurri. La Corte si chiuse in camera di consiglio e dopo sei ore rientrò in aula. Rosetta ed Ettore Mondelli erano già provati per la estenuante attesa, si coglieva nei loro volti la stanchezza, ma la “Pantera” era ancora altera, sguardo fiero, impettita si alzò ed ascoltò la lettura della sentenza.

        Gli imputati furono condannati a quindici anni di reclusione, senza attenuanti alcune. Il silenzio piombò nell’aula e poi, man mano, i primi brusii, i primi commenti, il dubbio non aveva sfiorato le menti dei magistrati giudicanti. Palermo era abituata a sentenze che assolvevano per insufficienza di prove, specialmente per  la natura dei personaggi che erano saliti sul banco degli imputati. Cosa stava cambiando?



        Quando l’aula giudiziaria fu sgombra, Mario  tolse la sua toga, si avvicinò al banco vuoto degli imputati, dove un momento prima stava seduta Rosetta, lo fissò e nel suo pensiero affiorò la dottrina di Buddha, e la teoria filosofica della reincarnazione estrapolata dall’Induismo. Nascere, morire e rinascere continuamente è la triste sorte degli uomini, è la ruota dell’esistenza, è il dolore. La causa del perpetuarsi della vita dei sensi sta nei desideri dei piaceri, degli onori, delle ricchezze e di qualunque altro bene illusorio. Bisogna spezzare la ruota dell’esistenza ed eliminare i desideri per mezzo delle privazioni e della meditazione. – L’amore è un ponte – dice Buddha – perciò non costruirci sopra una casa! Chi si attacca a qualcosa nella vita, troverà sofferenza perché tutto passa, tutto è apparenza. - Raccolse le sue carte dal suo scranno, chiuse la sua borsa e a piccoli passi raggiunse il porticato del palazzo di giustizia. Il magistrato Palagonia nella sua lunghissima requisitoria, durata circa otto ore, non fece mai cenno al contenuto di un fascicolo inserito nel faldone attinente la “Pantera”. Erano delle carte riguardanti un tentato omicidio sortito come epilogo di un’orgia, l’ultima di una lunga serie, consumata in Palermo, in un appartamento del centro storico. Mario non se la sentì di umiliare più di tanto la donna; quanto aveva in possesso bastava e soverchiava per incastrare gli imputati alle loro responsabilità. La vita di Rosetta era già diventata un inferno, rimuovere la mota che le stava attorno sarebbe stato soltanto morboso, un atto di accanimento inutile, buono solo a far scandalo sulla stampa e ad aggiungere disperazione e vergogna a quella che sicuramente viveva la sua genitrice. Rosetta era diventata amica di una certa Mara, un’insegnante di industrie agrarie, donna alquanto bella e affascinante quanto perversa. Si erano costruite assieme tanti segreti, uscivano e si accompagnavano con uomini facoltosi, quasi sempre sposati con prole e dalle situazioni familiari risaputamene serene. Mara era legata ad un negoziante palermitano mentre Rosetta consumava i suoi rapporti con un amico dello stesso negoziante. Tante le notti brave e tante le giornate passate in quell’appartamento attiguo al negozio. La perversione di Mara aveva indotto Rosetta a consumare spesso delle orge in quella casa e, man mano che il tempo trascorreva, il numero dei partecipanti aumentava. A letto, per rendere più eccitante l’orgia, Mara pretese che le prestazioni sessuali fossero precedute da minacce, da atti brutali e, quindi, tra le lenzuola

fecero comparsa un paio di pistole cariche. Tutto andò bene fino a quando accidentalmente partirono dei colpi che attraversarono il corpo di Mara. Una corsa disperata contro la morte a sirene spiegate verso l’ospedale salvò miracolosamente la donna. Ora saltavano i legami tra i partecipanti; ognuno cercò di salvare se stesso, fu aperta una indagine di polizia, fu istruito un processo. Chi premette il grilletto? Gli spari furono preterintenzionali? Difficile ricostruire i fatti davanti a quattro mentitori, ognuno accusava l’altro e tutti negavano che il loro menage a quattro fosse mai stato consumato. Dal processo, che al tempo fece epoca, venne fuori che il negoziante amico di Mara le sparò intenzionalmente. Rosetta, che pure era stata prima attrice nel teatro delle operazioni, ebbe modo di defilarsi e rese, in una udienza a porte chiuse, una testimonianza falsa, ma creduta attendibile dalla Corte di Assise, contro il negoziante, per proteggere la “dignità” sua e dell’amica, ciò inchiodò l’uomo a delle responsabilità che invece erano di tutti e quattro i partecipanti all’orgia e fu lo stesso condannato a molti anni di reclusione per tentato omicidio. Il rimorso colse Rosetta, i suoi nervi non ressero a lungo, lottò contro le depressioni e gli esaurimenti. La ragazza ebbe paura, per un poco di tempo si spostò, prima negli Stati Uniti, poi nel bellunese dove aveva delle amiche, spesso andò in crisi ricorrendo a psicologi e psichiatri, ma mai trovò il coraggio di recarsi dal magistrato e dire che la sua era stata una testimonianza falsa che aveva sbattuto in galera un innocente. Odiò, almeno apparentemente, la sua amica che le faceva tornare alla mente i fatti; Mara, per paura di ritorsioni, si allontanò anch’essa da Palermo. Quando il piccolo imprenditore, che si era invaghito alla follia di lei, informato di questo fatto increscioso, che ormai faceva parte del suo turbinoso passato, le chiese, con le dovute cautele, se conoscesse Mara, Rosetta ebbe un attimo di esitazione, il suo volto diventò nero, la sua espressione fu di smarrimento, si innervosì e molto infastidita rispose di non averla mai conosciuta. L’uomo capì tutto, conosceva il negoziante, per essere stato suo cliente, che scontava in galera una condanna ingiusta. Era tanta la passione che lo legava alla donna che fece finta di nulla, tirò dalla tasca della giacca una scatola contenente un paio d’orecchini con due preziose gocce d’ambra e gliele regalò. Rosetta  con disinvoltura le indossò e, con la vanità che la contraddistingueva, si guardò allo specchio e riprese l’espressione di sempre.

      Di solito, quando un processo si chiude e la Corte accoglie le tue tesi, colleghi, avvocati, cancellieri, si congratulano con te, ti ringraziano per avere dato il tuo contributo alla Giustizia. Non c’era nessuno ad aspettare Mario davanti all’aula, eppure il processo era uno dei più importanti, nessuno per i corridoi, neppure i giornalisti, nessuno sotto il porticato, solo i due agenti in borghese della sua scorta. Aveva colpito duro il giudice Palagonia, aveva incastrato la  “Pantera”! Era così tanto il timore che la gente aveva dei delinquenti testè condannati? Ma a Palermo era il periodo dei grandi attentati. Il giovane magistrato nei giorni successivi, vide i suoi colleghi che, in maniera quasi furtiva, entravano nel suo studio e, quasi sottovoce, si complimentavano per l’esito del suo lavoro. Solo il Procuratore fu soddisfatto e ampiamente lo dimostrò convocandolo nel suo ufficio e davanti a tutti, senza ipocrisia, lo lodò e gli promise ulteriori incarichi delicati. Mario capì che qualcosa al palazzo di giustizia non andava per il giusto verso, chiese al Procuratore un piccolo periodo di riposo e si trasferì in campagna con i suoi genitori.

La campagna lo rilassava, le lunghe passeggiate a caccia con suo padre e la lettura dei vecchi romanzi popolari che lo immergevano nella Palermo del settecento.

        Mario non vide più Rosetta, venne trasferita in una casa di pena del nord. In Corte di Assise di Appello le pene vennero confermate, e lo stesso avvenne in Corte di Cassazione. Al giudice Palagonia il procuratore affidò altri casi scottanti e la sua vita diventò quella di un monaco di clausura, i suoi capelli cominciarono ad essere brizzolati e non ebbe più una vita privata. Otto anni dopo il processo alla “Pantera” si dimise dalla magistratura ed esercitò la professione di avvocato penalista.....]



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