Mario Scamardo
...QUANDO LA MISERIA
(Tratto dal romanzo GERTRUDE di Mario Scamardo)
Gertrude. Perché ad una bambina gracile e timorosa avevano appioppato quel nome? E’ come se le avessero caricato sulle esili spallucce un masso di un quintale. Non ne esisteva un’altra che si chiamasse così a Monreale[1], ed anche l’anziana nonna, l’unica persona che le era rimasta al mondo, la chiamava come tutti, con un vezzeggiativo, in dialetto, Cilitrudda.
Suo padre non l’aveva conosciuto, aveva lasciato la famiglia messa su due anni prima, alla sua nascita, ed era fuggito in Germania con un’altra donna. L’aveva tirata su con grandi stenti, attaccata fino a due anni ad un seno sempre più vuoto la sua mamma, dividendo con la vecchia genitrice qualche piatto di minestra dove c’erano più verdure, che la donna raccoglieva nei pressi del lavatoio pubblico e nei viottoli, che pasta. Era una donna bellissima con due occhi profondi, due mani grandi, ed un neo sulla guancia sinistra, come quelli posticci che le dame della corte di Versailles, solevano attaccarsi alle gote.
Non aveva un lavoro la mamma di Cilitrudda, un giorno aiutava a pulire le olive alle mogli dei contadini vicini di casa, un altro lavava il grano da portare al mulino, un altro ancora pigiava l’uva con i piedi, e tutti le donavano una manciata dei frutti della terra. Per poter dare qualche proteina alla bambina le toccava pulire ogni settimana il pollaio d’un vicino e, quando le andava bene, le regalavano due uova, allora il suo volto diventava meno tirato e riusciva anche a sorridere.
La sua casa era sterrata, senza pavimentazione, ed il tetto era fatto in canne e tegole. Le estati erano freschissime, ma gli inverni erano gelidi. Tutto l’anno, prima che imbrunisse, o al mattino presto, la mamma di Cilitrudda girava per viottoli nelle campagne della periferia e portava a casa una bella fascina di sterpi, dei sarmenti e, quando era fortunata, trovava un ramo che il vento aveva buttato giù dagli eucalipti.
Cilitrudda aveva compiuto sei anni e la vecchia nonna, da un vecchio vestito nero di cotone, era riuscita a tirarle fuori un grembiulino; da un lembo di lenzuolo aveva ricavato un collettino bianco, e fu per la bambina il primo giorno di scuola. Era così piccola e macilenta che, pur seduta in prima fila, sui banchi di guareschiana memoria, dalla cattedra si riuscivano a malapena a vedere i due occhietti vispi e profondi.
La madre ebbe in dono da una anziana signora un telaio e tutta l’attrezzatura per ricamare, e quando lo ricevette le fu raccomandato di insegnare sin da subito alla bambina l’arte di Aracne[2], mandandola nei pomeriggi da una brava ricamatrice perché imparasse. L’anziana donna sapientemente le raccomandò: - Non farla crescere senza né arte né parte, non fare come tua madre che non ti ha insegnato niente, io guardo sempre la bambina, e mi fa tanta pena, ricorda, impara l’arte e mettila da parte, il proverbio antico non sbaglia mai!
Cilitrudda finì la prima elementare, e nei pomeriggi, anziché giocare come tutti gli altri bambini, andò dalla signorine Margherita e Vincenzina Morello, due zitellone grasse e gonfie come due zampogne, ma con le mani abili sui telai, due ricamatrici con una ventina di allieve. Margherita prese a cuore Cilitrudda, le insegnò il punto catenella, il punto croce, il punto corallo, il punto erba, il punto raso, il mezzopunto e il punto smerlo e i filati da usare: fili di seta, lino, cotone, lana; cordoncini, nastri, fettucce, filati sintetici; e a volte addirittura oro e argento. La bambina, anche se con difficoltà imparava e la signorina Morello la seguiva dandole consigli di volta in volta.
Cilitrudda era minuta, ma era intelligente e capiva che prima imparava, prima poteva dare una mano d’aiuto alla sua mamma che ogni giorno era sempre più stanca.
Ottobre arrivò carico di pioggia e, quando la bambina tornò dal suo primo giorno di scuola in seconda elementare, trovò la sua mamma a letto che tossiva e si copriva la bocca con un panno. La vecchia nonna soffiava sul fuoco per far bollire la pentola ed ogni tanto con una paletta di ferro tirava della brace e la depositava nel braciere posto accanto al letto.
- Mamma, ti senti male?
- No, è solo un raffreddore, tu mangia e poi copriti bene, con questo tempaccio non andare dalla signorina Morello, statti seduta accanto a me, fammi compagnia.
Sentì la madre tossire convulsamente, si avvicinò al letto, ma la nonna l’allontanò.
- L’influenza è contagiosa, specialmente per i bambini, vatti a sedere a tavola, fra due minuti ti darò la minestra, poi ti metti accanto al braciere.
La nonna consegnò un altro panno pulito alla madre, avvolse il primo in un pezzo di carta e lo infilò nel secchio dell’immondizia.
Era il primo giorno d’ottobre e sembrava febbraio, il freddo entrava nelle ossa e dal tetto cadeva gelo.
Il buio arrivò presto, la nonna rimise sul fuoco la pentola e diede a Cilitrudda una scodella di fagioli ed un pezzetto di pane raffermo.
- Buttaglielo dentro a pezzetti, vedrai che diventa buono, oggi tua madre non è uscita, non è andata ad aiutare il fornaio per le pulizie, e il pane è quello d’ieri, sbriciolalo nei fagioli.
Cilitrudda voleva dare un bacio alla mamma prima di mettersi a letto, le due candele che illuminavano quell’unico vano tremolavano per le correnti d’aria che provenivano dal tetto, la nonna aggiunse una vecchia coltre al suo lettino.
- La tua mamma dorme, vieni ti darò io due baci.
Le rimboccò le coperte, la baciò più volte sulla fronte e sedette accanto a lei tenendole una mano. Quando la bambina si addormentò, scoppiò in un pianto dirotto, si spostò al capezzale della figlia e le accarezzò la fronte.
Fu una notte tremenda, i lampi sembravano volessero sgangherare il tetto, tuonava e qualche goccia d’acqua cadeva sul pavimento sterrato facendolo diventare un pantano. L’anziana signora toccò ancora una volta la fronte della figlia, la febbre era altissima e le pose sopra un panno bagnato. La donna tossì ancora e si asciugò a fatica la bocca insanguinata. La malnutrizione aveva permesso al bacillo di Koch di proliferare nei suoi polmoni, quasi carenti erano state le cure e quell’ambiente malsano che era la sua casa, la stavano spegnendo.
Gertrude si ritrovò nel pomeriggio del due di ottobre dietro un carro funebre, lei, l’anziana nonna e cinque o sei vecchierelle di quella malsana periferia. Lungo il percorso dalla chiesa al cimitero, un vecchio si staccò dal corteo, raccolse due dalie da un’aiola sul ciglio della strada e, quando il carro si fermò, le pose sulla bara e si segnò. Erano gli unici due fiori che la mamma di Gertrude aveva ricevuto durante la sua permanenza sulla terra.
Quella bambina di sette anni non versò una lacrima, era intontita, il suo volto era senza espressione e quando a casa la nonna le mise davanti il piatto con i fagioli rimasti la sera prima, Gertrude lo respinse.
- Nonna, io non ho fame, mangiali tu.
Si alzò dalla seggiola, si mise sulle spalle lo scialle di nonna e prima di varcare la soglia:
- Nonna, vado dalle signorine Morello.
- Non far tardi che è quasi buio.
- Solo il tempo di parlare con la signorina Margherita.
Uscì avendo cura di non sbattere la porta che cigolava.
La signorina Margherita si era affezionata a Gertrude, e quando la vide comparire all’imbrunire, lo stesso giorno che aveva accompagnato sua madre al camposanto, l’abbracciò e la baciò.
- Siediti, ti preparo una tazza di cioccolata e due biscotti.
- No, grazie signorina, non ho fame, sono venuta per un altro motivo.
- Parla piccina, cosa posso fare per te?
-Tanto, signorina Margherita, io e nonna da due giorni non mangiamo e l’unico piatto di fagioli, avanzo di due giorni, lo rifiutiamo ambedue, nella speranza che lo mangi l’altra. Pigliatemi a servizio da voi, mi curerò della casa, vi farò le commissioni, ricamerò le cose più semplici per voi, ma fate si che pure quella vecchietta di mia nonna non abbia a morire anche lei di tisi.
La bambina scoppiò in un pianto dirotto e la signorina Margherita l’abbracciò e la strinse al suo enorme seno singhiozzando.
- Ti aiuteremo noi, verrai da domani a servizio da noi, mia sorella Vincenzina sembra un po’ burbera, ma non ti preoccupare, stasera le parlerò io, vedrai che non troverà nulla da ridire. Ora aspetta, ti preparo la cioccolata e i biscotti, poi ti darò qualcosa da portare alla nonna, e da domani verrai da noi, mezza giornata ti servirà per affinare l’arte del ricamo, l’altra metà ti servirà per le faccende di casa e le commissioni.
Si allontanò la signorina Margherita e tornò di li a poco con una tazza di cioccolata e due grossi biscotti fatti in casa, poi preparò un cesto con della pasta dentro, un grosso pezzo di formaggio, quattro uova, due grappoli di uva rossa dagli acini grandi quanto le olive da mensa ed un pane rotondo ricoperto di semi di sesamo.
- Portateli via piccina, fai mangiare la tua nonna.
Si chinò, baciò in fronte Gertrude.
- E’ quasi buio, vai di fretta a casa.
- Grazie signorina, domattina passerò da scuola per dire che non frequenterò più le lezioni, poi di corsa sarò qui a fare le pulizie.
Gertrude prese il cesto e si incamminò verso casa.
Si sentì importante la bambina, aveva trovato lavoro e poteva sfamare l’anziana nonna. Quando chiuse la porta di casa sua, si sedette accanto al fuoco e guardando il letto di mamma vuoto si mise a piangere. Tra i singhiozzi disse:
- Nonna, domani svegliami al canto del gallo, prima che sia ora di andare a scuola devo recuperare un poco di legna per il fuoco, poi comincerà la mia prima giornata di lavoro.
Raccontò a nonna del suo accordo con la signorina Morello, ma presto si addormentò sulla sedia.
[1] Cittadina della Sicilia occidentale, a circa 8 km da Palermo, su un picco che domina la Conca d'Oro. La località conosce fama internazionale grazie al celebre Duomo, gioiello dell'architettura medievale siciliana. Dopo Piazza dei Miracoli a Pisa, il duomo di Monreale, gioiello di arte bizantina, è il monumento più noto al mondo.
DUOMO DI MONREALE
[2] Nella
mitologia greca, una giovane tessitrice abile da sfidare Atena, protettrice
delle ricamatrici. La dea tesseva un arazzo raffigurante gli dei e le dee in
tutto il loro splendore, Aracne ne realizzò uno che raffigurava i loro amori.
Furiosa per la perfezione dell'opera trasformò Aracne in un ragno condannandola
a tessere continuamente il suo filo.
Se volete, lasciate un severo commento. Grazie
Sembra un racconto tratto dal libro "Cuore"
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