mercoledì 10 novembre 2021

PROF. GIUSEPPE CARONIA un illustre jatino....quasi dimenticato - Ognuno è cattivo profeta in patria! 10.11.2021

 


 

CARONIA, Giuseppe. - Nacque a San Cipirello (Palermo), da Francesco e Rosalia Rizzuto, il 15 maggio 1884. Laureatosi in medicina e chirurgia presso l'università di Palermo nel 1911, cominciò subito a esercitare la professione come medico condotto delle borgate di Palermo e, in qualità di batteriologo, prese parte alla campagna anticolerica siciliana del 1911, venendo per ciò decorato con la medaglia di benemerito della salute pubblica. Dal 1911 al 1913 fu assistente volontario e interno ospedaliero nella clinica pediatrica dell'università di Palermo, diretta da Rocco Jemma. Quando lo Jemma assunse la direzione della clinica pediatrica dell'università di Napoli, nel 1913, il Caronia lo seguì e fu nominato aiuto. Nel 1915, conseguita la libera docenza in clinica pediatrica, divenne primario presso l'ospedale dei bambini Pausillipon di Napoli e, in tale veste, organizzò il preventorio per bambini a Villa Santolvio.

Durante la prima guerra mondiale partecipò al conflitto come colonnello della Croce rossa italiana. Tornato a Napoli nel 1919, assunse nuovamente la carica di primario presso l'ospedale Pausillipon, che mantenne per tre anni. Nel 1922 partecipò al concorso per la cattedra di clinica pediatrica dell'università di Roma, riuscendo primo della terna designata.

Sostenitore del partito popolare e amico personale di L. Sturzo, il prof. Caronia fu tra i firmatari della "Denuncia Donati" contro E. De Bono del 9 dic. 1924. Nel giugno del 1925 fu presentata contro di lui una denuncia anonima, in seguito alla quale il ministro della Pubblica Istruzione Pietro Fedele (Presidente del Consiglio Benito Mussolini), istituiva una commissione di inchiesta "sull'andamento scientifico, amministrativo, disciplinare e morale della Clinica Pediatrica dell'Università di Roma".

Nonostante l'infondatezza degli addebiti dimostrata anche in sede giudiziaria, il 21 maggio 1927, l'avv. Latour, delegato del ministro, presentò al Consiglio superiore della Pubblica Istruzione un formale atto di accusa contro il Caronia., nel quale si poneva tra l'altro una serie di quesiti riguardanti l'attività del Caronia ben oltre l'ambito clinico-universitario e miranti ad appurare se egli fosse stato imboscato durante la guerra; se avesse ottenuto la cattedra di Roma per influenza dell'on. A. Anile; se avesse svolto attività politica contro il regime; se, con maltrattamenti e minacce di licenziamenti, avesse ostacolato l'adesione del personale della clinica ai sindacati fascisti; se avesse in qualche modo recato offesa al duce e se la sua clinica pediatrica fosse un covo di sovversivi.

Il consiglio censurò il Caronia per abituali mancanze ai doveri di ufficio e atti ledenti la dignità del professore, e conseguentemente il 23 ott. 1927 il ministro Fedele lo trasferì dall'università di Roma a quella di Napoli, alla direzione, dal 1° genn. 1928, della cattedra di malattie infettive dell'infanzia.

Nel 1929 fu chiamato come professore di ricerche mediche presso l'università di San Francisco, negli Stati Uniti; lo stesso anno sposò Maria Sindoni, già sua collaboratrice a Roma. Tornato nel 1930 alla direzione della cattedra di malattie infettive dell'infanzia dell'università di Napoli, vi rimase per quattro anni: nel 1935 fu infatti trasferito a Roma come professore incaricato della cattedra di malattie infettive dell'università e direttore del reparto di malattie infettive degli Ospedali riuniti di Roma.

Nel 1944, dopo la liberazione di Roma, il Caronia. divenne rettore di quella università; nel 1945, in seguito alla legge che imponeva il reinserimento di chi era stato allontanato dal proprio posto di lavoro per motivi politici, venne reintegrato come professore ordinario alla cattedra di clinica pediatrica dell'università di Roma, che in tale occasione venne sdoppiata in 1 cattedra, affidata a lui, e II cattedra affidata a G. Frontali. Il Caronia mantenne inoltre, nella stessa università, l'incarico dell'insegnamento di malattie infettive.

Il prof.  Caronia fu un appassionato cultore della clinica pediatrica, in particolare nel campo delle malattie infettive dell'infanzia. Autore di numerose pubblicazioni scientifiche, condusse importanti studi sull'etiologia, la terapia e la profilassi di forme morbose provocate da vari agenti patogeni.

Risalgono al primo periodo napoletano le importanti osservazioni, effettuate nella clinica diretta dallo Jemma, in collaborazione con Giovanni Di Cristina, sulla leishmaniosi viscerale o Kala-azar, per cui propose e sperimentò la terapia con antimonio; e l'inizio delle ricerche su nuovi metodi di vaccinoterapia delle infezioni tifiche e paratifiche e della brucellosi: queste ultime indagini, proseguite poi a Roma e ancora a Napoli, consentirono a Caronia di dimostrare l'efficacia dei vaccini lisizzati e di realizzare una delle più valide terapie antitifiche prima dell'avvento degli antibiotici. Il Caronia prestò ancora particolare interesse alle malattie esantematiche - scarlattina, varicella, morbillo - e riuscì a coltivare su terreni speciali e sulla membrana corion-allantoidea di embrione di pollo i virus della varicella e del morbillo. Mise inoltre a punto la vaccinoterapia della febbre mediterranea e impiegò nella terapia della pertosse vaccini a forte concentrazione e a dosi elevate. Tra gli scritti più importanti del prof. Caronia si ricordano: Ricerche sierologiche sulla leishtnaniosi infantile, in La Pediatria, XXI (1913), pp. 801-817; Stato di anafilassi e antianafilassi nella tubercolosi infantile e i suoi rapporti con la terapia tubercolinica, ibid., XXII (1914), pp. 95-103; La vaccinoterapia nelle malattie infettive dell'infanzia, in Atti del IX congresso pediatrico italiano, Trieste 1920, pp. 167-193; Prolusione al corso di clinica pediatrica, in La Pediatria, XXXI (1923), pp. 289-309; Nuove osservazioni sul virus varicelloso, in Atti del IV congresso internazionale di patologia comparata, Roma 1939.

Nel 1946 il Caronia venne eletto membro dell'Assemblea costituente per la Democrazia Cristiana. Nel 1948 si dimise dalla carica di rettore dell'università di Roma Nel 1948 e nel 1953 fu eletto deputato per la Democrazia Cristiana, e fu inoltre consigliere comunale di Roma dal 1948 al 1956. Terminata la sua attività didattica,  per raggiunti limiti di età, nel 1955, il 2 giugno dello stesso anno fu decorato con decreto del presidente della Repubblica con diploma di I classe ai benemeriti della scuola, della cultura e dell'arte. Nello stesso periodo venne decorato con la medaglia della libertà con palme di bronzo degli Stati Uniti di America.

Ricoprì la carica di presidente della Lega italiana per la lotta contro la poliomielite e altre malattie da virus, e fu membro di numerose associazioni italiane ed estere, tra cui la Pontificia Accademia delle Scienze.

Si dedicò successivamente ad attività assistenziali di carattere sociale istituendo una colonia di elioterapia per bambini convalescenti da forme tubercolari e, a Velletri (Roma), una comunità per bambini bisognosi, coadiuvato dalla moglie.

Morì a Roma il 15 gennaio 1977.

Il Caronia ha lasciato un libro di memorie, pubblicato postumo, Con Sturzo e con De Gasperi: “Uno scienziato nella politica”, Roma 1979.

Di lui il Dottor Francesco Belli, medico condotto e ufficiale sanitario di San Giuseppe Jato e dirigente del Consultorio pediatrico fisso dell’O.N.M.I (Opera Nazionale Maternità ed Infanzia) per i Comuni di San Cipirello e San Giuseppe Jato, tanto scrisse: Tra i cittadini benemeriti dobbiamo illustrare il Prof. Caronia Giuseppe di Francesco, che anche noi consideriamo come nostro cittadino.

Il prf. Giuseppe Caronia nato a San Cipirello nel 1884, si laureò nell’Università di Palermo nel 1911. Nello stesso anno prese parte alla campagna anticolerica in Sicilia, meritando la medaglia di benemerito della salute pubblica. Dedicatosi agli studi pediatrici, conseguì la libera docenza in tale disciplina, per titoli nel 1915.

Assistente alla cattedra di clinica pediatrica dell’Università di Palermo, tenuta dal compianto Prof. Giovanni Di Cristina, nel 1922 prese parte al concorso della Cattedra di Clinica pediatrica dell’Università di Roma e riuscì primo all’unanimità.

Con rammarico è stata appresa la sua passione, per inframmettenze politiche, ed abbiamo gioito per la sua bella vittoria e il riconoscimento dei suoi indiscutibili meriti, tanto che con Decreto Reale, è stato chiamato all’Università di Napoli a dirigere una nuova cattedra di malattie infettive infantili, creata appositamente per lui.

Notevoli sono i suoi studi e le ricerche nel campo delle malattie infettive dell’infanzia, (leishmaniosi, tifo, febbre militense, pertosse e malattie esantematiche) che hanno dato un prezioso contributo alla loro conoscenza eziologica e alla loro terapia.

E’ socio ordinario della Accademia pontificia delle scienze; socio dell’Accademia medico-chirurgica di Napoli e di quella di Roma, membro del Consiglio direttivo della società italiana di Pediatria. I suoi meriti sono anche apprezzati all’estero, tanto che nel 1931 è stato chiamato a dettar lezioni nell’Università di San Francisco in California.

La sua modestia e bontà è pari alla sua profonda cultura.

Ognuno è cattivo profeta in patria!
Luminare della scienza, la sua scoperta ha salvato la vita di milioni di bambini. Nel paese che gli ha dato i natali, su un campione di 200 persone solo 3, e tra i più giovani, ricordano il nome, solo perchè gli hanno intitolato una scuola. Il prof Caronia odiò il suo paese natale, fece seppellire i suoi cari altrove e le sue ultime volontà furono quelle di non volere essere seppellito nel suo paese natio. Il luminare e la di lui consorte furono seppelliti nella chiesa dei SS. Pietro e Paolo  che sorge lungo la strada Provinciale via Pirandello; si ritiene che la chiesa di San Pietro, come viene comunemente chiamata dal popolo, sia la più antica chiesa cristiana di Taormina.

 

sabato 5 giugno 2021

Dall’Alfa all’Omega - IL SAGGIO DELLA MONTAGNA . 05.06.2021

 

 


I Racconti del Borgo

Mario Scamardo

Dall’Alfa all’Omega
IL SAGGIO DELLA MONTAGNA

 

Un’erta difficile è quella che porta al Piano delle Giumente, così è chiamato il tratto di pianura a quota seicento metri a ridosso della Pizzuta, montagna che si affaccia alla Kumeta, altro picco di pari altezza, che al tramonto ricopre col suo mantello d’ombra l’abitato di Piana degli Albanesi.

In fondo al pianoro, un sentiero tortuoso tra sterpi, rovi ed agavi enormi disseminate qua e là, che conduce ad un anfratto di difficile accesso, dentro l’anfratto ancora un anfratto ed una serie di grotte sempre più buie, percorribili con difficoltà, che sembra attraversino tutta la montagna per affacciarsi poi dalla parte opposta.

La roccia è calcarea con evidente colorazione rossastra, dovuta alla ferrettizzazione; la grotta presenta, al suo interno, particolari spaccature, e la presenza di formazioni molto antiche del tipo stalagmitico han fatto si che il posto divenisse meta continua di speleologi e studiosi di ogni sorta che hanno percorso tutti i cunicoli che collegano la serie di grotte, rilevando notizie sull’aspetto litologico e l’azione dell’acqua nei tempi, la flora e la fauna, e quanto può riuscire utile per la conoscenza del sito.

Piano delle Giumente è un posto da capre, bisogna talvolta arrampicarsi per lunghi tratti, e i caprai o i pecorai conoscono bene il luogo, stante che all’ingresso dell’anfratto è stata ricavata, nella pietra friabile, una piccola depressione atta a raccogliere quel filo d’acqua che fuoriesce dalla spaccatura di una roccia, consentendo l’abbeverata ad animali e pastori, che di quell’acqua apprezzano purezza e freschezza.

In ogni parte del mondo, attorno alle grotte, la fantasia degli uomini ha costruito miti e leggende, ha immaginato incantesimi e tesori, ma soprattutto si è sbizzarrita a porre, a guardia di scrigni e di fantastiche casse colme di ori, belve feroci, draghi, magici guerrieri, streghe, gnomi, folletti, fauni, semidei e quanto di più può dare suggestione o incuriosire.

Il retaggio della mitologia greca prima e di quella romana poi è evidente, ma guai a non lasciare alla mente l’opportunità di divagare in un mondo fantastico, dove ognuno può calarsi e divenire eroe e mago. La fantasia ha la forza di realizzare ogni sogno, anche se tutto poi sfuma con le nebbie del primo mattino. Caverne e grotte hanno giocato un ruolo simbolico di primo piano nei miti della tradizione, e ancor oggi non hanno perso questo ruolo. La grotta, la caverna, l’anfratto, hanno fissato nell’uomo la dualità tra il buio dell’interno e la luce al suo esterno, quindi la dualità tra giorno e notte. La notte è fredda, oscura, cattiva. Costringe al riparo e al sonno indifeso, preludio della morte alla quale assomiglia. La notte è paura, abisso insondabile, orrore agghiacciante, scommessa fatale sull’incerto ritorno del sole. il giorno è caldo, luminoso, buono. Consente di trovare i frutti della terra e ogni genere di sopravvivenza, consente di vedere e aggirare gli ostacoli e di fuggire i pericoli.

 



Gli anfratti della Pizzuta non si sono sottratti al mondo della fantasia e, spesso, la voglia di entrare in possesso dei tesori della grotta metteva in moto escursionisti che nulla avevano in comune con gli amanti della natura, con gli studiosi della flora e della fauna o con l’interesse scientifico dei geologi. Lo spirito d’avventura e una certa voglia di ricchezza a basso costo superavano ogni ragione e si scalava la montagna preparati ad affrontare i draghi, i guerrieri immortali, le streghe o i folletti, e a scavare buche profonde o abbattere pareti di pietra con attrezzi degni di un cantiere edile.

Era un mattino sereno, l’aria era cristallina e una brezza leggera aveva spazzato ogni fumo di nuvola dal pianoro della Pizzuta. Attraverso la gola che la Kumeta forma con le alture di Guadalami e Maganoce, si intravedono le colline del saccense e si può riuscire a scorgere il convento di San Calogero sul monte Kronion. Quattro giovani aitanti, sui vent’anni, e una ragazza, giunti che furono sul pianoro, armati di pale, picconi e un paio di lunghe corde, si distesero sull’erba fresca per riaversi dalla fatica, e cominciarono ad esporre il piano per esplorare le grotte alla ricerca del tesoro o, in mancanza, qualche reperto in grado di soddisfare la loro voglia di realizzare denaro e contemporaneamente di appagare qualche curiosità.

Mentre i cinque ragazzi riflettevano come affrontare la grotta, il sole, che si spostava verso lo zenith, accorciava pian piano le ombre e le animava, tanto da non fare accorgere agli stessi che una di quelle ombre si stava materializzando proprio davanti alla grotta. I cinque ragazzi si ritrovarono davanti un austero vecchio dalla barba canuta, che fluiva fino alla cintura, e i lunghi capelli color latte gli scendevano sul collo. La sua tunica era raccolta alla vita da un giunco. Per un attimo ammutolirono e indietreggiarono, per un senso di timore e insieme di rispetto per il vecchi canuto e per il grosso libro che teneva in mano. La copertina rigida colore rosso scarlatto e le lettere impresse su di essa in oro, una grande alfa e una grande omega.

Regnò il silenzio, che fu rotto solo dal vecchio: emanava saggezza e insieme semplicità, dignità, cultura profonda, ed era senza tempo. A guardarlo, sembrava che questo parametro appartenesse ad altra realtà, ad altra dimensione, e così parlò: - Sono Akronos, sono nato e non sono cessato, questa grotta l’ho voluta quando il calcare che forma questa montagna era magma incandescente. Prima che si raffreddasse invitai Sirocco a rendermi un servigio, a soffiare più forte e ad attraversare la massa fluida, lasciando che l’incavo la percorresse tutta, per permettermi di guardare, in un sol colpo, le due vallate.

La ragazza, colpita dall’austerità del vecchio, gli chiese: - Come potete fare a meno del tempo? Chi prima di voi e chi dopo di voi? Il prima e il dopo prevedono che qualcuno si rapporti col tempo…

Il vecchio accarezzò la sua fluente barba e rispose: - Io sono detentore del libro delle verità, scritto e aggiornato a mano. Mi è stato affidato da un altro saggio che con me spartì quest’anfratto e poi sparì per compiere altre missioni. Ho voluto che fosse così, nel rispetto del libero arbitrio, che Chi sta al di sopra di tutte le cose regalò all’uomo, ed io consegnerò, a mia volta, questo libro ancora ad un saggio, ed andrò via a compiere altre missioni. 

I ragazzi, quasi in coro, chiesero: - Quanto tempo passerà prima che ciò avvenga?

Il saggio sorrise, capì che i giovani non erano stati educati a recepire il suo messaggio, difatti si trovavano sulla montagna con altre intenzioni. Allora aprì il libro e sulla prima pagina lesse: - Aiutare i bisognosi, promuovere l’amore per il prossimo è un’opera che trascende il tempo!

I giovani non diedero gran peso a quanto il vecchio aveva letto e, presi da altro interesse, gli chiesero quali e quanti tesori erano stati sepolti nelle grotte…

Il vecchio li invitò a sedere, poi si lisciò i baffi e la fluente barba e disse: - Queste grotte non nascondono tesori, le pareti sono segnati da simboli, ma i simboli non sono necessariamente memorie, a volte sono sogni. I veri tesori sono racchiusi in questo libro che tengo tra le mani, esso è un compendio di verità e profezie. Esso tratta dell’uomo, specialmente in rapporto con la scelta e il criterio di giudizio nei confronti dei due concetti di bene e male. Sfogliò e lesse: - La giustizia è virtù rappresentata dalla volontà di riconoscere il diritto di ognuno, mediante l’attribuzione di quanto è dovuto, secondo la ragione e la legge. La libertà, stato di autonomia, essenzialmente sentito come diritto e come tale garantito da una precisa volontà e coscienza di ordine morale, sociale, politico. L’uguaglianza fa sì che l’uomo sia considerato alla stessa stregua degli altri membri della collettività relativamente a determinati diritti o valori, prescindendo dalla razza, dal colore della pelle e dal credo religioso. La fratellanza, vincolo spirituale che esiste tra fratelli naturali o tra componenti di una società costituita per fini umanitari, che non è di mutuo soccorso, ma sentita in quanto legata da quella malta che è l’amore. La tolleranza, che consente agli uomini di buona volontà, pur non condividendo idee e pensieri, di rispettare chi questi pensieri e queste idee coltiva. Il vecchio saggio si fermò.

Il sole era allo zenith, non c’erano più le ombre e i ragazzi, ricaricata sulle spalle l’attrezzatura, intrapresero la discesa dal monte carichi dei tesori che il vecchio aveva dato loro con i suoi insegnamenti.

Al mattino, quando le temperature cominciavano a elevarsi, e all’imbrunire, quando tornavano a calare si sentiva la brezza o il vento attraversare la grotta e provocare un sibilo, tanto più forte quanto più lo era la velocità delle masse d’aria. Questo rumore, del tutto naturale, aveva solleticato le fantasie che sostenevano la presenza di un gigantesco guerriero in elmo, corazza e spada, che se ne stava sdraiato entro una grotta e una volta al mattino e un’altra nel pomeriggio si destava dal sonno e sbadigliava emettendo quei sibili.

Era giorno di festa, di quelli che si trascorrono attorno alla tavola con tutta la famiglia, le campane suonavano a distesa e per le vie del paese la banda musicale. All’anfratto arrivarono i suoni, i vocii e lo scampanio festoso, nessuno poteva immaginare che attorno a mezzodì qualcuno si presentasse davanti alla grotta carico di mestizia e con in mano un paio di sacchetti. Era un uomo sui trent’anni, ben messo nella persona, ma dagli occhi e dalla espressione trasudava tanta amarezza, tanta disperazione. L’uomo, in maniera timorosa, sbirciò dentro la grotta, cautamente ne varcò la soglia, guardò attorno e cercò l’angolo dove distendersi a passare la notte. Raccolse un po’ di frasche e le sistemò a giaciglio, poi si sedette sull’uscio, proprio accanto a una lieve depressione che raccoglieva l’acqua della sorgente.

L’uomo non fuggiva da nulla, non aveva commesso nulla per cui dovesse nascondersi, ma certamente qualcosa l’aveva spinto a scegliere quella scomoda dimora.


 

Akronos, il vecchio saggio, stette a guardarlo e notò sul suo volto tanta disperazione e tanto smarrimento. Con la testa tra le mani l’uomo si mise a singhiozzare e lacrime copiose rigarono il suo volto. Akronos gli diede il tempo di sfogare, aveva tanta rabbia in corpo e tanta nebbia nel cervello, poi si materializzò assumendo l’aspetto di un cacciatore e per non farlo spaventare mosse alcuni cespugli e tossì, gli passò davanti, lo salutò facendo finta di niente e si allontanò tra le agavi; poi, si materializzò dietro un roveto e comparve nella sua tunica bianca cintata con un giunco, con la sua barba fluente, i capelli color latte e in mano il grosso libro rosso scarlatto con l’alfa e l’omega impressi in oro.

Quando l’uomo lo vide, ebbe timore e indietreggiò sbarrando gli occhi, ma il saggio lo rincuorò dicendo: - Figliolo, non temere, io sono il solo ad abitare questa grotta, ma tu sei il benvenuto; nel tempo l’ho divisa con un vecchio, ora la dividerò con te, non avrai paura del buio, non temerai la notte con le sue insidie, io veglierò su di te, sulla tua incolumità, e domattina, quando Morfeo ti consegnerà al novello giorno, rivedrai il sole già alto.

L’uomo si sentì rincuorato, si sedette accanto alla sorgente e inerrogò Akronos: - In paese si è sempre sentito parlare di voi, della grotta, della persona e dei mostri che la abitano, ma io pensavo alla fantasia degli uomini e credevo di non trovarvi anima viva, anche se in cuor mio speravo che qualcosa di fantastico accadesse. Ma voi da quanto tempo siete qua? Dalla vostra lunga barba e dai capelli come neve, scusate, semrate molto vecchio… Quanti anni avete?

Il saggio sapeva quale era il motivo che aveva spinto l’uomo verso la grotta, ma dalla sua domanda ebbe contezza della sua capacità d’ascolto e di accettare le ragioni dell’esistenza; per ciò aggirò la domanda e fu vago dicendo: - Ho visto molte lune piene, molti inverni e molti fiori diventare frutti e poi ancora semi; ho visto l’uomo perpetuarsi e lottare sia per il futile che per i grandi valori. Anche tu stai lottando, nei tuoi occhi e nel tuo viso leggo i segni della sofferenza… Perché hai scelto questo luogo per sfogare la tua rabbia?

L’uomo lo ascoltò attentamente, poi cominciò a raccontare: - Sono sposato da cinque anni, da tre sono padre di un bambino, con mia moglie viviamo a casa dei suoi genitori, dove dimorano il fratello e la sorella di lei. Il lavoro scarseggia, ed io sono prigioniero dell’alcool, bevo più di quanto guadagno e non riesco a venirne fuori, non posso farne a meno, so che mia moglie soffre di questo mio stato e so che tutto questo non giova al bambino, ma è più forte di me e le liti sono diventate quotidiane, e invece di coinvolgermi a smettere, mi spingono sempre più dentro le osterie e i bar e mi fanno perdere la ragione. Oggi è stata l’ultima lite in famiglia, li ho avuti tutti contro, mentre il bambino con gli occhietti smarriti se ne stava muto e impaurito. Sono scappato via imprecando e non voglio più tornare a casa.

Il vecchio lo lasciò parlare, poi gli mostrò il grande libro dalla copertina scarlatta e disse: - Figliolo, guarda questo libro: contiene tutte le verità, e vi sono scritte tutte le profezie del mondo. Io ho il compito di leggerti alcuni passi, tu a tua volta hai il compito di ascoltarli. Se le parole scritte sapranno staccarsi dalle pagine e imprimersi nel tuo cuore, quando ti sveglierai, ripercorrerai l’erta a ritroso e troverai tua moglie sull’uscio ad aspettarti col bimbo sulle braccia. Altrimenti, se le parole non ti arriveranno, perché la tua mente è  nel caos e la tua anima è dibattuta tra ciò che è bene e ciò che è male, questa montagna sarà la tua casa. Io posso guardare due valli e posso condurti nell’una o nell’altra. Sta a te la scelta: ridiscendere passo passo il crinale della valle del bene o scivolare nella valle del male. Seguimi e vedrai…

Andarono per un sentiero tortuoso, attraversarono grotte successive sempre più buie ma il candore della tunica, della barba e dei capelli del saggio seguivano il cammino, fino a quando non raggiunsero la grotta centrale che comunicava con l’esterno attraverso una feritoia nel tetto, da dove entrava la luce e di potevano vedere il sole e la luna transitare.


 

Nell’antro di centro Akronos si fermò, fece notare un blocco di arenaria rossa dove era infissa una grande spada di acciaio con l’elsa cesellata e un grosso rubino in cima.

Guarda questa spada infissa nella pietra, disse il vecchio, questa è la linea di demarcazione tra il bene e il male, ora ti terrò per mano e ci affacceremo sul baratro del male, ma non aver paura, torneremo indietro sui nostri passi e solo allora ti leggerò quanto ti avevo promesso.

Akronos si avviò tendendo la mano.

Non c’erano strade che conducessero all’imbocco, solo una parete rocciosa a perpendicolo con l’orizzonte, uno strapiombo su una valle dove non si intravedeva un filo di verde,un groviglio di aridi sterpi, e giù scarne giovenche che brucavano spine, e serpi ovunque intrecciati e fitte ragnatele tra alberi fossilizzati. Akronos sostò un istante, poi batté una mano sulla spalla dell’uomo e lo invitò a muovesi sulla via del ritorno.

Giunti che furono davanti al pianoro dove zampillava la piccola sorgente, i due si sedettero. Il vecchio riprese in mano il suo libro, lo ap’erse e cominciò a leggere: Onora Dio, non fare mai male, fai del bene. Ama i buoni, aiuta i deboli, fuggi i malvagi ma non odiare nessuno. Parla sobriamente con i grandi, prudentemente con i tuoi pari, sinceramente con gli amici, dolcemente con i piccoli, teneramente con i poveri. Ascolta sempre la voce della coscienza. Assisti il viandante straniero; la sua persona è sacra per te. Rispetta le donne. Non abusare mai della loro debolezza e muori piuttosto che disonorarle. Se Iddio ti da un figlio, sii grato, ma trema per l’impegno che ti affida. Sii per il bambino l’immagine della divinità. Fa’ che fino a dieci anni egli ti tema, che fino a venti ti ami, che fino alla morte ti rispetti. Fino a diedi anni sii il suo maestro, fino a venti suo padre e fino alla morte suo amico.

L’uomo ascoltava senza perdere una battuta, ed il vecchio scandiva le parole. Come un esperto maestro di dizione fece un attimo di pausa, poi riattaccò la sua austera lettura: - Preoccupati di dargli dei buoni principi, rendilo uomo onesto più che uomo abile. Poi si fermò ancora, come se volesse tirare un sospiro, alzò gli occhi al cielo e proprio in quell’istante uno stormo di anatre con la loro tipica formazione a V si dirigeva verso il lago di Piana degli Albanesi, forse quello era il segno che Akronos aspettava, quindi riprese: - Ascolta e trai profitto,guarda e imita, rifletti e lavora. Rapporta tutto alla utilità dei tuoi fratelli. Sarà come lavorare per te stesso. Rallegrati della giustizia, adirati contro l’iniquità, soffri senza compiangerti. Il vecchio chiuse il libro e notò che l’uomo copiosamente piangeva, non lo disturbò, si alzò e andò fuori dall’anfratto come a volersi riposare. Staccò un lembo della tunica, lo bagnò con l’acqua della sorgente, lo porse all’uomo e disse: - Lavati il viso e asciuga le tue lacrime. Esse non sono segno di debolezza, quindi, non vergognarti mai di piangere, solo i forti e i grandi sanno piangere, i deboli ostentano sempre la sicurezza che non possiedono e sconoscono l’umiltà. Le apparenze sono solo specchietti per le allodole, sono lustrini ingannevoli che spesso ti portano dall’altro lato della montagna, dove non c’è sentiero alcuno, dove esiste solo il baratro. Tu, figlio mio, non giudicare con leggerezza le azioni degli uomini, non biasimare affatto, e loda ancora meno. Spetta solo a Dio, che sonda i cuori, apprezzare le loro opere.

Akronos pose sotto il braccio il suo libro, volse le spalle ed entrò nella grotta, mentre il giovane venne preso da un pesante sonno.

La luna attraversò tutto il cielo e quando fu sulla grotta sembrò fermarsi come per incanto, quasi a rendere omaggio al vecchio saggio senza tempo, poi lentamente raggiunse l’orizzonte e fece posto al sole.

L’uomo si risvegliò, bevve un sorso d’acqua, riprese i due sacchetti che aveva portato con sé, si guardò attorno in cerca di Akronos e lo vide su una roccia che lo salutava; poi si incamminò ritornando sui suoi passi.

 

 

 

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sabato 22 maggio 2021

LE BELLEZZE NON SI POSSONO SOMMARE . Racconto breve . 23.05.2021

 

 

 


 

 

 

 

I RACCONTI DEL BORGO

 

Mario Scamardo

 

LE BELLEZZE NON SI POSSONO SOMMARE



                                                               Caterina Sforza

Giulia Gammarra, ultima marchesa di Bosconovello, dopo dodici anni di matrimonio col  conte Furio Nunzio Fargione e dopo avere dato alla luce cinque figli maschi, rimase vedova per un incidente di caccia capitato al nobile coniuge. Giulia, sempre bella, non era mai stata una donna fedele, ed anche in gramaglie, riceveva tanti nobiluomini del circondario, tutti aitanti, tutti giovani, tutti possidenti. Erano passati circa sedici mesi dalla dipartita del conte Furio Nunzio, Giulia Gammarra si accorse di essere incinta. Per la sua mente passarono tante decisioni, anche quella di liberarsi del feto per opera di una mammana capace di mantenere il segreto, ma la sua fede di cattolica praticante, le impedì di compire l’insano gesto. Con una scusa banale si trasferì nella sua villa di campagna nel feudo di Balatella, donatale da suo padre e, con l’assistenza di una amica fidatissima, il 21 giugno del 1899 partorì una bambina che chiamò Adelaide e la consegnò, assieme ad una cospicua somma di denaro, ad una balia che, tre volte al mese la portò alla villa di Balatella affinché la madre naturale la potesse in ogni istante vedere ed abbracciare. 




Ad onta dei sei parti Giulia Gammarra,  con i suoi trentaquattro anni, era una tra le più belle donne dell’intero territorio. Il suo fisico era perfetto e i suoi occhi sprigionavano luce in ogni momento della giornata. La marchesa di Bosconovello era una divoratrice di libri, specialmente di testi che trattavano di alchimia e, quindi, di esoterismo. Lei passava parecchie ore in giardino a coltivare piante medicinali, poi ne raccoglieva le foglie, i fiori o le radici e in un piccolo laboratorio adiacente alla serra, si adoprava tra gli alambicchi ottenendo profumi, pomate, unguenti, creme per la pelle emollienti ed idratanti e per il viso che usava tutti i giorni.
Nel laboratorio c’era uno scrittoio con un paio di cassetti pieni di libri di autori alchemici che Giulia consultava molto spesso. Un testo del XIV secolo faceva bella mostra sullo scrittoio, “Liber thesauri pauperum” attribuito a Riccardo o Rinaldo di Villanova da dove si rileva che il vino e la vite sono anche utilizzati per diversi usi: Experimentu a duluri di denti e di gengivi: Cui si lava la bucca una fiata lu misi cum lu vinu dundi sianu cocti radicati di titimallu nun avj mai duluri di denti et sana lu duluri. (Rimedio al mal di denti e di gengive: Chi si lava la bocca una volta al mese con il vino dove siano state cotte radici di titimaglio (euphorbia helioscopia) non ha in nessun tempo mal di denti ed è un efficace rimedio al dolore.)
A lu duluri di rini : Piglia salvia domestica garrofali cum bonu vinu et bivandi quilla chi pati lu duluri et guarirà.(Rimedio al mal di reni: Prendi salvia omestica, garofani con buon vino e bevi: quella parte che fa male guarirà).
Adelaide, che portava il cognome della nutrice Maranello, man mano cresceva e si affezionava ogni giorno di più a Giulia e ogni giorno di più i suoi occhi grandi e neri brillavano come quelli della sua mamma naturale e, appena compì sedici anni e varcò la soglia del palazzo di Bosconovello, puntò lo sguardo su una tela che raffigurava la marchesa giovanissima che le assomigliava in maniera impressionante. Anche la marchesa si accorse della somiglianza perfetta ed i suoi occhi si inumidirono tanto da farla ricorrere al fazzoletto che portava infilato nel polsino sinistro. Adelaide per volontà della marchesa ebbe due precettori che la istruirono, uno si dedicò ad insegnarle la musica e a suonare il pianoforte ed uno curò il suo acculturamento per quanto riguardava la botanica e, soprattutto le piante officinali. Una forma virale afflisse le genti del posto ed un mattino arrivò la triste notizia che la nutrice di Adelaide era passata a miglior vita. Dopo che la ragazza, colmata dalle premure di Giulia Gammarra, la sua vera mamma, elaborò il lutto, timidamente le fu chiesto con le dovute cautele se avesse gradito essere adottata da lei. Adelaide attese un po’ di giorni poi, a capo chino, proprio davanti a quel quadro che l’aveva impressionato entrando in quella casa, accettò di essere adottata e quasi istintivamente prese ambedue le mani della marchesa: - mamma, da oggi voglio essere la sorella più piccola di sei fratelli, buttò le braccia al collo di sua madre e pianse di gioia. I fratelli arrivarono alla spicciolata e tutti si strinsero in un abbraccio, come se tutti conoscessero una verità che era soltanto un segreto tra la marchesa e la balia Maranello. Il carisma della marchesa era immenso e tutti e cinque i figli, educati rigidamente, abituati alla presenza in casa di Adelaide, accettarono il nobile gesto della madre e lo condivisero senza ombra alcuna. Un mattino di maggio, quando la luce del sole accorciò le ombre dei tanti cipressi del viale, giunse a casa Gammarra il notaio Agostinelli che formalizzò l’adozione della fanciulla che da quel momento si chiamò, con l’assenso di tutti e cinque i fratelli, Adelaide Gammarra marchesa di Bosconovello.
Giulia volle rendere noto quanto era avvenuto e, nell’immenso giardino di casa sua, in un assolato pomeriggio di fine giugno, organizzò una grande festa. Adelaide venne presentata a tutti e nei giorni successivi la notizia raggiunse ogni angolo remoto della regione. La festa durò fino a notte inoltrata, tutte le fanciulle presenti le fecero miriadi di domande alle quali la ragazza rispose con garbo e sempre sorridendo e tutte chiesero di rincontrarla e la invitarono a loro volta nelle proprie dimore. Giulia notò ogni particolare e fu contenta e soddisfatta e, quando l’ultimo invitato andò via, sedette in salotto attorniata dai figli e raccolse da ognuno le proprie impressioni, li baciò sulla fronte e diede loro la buonanotte. 

 


I giorni si susseguirono ai giorni e Giulia ed Adelaide cominciarono a vivere in simbiosi. La ragazza apprese dalla mamma le tecniche per la scelta, la coltivazione, la raccolta di tantissime piante officinali e, nel piccolo laboratorio adiacente alla serra, preparò decotti, tisane, pomate e creme, distillò essenze e preparò profumi. Un pomeriggio, dopo la visita di un paio di amiche, aprì il vecchio trattato di Riccardo di Villanova  e puntò il dito su un capoverso e lesse: A fari li capiddi brundi pigla radicata di listincu e radicata di viti e fandi chinniri et di la ditta chinniri fandi lixia e a la ditta lixia mecti fezza di vinu blancu e bugli la lixia cum la fecza et poi tindi lava la testa ki farrai li capjlli multi brundi belli e riczi. (Per fare i capelli biondi prendi radici di lentisco pistacca lentiscus e radici di viti, riducili in cenere: di detta cenere fanne liscivia, unisci alla liscivia feccia di vino bianco e acanto achanthus sativus; fai bollire la liscivia con la feccia dopo di che lavati la testa con questa mistura. I capelli ti diventeranno molto biondi, belli e ricci). Quanto letto la colpì; cambiare colore ai capelli, tante ragazze lo sognavano, chissà che quel vecchio trattato di un vecchio alchimista non dicesse il vero! Nei giorni successivi ne parlò con sua madre, si procurò quanto le serviva e dopo avere fatto bollire la liscivia con la feccia di vino bianco, attese che il liquido si raffreddasse e cercò di capire se, dosando la feccia di vino, si potessero ottenere tonalità di biondo diverse. I capelli di Adelaide erano neri corvini, in tre lavaggi , intervenendo sulle dosi di feccia e sui tempi di lavaggio, ottenne tre tonalità diverse, appuntò tutto su un quaderno e, di volta in volta le sfoggiò sotto gli occhi meravigliati, sia di sua madre che delle sue amiche. Tutte le chiesero una magica pozione, in tante cambiarono il loro colore di capelli, biondo platino, castano chiaro, biondo cenere, eccetera. Adelaide ritornò una ultima volta a consultare il testo del Villanova, quando volendo preparare una crema di bellezza da spalmare in tutto il corpo, viso compreso, ricordò che lo stesso indicava l’uso dell’alcool contenuto nel vino e si convinse che la sua crema alla calendula selvatica necessitasse per avere l’efficacia dovuta di una piccola quantità di alcool.
La proprietari di la rosa marina: Itemfa bugliri li fogli cum vinu blancu ki sia nectu di acqua e lavatindi la facchi et aviraila bella. (Proprietà del rosmarino. Parimenti fai bollire le foglie di rosmarino con vino bianco non annacquato, lavati tutti i giorni la faccia e l’avrai sempre più bella).
Sotto lo sguardo compiaciuto di Giulia Gammarra la giovane marchesina distillò il succo di calendula selvatica, lo dosò, aggiunse olio si mandorle, una dose di glicerina, vino bianco dove erano state bollite ciuffetti di rosmarino e per finire aggiunse una dose di olio di oliva e due cucchiai di panna di latte. Aspettò un po’, poi colò il tutto in una zangola (vecchio strumento per fare il burro), un cilindro tronco-cilindrico con il fondo chiuso e un coperchio forato a centro dal quale doveva passare lo stantuffo con il disco di legno dal diametro leggermente inferiore a quello del cilindro, atto ad agitare il contenuto. Iniziò a sbattere per circa due ore e, addensatosi il liquido tirò fuori l’emulsione, una crema di colore ambrato e delicatamente profumata. Giulia, a lavoro finito, vi intinse il polpastrello del dito medio della mano destra e spalmò la crema sul dorso della mano sinistra, avvicinò la mano al naso ed odorò cogliendo il tenue profumo di calendula misto al profumo dell’olio di mandorla e ad una tenue traccia di rosmarino fiorito. Riportò la mano al naso parecchie volte ed alla fine si sentì di suggerire alla figlia di emulsionare a parte l’olio d’oliva e di aggiungerlo nella zangola per ultimo, al fine di accentuarne la fragranza. Un mercoledì pomeriggio, giorno in cui di solito la marchesa riceveva gli ospiti, i salotti di casa Gammarra si riempirono di belle dame e di splendide fanciulle. Quattro servitori con enormi vassoi stracolmi di leccornie di ogni sorta e altri quattro con vassoi coi flute colmi di vini frizzanti. Dopo qualche ora che era servita a dare sfogo allo scambio di notizie, alle piccole chiacchiere e al pettegolare, Giulia Gammarra chiese alla figlia Adelaide di mostrare la nuova crema di bellezza. Entrò un servitore con un carrello e un elegante cesto in vimini orlato di fine trine, colmo si tanti vasetti quanto erano le famiglie invitate. Adelaide parlò dei suoi studi, delle piante officinali e delle cure colturali, della raccolta di fiori, frutti, foglie o parte di pianta, dei testi consultati e dei metodi per arrivare alla crema. La fanciulla aprì un vasetto, si avvicinò alla dama che le stava seduta di fronte, donna Margherita Cimò e pregò la dama di intingere il dito nella crema e la invitò a spalmarla sul dorso dell’altra mano e frizionare, poi la pregò di annusare per verificarne la gradevolezza e, riscosso il consenso compiaciuto sia della dama che della di lei figlia, fece distribuire da un cameriere i vasetti che furono molto graditi. La dama chiuse il il vasetto, lo porse alla figliola e alzandosi in piedi applaudì Adelaide e si complimentò con lei, poi:

-         Cara marchesina, ammiro il vostro impegno, anche la vostra mamma si è dedicata alla cura di piante particolari, spesso riceveva le visite nella serra, noi la invidiavamo per la sua pazienza e dedizione e siccome non ha mai perso un briciolo della sua bellezza e del suo fascino, abbiamo avuto il sospetto che avesse scoperto una pozione capace di mantenerla sempre giovane e bella.


 

 

-    Donna Margherita, voi siete una bellissima signora e con voi le vostre due figlie Vittoria e Clementina, mamma non ha trovato l’elisir di lunga via, come me ha fatto degli studi di botanica e ha curato con amore le sue piante. Io vi ringrazio per i vostri complimenti e per gli assensi di tutte le dame in questo pomeriggio presenti. La crema che ho preparato e che voi avete accettato, non è soltanto un profumo, ma un unguento da spalmare su tutto il corpo al fine di mantenere la pelle giovane oltre che profumata. Al prossimo nostro gradito incontro, raccoglierò le vostre impressioni che mi aiuteranno a fare sempre meglio. Vi ringrazio e, mentre voi dialogherete, io intratterrò se lo vogliono, le vostre figlie nella serra, dove troveremo oltre ai dolcetti, tanti sciroppi di frutta più consoni alla nostra giovane età.

Le ragazze si strinsero attorno ad Adelaide, guadagnarono il grande corridoio che le portò in giardino e, quindi, nella serra illuminata a festa.
La notizia, anche col passaparola raggiunse in altre città tutte le dame e non solo della regione. La crema preparata dalla marchesina Adelaide fu richiesta tanto da far decidere la marchesa Gammarra di allestire un grosso laboratorio e di produrre la crema, ottenuti tutti i permessi e le licenze necessarie, su scala industriale. L’industria, di dimensioni modeste, produsse vasetti etichettati “
Bosconovello – Crema per il corpo”. In pochi anni Adelaide produsse profumi, ciprie, acqua di colonia e coloranti per i capelli e quello che era un laboratorio si trasformò in una grande industria capace di far lavorare tante maestranze.
Giulia Gammarra festeggiò i suoi sessant’anni nel giardino della sua dimora, a breve Adelaide avrebbe compiuto ventotto anni. Quando la giovane donna, nello splendore della sua bellezza, accompagnò la sua mamma in giardino, fresca e sempre più bella, come se il tempo si fosse fermato, gli invitati tutti, dame e cavalieri, si cimentarono in un concerto di applausi ed ogni famiglia presente consegnò un dono. Giulia Gammarra ringraziò commossa tutti e, con un cenno diede il via alla serata.
Adelaide si frequentò e ricevette le visite  del conte Alfredo Villapesa, unico figlio del conte Ambrogio e della contessa Flavia. Il giovane conte viveva parte dell’anno con i nonni materni a Palermo dove esercitava la professione di medico oculista, in uno studio professionale allestito al piano ammezzato del loro palazzo che si affacciava nella via Maqueda, in prossimità dei Quattro Canti, all’incrocio col Cassaro. Adelaide si innamorò tanto di quella città fantastica e, tutte le volte che ne ebbe opportunità, la visitò per lungo e per largo cogliendone tutti gli aspetti, statuaria, monumenti, giardini e ville, parchi, palazzi storici, piazze, teatri, chiese e quant’altro. L’Orto Botanico l’affascinò, così come l’affascinarono tutte le costruzioni arabo normanne e i tre grandi mercati della città, la Vucciria, Ballarò e il Capo. Giulia Gammarra conosceva bene i conti Villapesa e quando il conte Ambrogio e la contessa Flavia andarono a trovarla per chiedere, per il loro unico figliolo, la mano di Adelaide, mostrò tutta la sua gioia ed informò di tanto i suoi cinque figli maschi che gioirono anche loro. Il matrimonio si celebrò un anno dopo nella Chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio, detta anche La Martorana. Quindici giorni dopo Giulia Gammarra fu colta da un malore, perse l’equilibrio e ruzzolò per le scale. A nulla valsero le premure, il ricorso ai medici, i tentativi di rianimarla in ogni modo, prima della mezzanotte spirò attorniata dagli affetti più cari. Adelaide scendendo le scale per raggiungere il pianoterra puntò lo sguardo sulla tela che ritraeva sua madre giovane e che le somigliava tanto, cercando in quei tratti un qualcosa che la conducesse ad una frase che sua madre le aveva sempre ripetuto e lei non aveva mai capito: Non possono coesistere due marchese di Bosconovello, quando la più giovane raggiungerà il massimo della bellezza, per un sortilegio inspiegabile, la meno giovane verrà meno… le bellezze non potranno mai sommarsi!



                        Chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio


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