domenica 24 giugno 2012

I MANDERINI DI DON SAVERIO ... XI FAVOLA












     Si può scrivere una favola autobiografica? Io ho provato a farlo, ho provato a raccontare, con un linguaggio comprensibile dai piccoli destinatari, uno spaccato di vita della mia età adolescente. Ho raccontato un episodio che si è ripetuto fino alla dipartita del mio genitore, cercando di evidenziare quanto la favola si prefigge, la morale. 
     Alle persone adulte, nell'entroterra siciliano, in ossequio alla loro età, ma soprattutto alla loro rispettabilità e al loro essere perbene, veniva anteposto al nome il "don", nel tempo una letteratura giornalistica di cronaca nera, ignara di distruggere la cultura di un popolo, trasformò il "don" che stava per signore, in un epiteto da affibbiare a malavitosi e mafiosi. Per le donne, fino agli anni '60 il ragionamento fu diverso e alla mia nonna materna tutti continuarono a chiamarla, in senso di rispetto, donna Nunzia. 
    Il personaggio della favola, don Saverio, contadino, seconda elementare, che soleva definirsi "un viticoltore laico", perchè coltivava il suo vigneto non obbedendo ai canoni consigliati, in quanto innovatore con risultati eccellenti, era mio padre e, pur amandolo alla follia, non ho aggiunto, per esaltarne la figura, nulla che non fosse un fatto riscontrato da me stesso. Lo perdetti che era giovane, un male incurabile se lo portò via, allora non esistevano cure, di chemioterapia si sentiva appena parlare. L'ho amato ed ho vissuto dei suoi insegnamenti!




Mario Scamardo


I Racconti del Borgo
I mandarini di don Saverio
( XI Favola )  



Rigoglioso era il giardino di don Saverio, cinque ettari appena a cinquecento metri dal centro abitato. Una mulattiera lasciava il paese e scivolava dolcemente verso valle passando, davanti ad un cancello di cui nessuno aveva mai sentito cigolare i cardini, in quanto era tenuto sempre aperto, giorno e notte. Una stradina interna accompagnava al vecchio caseggiato in pietra viva e, stranamente, una delle due porte laterali rimaneva anch’essa sempre  aperta. Al centro dell’appezzamento, da una sorgente zampillava copiosamente freschissima acqua, attorno, solo alberi da frutta, aranci, limoni, fichi, ciliegi, albicocchi, cachi, peri, meli, mandorli e noci, su tutti gli altri spiccavano un paio di filari di mandarini di ogni varietà che consentivano di avere una produzione da novembre a giugno.
Don Saverio era un uomo buono, la sua generosità era il suo distintivo. Contadino da quando si erano fermati i suoi studi, la seconda elementare, aveva curato il suo giardino ed il buon Dio lo aveva ripagato facendo si che quegli alberi, che lui si ostinava a chiamare figli, fossero sempre rigogliosi e stracarichi di frutta.
Tutti i contadini del circondario, che andavano a riempire le loro brocche d’acqua, spesso lo trovavano seduto su un ciglio della grande vasca in cui versava la sorgente e si intrattenevano con lui, ma prima che andassero via, don Saverio raccoglieva un cesto di frutta e gliela regalava – portatela ai vostri bambini – soleva dire, poi, se era stagione, raggiungeva un albero di mandarini e ne raccoglieva un paio di ciocche, li porgeva al suo interlocutore dicendo: - portategli anche questi, pur se è lontano il santo Natale, i mandarini serviranno a farglielo ricordare. - Quando qualcuno rimaneva imbambolato davanti a queste frasi il contadino, dopo avere accennato ad un sorriso aggiungeva: - per ogni buon cristiano, ogni giorno è Natale -.
Don Saverio aveva due figli, un maschio ed una femmina. Quando rincasava all’imbrunire, in groppa ad una mula che chiamava affettuosamente Caterina, si fermava senza smontare e fischiava un motivetto, attendendo che tutte e due i suoi figlioletti accorressero con le braccia alzate per farsi issare in groppa alla mula per poter percorrere a cavallo gli ultimi venti metri che li separavano dall’uscio di casa. Smontati, don Saverio sedeva sullo scalino davanti all’uscio, issava sulle sue ginocchia ambedue i bambini e chiedeva loro sulle eventuali marachelle, li stringeva al suo petto e tirava dalle tasche due frutta mature che aveva raccolto a fine giornata e li donava alle sue creature con la sua massima soddisfazione e promettendo che la domenica mattino li avrebbe portati in giro, dopo la santa Messa, con la macchina, una Fiat 500 belvedere di colore blu e grigio.
Un mattino d’estate, più grandicello il maschietto, don Saverio lo portò con se in campagna. Smontati dalla mula, il contadino chiese al ragazzo se avesse voglia di mangiare un frutto, c’erano dei fichi succulenti, delle albicocche, delle pesche, ma il figlio gli chiese dei mandarini, il contadino sorrise e gli disse: - figlio mio, non è stagione di mandarini, ora ti raccolgo una pesca, te la sbuccio, tu chiudi gli occhi e mordila pensando che sia un mandarino – il ragazzo sorrise ed accettò la pesca. Assieme al padre si addentrò nel giardino ed assistette alle operazioni di irrigazione. Don Saverio accompagnò con la sua zappa l’acqua che fece sortire dalla grande vasca, incanalandola nei solchi innanzi tempo tracciati, le fece raggiungere i limoni, poi i ciliegi, gli aranci, quando l’acqua arrivò ai mandarini il ragazzo gli chiese: - papà, visto che non è stagione, perché gli dai acqua? – Il contadino guardò tra le fronde e notò in cima ad un albero due succulenti mandarini tardivi, percorse una decina di metri, alzò un braccio, abbassò la fronda e li raccolse, tornò sui suoi passi, ne staccò uno e lo mise in tasca per la figliola, poi diede l’altro al suo ragazzo. – Vedi figliolo, anche se non è stagione, a volte la natura viene incontro ai ragazzi buoni, e fa maturare qualche frutto con ritardo. E’ il premio per aver curato con amore questi alberi che hanno già abbondantemente dato, e l’acqua che adesso gli stiamo somministrando non li farà soffrire per il caldo afoso di questa estate. Ragazzo mio, le piante sono come i bambini, devi dar loro tanto amore per potere ottenere frutti migliori. Io non ho mai chiuso il cancello di questo giardino, nel circondario questa è l’unica sorgente, come negare la possibilità a chi fatica di dissetarsi, rinfrescarsi e riempire la propria brocca. La sorgente è copiosa e l’acqua che soverchia la faccio utilizzare ai limitrofi affinché anche loro possano dissetare i loro campi. L’acqua è un bene di cui l’uomo non può fare a meno, è un dono del Creatore e, quindi, è giusto che nessuno soffra la sete.- Il ragazzo lo ascoltò ed i suoi occhi si inumidirono. Don Saverio, conscio dell’opera educativa che stava compiendo riprese a parlare. - Lascio sempre una delle tre porte della casa aperta, dentro lascio un fiasco di vino, un po’ d’olio per la lampada ed un pane, sai, tante mattine ho trovato il fiasco non più pieno e non ho trovato il pane, ma tutti i giorni ho sentito il calore e l’affetto delle persone che ho conosciuto-. Il ragazzo sbucciò il mandarino, lo divise in due e ne offrì al padre.
Si avvicinava il Natale, don Saverio da giorni era alla ricerca di scatole, di cesti, di canestri, di fiaschi. Conosceva tutti il contadino nel suo paese, gente colta ed analfabeti, ricchi e poveri, contadini, artigiani, professionisti e possidenti, dialogava con tutti e tutti dialogavano con lui. Dalla campagna aveva portato decine di casse di arance, di limoni, di mandarini. Il ventitré dicembre il contadino si alzò al solito, allo spuntar del sole, si recò nella stalla, la pulì e diede da mangiare e da bere alla mula Caterina, rientrò a casa, si lucidò le scarpe della festa, fece il bagno, si vestì in maniera elegante ed attese che si svegliassero i ragazzi che erano in vacanza. Consegnò ai figli una capiente borsa ciascuno e si accompagnò con loro all’uscio. Entrò in una macelleria e chiese carne e salsicce facendosi confezionare venti involti, poi fu la volta di una salumeria e la scena non mutò, infine ritirò venti vassoietti di dolci in una pasticceria. I ragazzi facevano fatica a portare le due borse, il padre si mise in mezzo a loro, prese un manico per ciascuna borsa e tutti e tre guadagnarono l’uscio di casa.
Don Saverio come se stesse eseguendo un rituale, divise quanto acquistato in venti scatole, inserì in ciascuna un fiasco di vino, una bottiglia d’olio, e le completò con arance limoni e mandarini, poi disse ai ragazzi: - ora andrò a prendere la macchina, caricheremo i pacchi e mi accompagnerete a consegnarli -. I figli di don Saverio si guardarono negli occhi, la ragazza interrogò con lo sguardo il fratello che allargò le braccia. – Papà – chiese la fanciulla, - perché hai preparato tutti questi pacchi, a chi vuoi che bisogni la carne, le salsicce o i formaggi con il benessere che c’è in giro? – Credi davvero figlia mia che ci sia tanto benessere in giro? – rispose il padre – vedi figliola, a volte dove sembra che splenda il sole c’è tanto freddo, non sto parlando di temperatura, ma di freddo affettivo, di solitudine, di mancanza di quel calore umano che solo l’amore può dare. I genitori mettono al mondo i figli con amore, li allevano con abnegazione, soffrono per loro, si tolgono il pane dalla bocca per renderli felici, ma, a volte, i figli dimenticano... e ci sono quelli che non sono stati graziati e i figli non li hanno avuti, ora sono vecchi e hanno per compagna la solitudine, poi ci sono i poveri, quelli veri, che per dignità talvolta ostentano agiatezze. Tu e tuo fratello avrete fra due giorni una tavola imbandita, due genitori che sanno darvi calore, e tutte le leccornie che un essere umano può desiderare. Colui che sta sopra di noi ci ha concesso il dono dell’amore, ed il santo Natale ogni giorno si ripeterà a casa nostra, ce lo ricorderanno i mandarini sulla tavola, ma per tanti sarà un giorno come un altro dove affioreranno tristezze, malinconie, ricordi non piacevoli. – I due ragazzi si presero per mano e avvicinandosi al padre lo baciarono. Don Saverio aveva capito di aver fatto breccia nel loro cuore ed aggiunse – voi siete dei ragazzi, ma vi accorgerete presto di quanto sia veloce il tempo, voglio che ambedue non dimentichiate mai che c’è sempre chi ha bisogno degli altri, un regalo non è sempre una cosa tangibile, si può donare sempre, è dono anche un sorriso, capace di far felice ogni uomo e soprattutto i bambini. Non chiudete mai il cancello in campagna, lasciate aperta una porta e non dimenticate mai di lasciare dentro del pane e del vino, Dio vi renderà merito del vostro operare e farà si che il vostro giardino sia sempre ubertoso.- I ragazzi caricarono la macchina dei pacchi e con il padre andarono in giro per le case a portare i doni.
Il mattino seguente don Saverio caricò gli ultimi cesti di arance, limoni e mandarini e si recò al convento dei Servi dei Poveri dove erano ospiti trenta orfanelli. Attese nella sala d’aspetto la madre superiora, al suo sopraggiungere si scoprì e si inchinò, la superiora lo accolse calorosamente ed i suoi occhi dal color della giada palesarono tanta gioia, accettò i cesti di frutta e condusse, come era solita fare, il contadino tra gli orfanelli. Gli occhi di don Saverio si inumidirono, si accosciò e baciò carezzandoli tutti i bambini. I più grandicelli che lo conoscevano dagli anni precedenti formarono un cerchio e lo misero in mezzo. Il più piccolo chiese alla superiora – Madre, chi è questo signore? – tutti in coro gli altri bambini gridarono – è don Saverio, il signore dei mandarini. –
Gli anni passarono, ed ogni Natale don Saverio visitò gli orfanelli, ed i suoi ragazzi, ormai adulti prepararono i pacchi assieme ai loro figli, tanto riempiva il cuore del vecchio contadino, che alzando gli occhi al cielo ringraziava Dio per l’opera educatrice che gli aveva concesso. La malattia lo colse, l’uomo si appoggiò al suo bastone e man mano le gambe non lo aiutarono più, non fu mai disperazione, solo rassegnazione al volere del Creatore. La madre superiora dei Servi dei Poveri spesso lo andava a trovare, portava con se due orfanelli, e don Saverio chiamava a se i nipotini affinché potessero giocare con chi i genitori non li aveva più, voleva che gli orfani si sentissero a casa loro e chiedeva alla moglie di preparare per loro una tazza di cioccolata e tanti biscotti. I bambini facevano felice quell’uomo, non lo stancavano mai, anzi gli davano forza e qualche volta riuscivano a farlo alzare dalla poltrona sulla quale passava le giornate guardando dalla finestra spalancata il tramontare del sole nel golfo di Castellammare.
Un giorno corrusco di agosto, sul finir del mattino, le campane suonarono a martello. Sul selciato le ruote di un carro funebre trainato da quattro morelli, trenta orfanelli accompagnati dalla superiora, in fila per due, in mezzo ad una grande folla, camminavano a passo lesto a rendere anche loro omaggio a don Saverio, l’uomo dei mandarini, nel giorno della sua dipartita. Ognuno di loro si chinò davanti al feretro e depose sulla bara una zagara di mandarino. Durante il corteo funebre una nuvola oscurò il sole, un lampo squarciò il cielo ed un tuono rimbombò cupo per le campagne. Una pioggia scrosciante diede l’addio a don Saverio, ed irrigò per l’ultima volta il suo ubertoso giardino.




Non so se sono riuscito nel mio intento, se ciò non fosse ve ne chiedo venia.

martedì 12 giugno 2012

GLI GNOMI DEL " MULINO DEL PRINCIPE " ... X FAVOLA










 Mulino del Principe





Gnomi, folletti, fate, elfi, ci aiutano a capire il Grande Teatro del Mondo, dove si è sin dalla nascita “agiti”, giusta l’idea pirandelliana secondo la quale siamo tutti “pupi” (marionette, burattini, maschere, ombre), animati dall’onnipotente Spirito divino, che è nel cuore di tutti gli esseri e tutti agita al ritmo incalzante del tempo, col potere della “meraviglia”.
Con le favole, i racconti, le storielle, possiamo aprirci un varco verso quel po’ di libertà che si può conseguire nella recita “a soggetto” del sacro canovaccio del destino, e affrontare il pathos dell’esistenza in un “catartico” gioco di arte e poesia.




Mario Scamardo



Gli gnomi del "mulino del principe"

 



Il fiume Jato ha origine dalle sorgenti di “Procura alta” e “Procura bassa” e da parecchie altre piccole polle, alle pendici dei monti che, chiudono verso nord la Valle dello Jato, coda terminale della Val di Mazara, attraversando tutto un territorio e fino al Golfo di Castellammare dove sfocia, nelle vicinanze del comune di Balestrate.
Tra le due sorgenti, si trova un vecchio maniero, sovrastato da una torre cinquecentesca dalla quale si domina l’intera vallata. Dopo il 1767, data che ne segna la confisca ai padri gesuiti che avevano adattato il maniero a convento, appartenne a Giuseppe Beccadelli Bologna, principe di Camporeale e marchese della Sambuca, già ministro alla corte di Ferdinando IV di Borbone. Alcuni locali del vecchio caseggiato furono scavati nella roccia, con volte a dammuso, risalenti, con buona approssimazione, al periodo arabo. Le presenze di dette volte a dammuso dettero il nome al feudo che si chiama “Dammusi”.
Lungo il corso dello Jato, parte delle acque venivano convogliate in un canale, la “prisa” che, oltre a portarle agli ubertosi agrumeti della zona, venivano sfruttate per far girare le ruote dei mulini e mettere in moto le macine per il grano.
Lungo il suo percorso, dalle sorgenti alla foce, esistono, ormai fermi da tempo, dei mulini. Se ne ha conoscenza almeno di quattro, stante che il primo, quello più grande e più vicino alle sorgenti, viene ancora chiamato il “mulino del principe” e, quasi a metà corso, prima che il fiume affronti la pianura e formi le sue grandi anse, si trova il “quarto mulino”. A proposito di quest’ultimo opificio, bisogna dire che la teoria dei quattro mulini potrebbe essere falsa, in quanto essendo i feudi talvolta abbastanza estesi, come quello di Jato, gli stessi venivano divisi in quattro quarti, per cui il mulino in questione venne così chiamato, in quanto ubicato in un quarto del feudo di Jato, proprio “quarto mulino”.
Giannino era uno scout, dentro il suo zaino, oltre a quanto gli occorreva, portava sempre la sua macchina fotografica e un contenitore con parecchi rullini; quando era passato a comunione, la sua mamma gliela aveva regalata ed il ragazzo ne faceva un ottimo uso. D’estate, a scuola finita, dopo aver conseguito la licenza della scuola dell’obbligo, calzava di buon mattino gli scarponi, riempiva il suo zaino di quanto necessario per trascorrere la giornata per i campi, colmava la sua borraccia e, caricata la sua macchina fotografica, se la poneva a tracolla e percorreva i lunghi sentieri che la sera prima si era segnati su una vecchia carta.
Un mattino di luglio, baciò sua madre che lo accompagnò alla porta e imboccò un percorso che lo portava al fiume Jato. Cartina alla mano, puntò dritto verso il mulino del principe. La strada era in discesa, la costruzione, in riva al fiume, gli apparve dopo qualche migliaio di metri del suo percorso. Un vecchio opificio al quale era addossata la “prisa”, nella quale non scorreva più acqua. La vecchia ruota a pale era là, cigolante, era diventata solo un trespolo per corvi e taccole; un’enorme macchia di rovi cresceva rigogliosa e si abbarbicava ad una murata. Le finestre erano spalancate e la porta d’accesso al vecchio mulino era sgangherata ed appena accostata. Giannino titubò un attimo, poi, scattate tre o quattro foto all’esterno, spinse la porta ed entrò. Al rumore, vennero fuori decine di colombi che avevano nidificato e si sentiva il pigolio dei piccioni nei nidi, costruiti in ogni dove. Dentro, l’acre odore di tanto sterco di uccelli e tante ragnatele, e le macine, ricoperte di spesse polveri, sembravano dormire un sonno antico. Giannino lo vide come un paesaggio incantato, guardò tutt’attorno, s’infilò tra le macine, sbirciò in tutti gli angoli, solo un topino di campagna, guardingo e impaurito, rosicchiava un tubero e i tarli scavavano interminabili gallerie nelle travi che sostenevano il tetto.
Il ragazzo spalancò la porta per avere più luce e, imbracciando la sua macchina, fotografò ogni angolo, ogni meccanismo, ogni tramoggia, ogni condotto. Dopo avere riaccostato la porta, si recò in cima alla “prisa”, volle vedere da dove entrava l’acqua e notò che l’incuria, aveva reso quasi impossibile che quel canale a sezione quadrata potesse, in futuro, ripigliare la funzione a cui lo stesso era stato, nel tempo destinato. Dopo gli scatti di rito, sedette su un sasso, all’ombra di un enorme pioppo e consumò il suo pasto, dividendolo con un cagnetto bastardo che si accovacciò ai suoi piedi.
Risistemato lo zaino, il ragazzo, seguendo il canale, raggiunse il secondo mulino. Cinquanta metri più a valle, il fiume, allargava il suo alveo e formava una grande conca, la “Naca Marana”, uno specchio d’acqua limpida dove d’estate i ragazzi andavano a fare il bagno e prendevano l’abbronzatura. Giannino conosceva bene il posto, in quanto anch’egli aveva provato l’ebbrezza di immergesi in quella pozza d’acqua. Anche il secondo mulino era in abbandono, le travi del tetto erano imbarcate, la grande ruota a pale era fuori dal suo asse e di porte nemmeno l’ombra. Gli uccelli erano i padroni incontrastati del manufatto, nidi ovunque, anche tra i rovi che ostruivano l’ingresso. Giannino non capì perché nessuno mai si era  preoccupato, non tanto di rimettere in funzione i mulini, quanto di non farli degradare, di conservare una memoria che potesse servire alle generazioni future. Ricaricò con un nuovo rullino la macchina fotografica e fece una serie interminabile di scatti. Stranamente, montato su un traliccio di vecchie tavole per fotografare l’imbocco del grano sulla grande macina, ebbe l’impressione che qualcosa si muovesse tra la polvere, pensò ad un rapace, un allocco o un barbagianni, ma ebbe la sensazione di sentire una vocina. Trattenne il respiro per un po’, poi continuò l’opera di immortalare gli oggetti tutt’intorno. Il sole aveva iniziato la sua discesa verso l’orizzonte e Giannino, caricato il suo zaino iniziò la via del ritorno. Nella sua mente maturò l’idea che i mulini dello Jato meritavano una seconda visita, però uno alla volta, dopo essersi fatto spiegare il funzionamento dal nonno che gliene aveva parlato prima. Il nonno era stato contadino, raccontava che sua madre e sua moglie, in tempi passati, avevano fatto il pane in casa, quindi, lui aveva frequentato i mulini, aveva trasportato a dorso di mulo i sacchi col grano, aveva assistito alle operazioni di molitura, aveva visto girare le grandi ruote spinte dalla forza dell’acqua ed aveva visto uscire la farina da dei grossi tubi in ferro.
Il mattino seguente Giannino si recò al quarto mulino, del terzo non esistevano notizie, qualcuno asseriva che una serie di sassi accatastati sulla riva destra del fiume ne testimoniava l’esistenza. L’impressione fu uguale a quella avuta visitando i primi due: degrado, incuria, disinteresse per i beni etnoantropografici, allora provò delusione e stizza e riprese quanto fu possibile, poi, fece ritorno a casa.
Nel pomeriggio, sistemò i suoi rullini e si recò dal fotografo per lo sviluppo, tre rullini da trentasei pose cadauno, più di cento fotografie. Due giorni dopo le ritirò, si chiuse nella sua cameretta e rimase incredulo, stupito, imbambolato, in quasi tutte le foto compariva un esserino minuscolo, uno di quegli gnomi rappresentati nei libri di favole. Nelle foto scattate al mulino del principe, gli esserini erano tanti, dislocati in ogni dove, sulle assi polverose, sulle macine, sulla grande ruota, sulle tramogge, ovunque. Non sapendo cosa fare e a chi chiedere spiegazioni, raccolse le foto nei raccoglitori, guardò controluce i negativi e, più confuso che altro, si distese sul letto. – Vuoi vedere che gli gnomi esistono davvero – disse a se stesso e, ragionando come un fanciullo di tredici anni, pensò che nulla viene dal nulla, forse erano esistiti in tempi remoti, e la colonia che abitava i mulini era sopravvissuta ai tempi. Ma allora perché lui non li aveva visti e solo la macchina fotografica aveva colto la loro presenza? Bella domanda la sua, ma la verità stava proprio in quelle immagini, non c’era ombra di dubbio, anche sui negativi comparivano gli esserini, non poteva essere uno scherzo di un fotografo burlone, e poi, perché burlarsi di un bambino come lui? Lo colse il sonno e si addormentò. Sognò di essere diventato mugnaio e di mandare avanti il mulino del principe. Mentre apriva le paratie per far entrare l’acqua che permetteva alla grande ruota di girare, gli venne incontro un esserino minuscolo, barbuto, con un cappello a cono in panno rosso, due scarpine a punta ricurva all’insù con in cima due campanellini dal suono argentino. – Ciao, piccolo mugnaio, io sono Alessio, sono il più anziano degli gnomi che abitano i mulini che si trovano lungo questo corso d’acqua, tu sei un ragazzo buono ed intelligente,  perciò abbiamo voluto farci notare da te. Per più secoli abbiamo aiutato i mugnai che hanno fatto funzionare i mulini, senza che loro se ne siano mai accorti. Loro imbiancavano e raccontavano ai loro nipoti storie inventate sulla nostra esistenza, anche se non vere, a noi facevano piacere, tanto serviva ad arricchire la loro fantasia e, siccome le storie erano tutte a lieto fine, i bimbi ci amavano e speravano di trovarci nei luoghi in cui i nonni, con la loro fantasia, ci avevano collocato. Ma di ciò potremo parlarne dopo, ora ti sveglierai, perché questo è solo un sogno, ma troverai sul tuo letto un segno della mia presenza – staccò un campanellino da una scarpa e lo lanciò in aria, poi continuò: - non aver paura, e non parlare con nessuno di questo sogno, gli altri non ti capirebbero, di darebbero del visionario e ti deriderebbero. Noi e te compiremo un’opera meritoria che servirà a quanti verranno dopo di te, vienici a trovare, domani ti aspettiamo al primo mulino, quello del principe, ci saremo tutti. – Giannino si svegliò e stropicciò gli occhi, si girò sul letto e sentì il suono argentino del campanellino, lo prese tra le mani, e quasi tremante disse: - esistono! Non era un sogno! – Riprese i tre gruppi di fotografie e notò che Alessio era uno degli gnomi, quello più anziano, con la barbetta e col cappello a cono di panno rosso. Il nonno era in cucina, sgusciava i piselli che la mamma avrebbe di li a poco preparati, era tentato di raccontargli tutto ma ricordò l’ammonimento di Alessio, allora, gli chiese di riparlargli del funzionamento dei mulini ad acqua.
Il mattino seguente, ripreso il suo zaino, Giannino tornò al mulino del principe. Bisognava farsi spazio tra la vegetazione prima di imboccare il viottolo che portava al vecchio opificio, il ragazzo era abituato a escursioni di questo tipo. Quando guadagnò il viottolo sentì più volte i campanellini tintinnare, tirò un profondo respiro e si incamminò. Al centro del viottolo vide piazzato Alessio, con le sue scarpine con la punta all’insù mancanti di un campanellino, il suo cappello a cono di panno rosso e una minuscola salopet in panno verde. Andò incontro allo gnomo e questi gli sorrise e si carezzò la barbetta ispida. – Io sono Alessio, ti ho parlato in sogno, grazie di essere venuto, tu non dire una parola, sappiamo tutto di te, della tua genuinità, della tua sincerità, del tuo coraggio, dei tuoi crucci e della tua voglia di sapere. Conosciamo la tua famiglia e tuo nonno, quando aveva la tua età veniva in compagnia del padre a macinare il grano, ed anche a lui il vecchio mugnaio, per tenerlo buono e non annoiarlo, raccontava le fiabe sugli gnomi. Allora tutto funzionava a perfezione, poi, l’incuria, l’indolenza, hanno ridotto questi mulini ad un ammasso di ruggine e di degrado. Rendimi il mio campanellino, lo riattaccherò alla mia scarpa e poi andremo  giù al mulino. – Giannino infilò la mano nella tasca dei pantaloni, tirò fuori il campanello e lo porse ad Alessio che lo attaccò alla sua scarpina. – Seguimi – disse lo gnomo – e percorsero il viottolo. Varcata la soglia del mulino, Giannino non credette ai suoi occhi, tutto era lindo, pulito, decine di piccoli  gnomi erano lì, schierati ad aspettarlo, ciascuno aveva accanto un piccolo sacchetto di grano. Alessio si pose in mezzo a loro e disse al ragazzo: - Giannino, tu sei venuto qua solo pochi giorni fa, noi ti abbiamo visto e abbiamo notato il tuo disgusto per il degrado che hai trovato. Questo mulino è un pezzo di storia che appartiene alla gente che abita qui intorno, è stato il mezzo per trasformare in farina il grano prodotto con i sacrifici dei contadini. Negli anni passati è stato una grande conquista, tecnologia all’avanguardia, che ha risparmiato tanta fatica alle massaie che con i piccoli mulini a pietra, a mano, macinavano il grano. Di ciò è giusto che se ne conservi il ricordo, che non si perda la memoria, quindi, l’abbandono, l’incuria, il degrado, sono stati gli errori della generazione di tuo padre. Noi, tu per primo, cercheremo di compiere un’opera meritoria, quella di far si che gli amministratori locali, quelli provinciali, la Regione, attenzionino questi vecchi manufatti, li restaurino e li rendano fruibili a quanti hanno voglia di conoscenza.- Giannino non disse una parola ma assentì col capo. L’anziano gnomo gli andò vicino lo prese per mano e lo accompagnò fuori – chiudi gli occhi e riaprili quando sentirai il gracchiare dei corvi – Giannino chiuse gli occhi ed un istante dopo, al gracchiare dei corvi, li riaprì. Tutt’attorno non c’erano più sterpaglie ma grandi macchie di gerani rossi, il piccolo piazzale antistante era lindo. Alessio disse a Giannino: - vieni, lo senti il rumore dell’acqua nel canale? - Lo condusse accanto alla grande ruota che girava e cigolava sui cardini, allora lo accompagnò dentro. Gli gnomi si davano da fare trasportando alla grande tramoggia i loro sacchetti di grano, le due grandi macine giravano e in una grande cassa di legno veniva giù la farina bianca portata da un tubo di ferro. – Vedi – disse lo gnomo – prima era tutto così! – Giannino era estasiato, per quanto il racconto del nonno fosse stato ricco di particolari, non aveva paragoni con quella visione. Chiuse gli occhi per fissare alla sua mente quanto aveva visto, ma quando li riaprì si ritrovò tra le macerie di quel posto, con accanto Alessio. - Dimmi cosa posso fare? – disse il ragazzo – tanto! – rispose lo gnomo – tu farai da cassa di risonanza, non parlare a nessuno della presenza di noi gnomi, non ti crederebbero, mantieni il segreto, questo è importante! Poi, conduci più gente che puoi in questi mulini, soprattutto ragazzi, spiega loro il funzionamento, coinvolgili a far pressione sugli insegnanti e sui genitori affinchè le autorità si rendano conto che simili beni meritano di rimanere testimoni nel tempo di una cultura contadina che ha fatto la storia di questi territori. – Giannino recepì il messaggio e promise di mettersi all’opera sin da subito, poi chiese ad Alessio: - voi non andrete via, io vi vedrò sempre... – Alessio sorrise – si, sarai l’unico a vederci e a parlarci, di ciò nessuno si accorgerà, ma verrà il tempo in cui tu perderai come tutti la tua innocenza e, come tutti ci dimenticherai, allora non ci vedremo e non ci parleremo più, ma questo tempo è ancora lontano.-
Giannino portò centinaia di ragazzi a visitare i mulini, i genitori vennero giù a decine e con essi gli insegnanti. In tanti manifestarono il bisogno del restauro, e di seguito vennero pure gli amministratori locali e le autorità regionali. Ne parlò la stampa ed un giorno iniziarono le opere di restauro. Giannino era stato infaticabile, tutti i pomeriggi, anche sotto l’acqua battente, si recava al mulino e con Alessio programmavano le azioni successive.
A lavoro finito, quando attorno al vecchio mulino si risentì il rumore dell’acqua nella “prisa” ed il cigolare sui cardini della vecchia ruota, Alessio e tutti gli gnomi si fecero trovare sul piccolo piazzale, all’arrivo di Giannino formarono un cerchio e danzarono attorno a lui, poi, l’anziano gnomo saltò su un grosso sasso e disse al ragazzo: - avvicinati – gli si aggrappò al collo e lo baciò. – Vedi ragazzo mio, è giunto il tempo, tu sei diventato quasi un uomo, l’anno venturo sarai universitario, sei già grande, ora comincerai a perdere la tua innocenza e, pian piano, ci dimenticherai. Come vedi, la tua semplicità, l’amore per lo studio, il tuo coraggio, la tua volontà, il tuo impegno, ci hanno consentito di realizzare un sogno, il nostro ed il tuo sogno, abbiamo reso agli abitanti di queste zone ciò che era loro, la loro storia! – Giannino capì, commosso chiuse gli occhi, forse per trattenere una lacrima, quando li riaprì non vide nessuno attorno a se, si girò attorno, sentì soltanto il suono argentino di mille campanellini ed una vocina in dissolvenza che diceva: - Ciao Giannino, grazie...  





Un popolo che non riesce ad affondare le radici nella propria storia, è un popolo senza futuro!


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