martedì 12 giugno 2012

GLI GNOMI DEL " MULINO DEL PRINCIPE " ... X FAVOLA










 Mulino del Principe





Gnomi, folletti, fate, elfi, ci aiutano a capire il Grande Teatro del Mondo, dove si è sin dalla nascita “agiti”, giusta l’idea pirandelliana secondo la quale siamo tutti “pupi” (marionette, burattini, maschere, ombre), animati dall’onnipotente Spirito divino, che è nel cuore di tutti gli esseri e tutti agita al ritmo incalzante del tempo, col potere della “meraviglia”.
Con le favole, i racconti, le storielle, possiamo aprirci un varco verso quel po’ di libertà che si può conseguire nella recita “a soggetto” del sacro canovaccio del destino, e affrontare il pathos dell’esistenza in un “catartico” gioco di arte e poesia.




Mario Scamardo



Gli gnomi del "mulino del principe"

 



Il fiume Jato ha origine dalle sorgenti di “Procura alta” e “Procura bassa” e da parecchie altre piccole polle, alle pendici dei monti che, chiudono verso nord la Valle dello Jato, coda terminale della Val di Mazara, attraversando tutto un territorio e fino al Golfo di Castellammare dove sfocia, nelle vicinanze del comune di Balestrate.
Tra le due sorgenti, si trova un vecchio maniero, sovrastato da una torre cinquecentesca dalla quale si domina l’intera vallata. Dopo il 1767, data che ne segna la confisca ai padri gesuiti che avevano adattato il maniero a convento, appartenne a Giuseppe Beccadelli Bologna, principe di Camporeale e marchese della Sambuca, già ministro alla corte di Ferdinando IV di Borbone. Alcuni locali del vecchio caseggiato furono scavati nella roccia, con volte a dammuso, risalenti, con buona approssimazione, al periodo arabo. Le presenze di dette volte a dammuso dettero il nome al feudo che si chiama “Dammusi”.
Lungo il corso dello Jato, parte delle acque venivano convogliate in un canale, la “prisa” che, oltre a portarle agli ubertosi agrumeti della zona, venivano sfruttate per far girare le ruote dei mulini e mettere in moto le macine per il grano.
Lungo il suo percorso, dalle sorgenti alla foce, esistono, ormai fermi da tempo, dei mulini. Se ne ha conoscenza almeno di quattro, stante che il primo, quello più grande e più vicino alle sorgenti, viene ancora chiamato il “mulino del principe” e, quasi a metà corso, prima che il fiume affronti la pianura e formi le sue grandi anse, si trova il “quarto mulino”. A proposito di quest’ultimo opificio, bisogna dire che la teoria dei quattro mulini potrebbe essere falsa, in quanto essendo i feudi talvolta abbastanza estesi, come quello di Jato, gli stessi venivano divisi in quattro quarti, per cui il mulino in questione venne così chiamato, in quanto ubicato in un quarto del feudo di Jato, proprio “quarto mulino”.
Giannino era uno scout, dentro il suo zaino, oltre a quanto gli occorreva, portava sempre la sua macchina fotografica e un contenitore con parecchi rullini; quando era passato a comunione, la sua mamma gliela aveva regalata ed il ragazzo ne faceva un ottimo uso. D’estate, a scuola finita, dopo aver conseguito la licenza della scuola dell’obbligo, calzava di buon mattino gli scarponi, riempiva il suo zaino di quanto necessario per trascorrere la giornata per i campi, colmava la sua borraccia e, caricata la sua macchina fotografica, se la poneva a tracolla e percorreva i lunghi sentieri che la sera prima si era segnati su una vecchia carta.
Un mattino di luglio, baciò sua madre che lo accompagnò alla porta e imboccò un percorso che lo portava al fiume Jato. Cartina alla mano, puntò dritto verso il mulino del principe. La strada era in discesa, la costruzione, in riva al fiume, gli apparve dopo qualche migliaio di metri del suo percorso. Un vecchio opificio al quale era addossata la “prisa”, nella quale non scorreva più acqua. La vecchia ruota a pale era là, cigolante, era diventata solo un trespolo per corvi e taccole; un’enorme macchia di rovi cresceva rigogliosa e si abbarbicava ad una murata. Le finestre erano spalancate e la porta d’accesso al vecchio mulino era sgangherata ed appena accostata. Giannino titubò un attimo, poi, scattate tre o quattro foto all’esterno, spinse la porta ed entrò. Al rumore, vennero fuori decine di colombi che avevano nidificato e si sentiva il pigolio dei piccioni nei nidi, costruiti in ogni dove. Dentro, l’acre odore di tanto sterco di uccelli e tante ragnatele, e le macine, ricoperte di spesse polveri, sembravano dormire un sonno antico. Giannino lo vide come un paesaggio incantato, guardò tutt’attorno, s’infilò tra le macine, sbirciò in tutti gli angoli, solo un topino di campagna, guardingo e impaurito, rosicchiava un tubero e i tarli scavavano interminabili gallerie nelle travi che sostenevano il tetto.
Il ragazzo spalancò la porta per avere più luce e, imbracciando la sua macchina, fotografò ogni angolo, ogni meccanismo, ogni tramoggia, ogni condotto. Dopo avere riaccostato la porta, si recò in cima alla “prisa”, volle vedere da dove entrava l’acqua e notò che l’incuria, aveva reso quasi impossibile che quel canale a sezione quadrata potesse, in futuro, ripigliare la funzione a cui lo stesso era stato, nel tempo destinato. Dopo gli scatti di rito, sedette su un sasso, all’ombra di un enorme pioppo e consumò il suo pasto, dividendolo con un cagnetto bastardo che si accovacciò ai suoi piedi.
Risistemato lo zaino, il ragazzo, seguendo il canale, raggiunse il secondo mulino. Cinquanta metri più a valle, il fiume, allargava il suo alveo e formava una grande conca, la “Naca Marana”, uno specchio d’acqua limpida dove d’estate i ragazzi andavano a fare il bagno e prendevano l’abbronzatura. Giannino conosceva bene il posto, in quanto anch’egli aveva provato l’ebbrezza di immergesi in quella pozza d’acqua. Anche il secondo mulino era in abbandono, le travi del tetto erano imbarcate, la grande ruota a pale era fuori dal suo asse e di porte nemmeno l’ombra. Gli uccelli erano i padroni incontrastati del manufatto, nidi ovunque, anche tra i rovi che ostruivano l’ingresso. Giannino non capì perché nessuno mai si era  preoccupato, non tanto di rimettere in funzione i mulini, quanto di non farli degradare, di conservare una memoria che potesse servire alle generazioni future. Ricaricò con un nuovo rullino la macchina fotografica e fece una serie interminabile di scatti. Stranamente, montato su un traliccio di vecchie tavole per fotografare l’imbocco del grano sulla grande macina, ebbe l’impressione che qualcosa si muovesse tra la polvere, pensò ad un rapace, un allocco o un barbagianni, ma ebbe la sensazione di sentire una vocina. Trattenne il respiro per un po’, poi continuò l’opera di immortalare gli oggetti tutt’intorno. Il sole aveva iniziato la sua discesa verso l’orizzonte e Giannino, caricato il suo zaino iniziò la via del ritorno. Nella sua mente maturò l’idea che i mulini dello Jato meritavano una seconda visita, però uno alla volta, dopo essersi fatto spiegare il funzionamento dal nonno che gliene aveva parlato prima. Il nonno era stato contadino, raccontava che sua madre e sua moglie, in tempi passati, avevano fatto il pane in casa, quindi, lui aveva frequentato i mulini, aveva trasportato a dorso di mulo i sacchi col grano, aveva assistito alle operazioni di molitura, aveva visto girare le grandi ruote spinte dalla forza dell’acqua ed aveva visto uscire la farina da dei grossi tubi in ferro.
Il mattino seguente Giannino si recò al quarto mulino, del terzo non esistevano notizie, qualcuno asseriva che una serie di sassi accatastati sulla riva destra del fiume ne testimoniava l’esistenza. L’impressione fu uguale a quella avuta visitando i primi due: degrado, incuria, disinteresse per i beni etnoantropografici, allora provò delusione e stizza e riprese quanto fu possibile, poi, fece ritorno a casa.
Nel pomeriggio, sistemò i suoi rullini e si recò dal fotografo per lo sviluppo, tre rullini da trentasei pose cadauno, più di cento fotografie. Due giorni dopo le ritirò, si chiuse nella sua cameretta e rimase incredulo, stupito, imbambolato, in quasi tutte le foto compariva un esserino minuscolo, uno di quegli gnomi rappresentati nei libri di favole. Nelle foto scattate al mulino del principe, gli esserini erano tanti, dislocati in ogni dove, sulle assi polverose, sulle macine, sulla grande ruota, sulle tramogge, ovunque. Non sapendo cosa fare e a chi chiedere spiegazioni, raccolse le foto nei raccoglitori, guardò controluce i negativi e, più confuso che altro, si distese sul letto. – Vuoi vedere che gli gnomi esistono davvero – disse a se stesso e, ragionando come un fanciullo di tredici anni, pensò che nulla viene dal nulla, forse erano esistiti in tempi remoti, e la colonia che abitava i mulini era sopravvissuta ai tempi. Ma allora perché lui non li aveva visti e solo la macchina fotografica aveva colto la loro presenza? Bella domanda la sua, ma la verità stava proprio in quelle immagini, non c’era ombra di dubbio, anche sui negativi comparivano gli esserini, non poteva essere uno scherzo di un fotografo burlone, e poi, perché burlarsi di un bambino come lui? Lo colse il sonno e si addormentò. Sognò di essere diventato mugnaio e di mandare avanti il mulino del principe. Mentre apriva le paratie per far entrare l’acqua che permetteva alla grande ruota di girare, gli venne incontro un esserino minuscolo, barbuto, con un cappello a cono in panno rosso, due scarpine a punta ricurva all’insù con in cima due campanellini dal suono argentino. – Ciao, piccolo mugnaio, io sono Alessio, sono il più anziano degli gnomi che abitano i mulini che si trovano lungo questo corso d’acqua, tu sei un ragazzo buono ed intelligente,  perciò abbiamo voluto farci notare da te. Per più secoli abbiamo aiutato i mugnai che hanno fatto funzionare i mulini, senza che loro se ne siano mai accorti. Loro imbiancavano e raccontavano ai loro nipoti storie inventate sulla nostra esistenza, anche se non vere, a noi facevano piacere, tanto serviva ad arricchire la loro fantasia e, siccome le storie erano tutte a lieto fine, i bimbi ci amavano e speravano di trovarci nei luoghi in cui i nonni, con la loro fantasia, ci avevano collocato. Ma di ciò potremo parlarne dopo, ora ti sveglierai, perché questo è solo un sogno, ma troverai sul tuo letto un segno della mia presenza – staccò un campanellino da una scarpa e lo lanciò in aria, poi continuò: - non aver paura, e non parlare con nessuno di questo sogno, gli altri non ti capirebbero, di darebbero del visionario e ti deriderebbero. Noi e te compiremo un’opera meritoria che servirà a quanti verranno dopo di te, vienici a trovare, domani ti aspettiamo al primo mulino, quello del principe, ci saremo tutti. – Giannino si svegliò e stropicciò gli occhi, si girò sul letto e sentì il suono argentino del campanellino, lo prese tra le mani, e quasi tremante disse: - esistono! Non era un sogno! – Riprese i tre gruppi di fotografie e notò che Alessio era uno degli gnomi, quello più anziano, con la barbetta e col cappello a cono di panno rosso. Il nonno era in cucina, sgusciava i piselli che la mamma avrebbe di li a poco preparati, era tentato di raccontargli tutto ma ricordò l’ammonimento di Alessio, allora, gli chiese di riparlargli del funzionamento dei mulini ad acqua.
Il mattino seguente, ripreso il suo zaino, Giannino tornò al mulino del principe. Bisognava farsi spazio tra la vegetazione prima di imboccare il viottolo che portava al vecchio opificio, il ragazzo era abituato a escursioni di questo tipo. Quando guadagnò il viottolo sentì più volte i campanellini tintinnare, tirò un profondo respiro e si incamminò. Al centro del viottolo vide piazzato Alessio, con le sue scarpine con la punta all’insù mancanti di un campanellino, il suo cappello a cono di panno rosso e una minuscola salopet in panno verde. Andò incontro allo gnomo e questi gli sorrise e si carezzò la barbetta ispida. – Io sono Alessio, ti ho parlato in sogno, grazie di essere venuto, tu non dire una parola, sappiamo tutto di te, della tua genuinità, della tua sincerità, del tuo coraggio, dei tuoi crucci e della tua voglia di sapere. Conosciamo la tua famiglia e tuo nonno, quando aveva la tua età veniva in compagnia del padre a macinare il grano, ed anche a lui il vecchio mugnaio, per tenerlo buono e non annoiarlo, raccontava le fiabe sugli gnomi. Allora tutto funzionava a perfezione, poi, l’incuria, l’indolenza, hanno ridotto questi mulini ad un ammasso di ruggine e di degrado. Rendimi il mio campanellino, lo riattaccherò alla mia scarpa e poi andremo  giù al mulino. – Giannino infilò la mano nella tasca dei pantaloni, tirò fuori il campanello e lo porse ad Alessio che lo attaccò alla sua scarpina. – Seguimi – disse lo gnomo – e percorsero il viottolo. Varcata la soglia del mulino, Giannino non credette ai suoi occhi, tutto era lindo, pulito, decine di piccoli  gnomi erano lì, schierati ad aspettarlo, ciascuno aveva accanto un piccolo sacchetto di grano. Alessio si pose in mezzo a loro e disse al ragazzo: - Giannino, tu sei venuto qua solo pochi giorni fa, noi ti abbiamo visto e abbiamo notato il tuo disgusto per il degrado che hai trovato. Questo mulino è un pezzo di storia che appartiene alla gente che abita qui intorno, è stato il mezzo per trasformare in farina il grano prodotto con i sacrifici dei contadini. Negli anni passati è stato una grande conquista, tecnologia all’avanguardia, che ha risparmiato tanta fatica alle massaie che con i piccoli mulini a pietra, a mano, macinavano il grano. Di ciò è giusto che se ne conservi il ricordo, che non si perda la memoria, quindi, l’abbandono, l’incuria, il degrado, sono stati gli errori della generazione di tuo padre. Noi, tu per primo, cercheremo di compiere un’opera meritoria, quella di far si che gli amministratori locali, quelli provinciali, la Regione, attenzionino questi vecchi manufatti, li restaurino e li rendano fruibili a quanti hanno voglia di conoscenza.- Giannino non disse una parola ma assentì col capo. L’anziano gnomo gli andò vicino lo prese per mano e lo accompagnò fuori – chiudi gli occhi e riaprili quando sentirai il gracchiare dei corvi – Giannino chiuse gli occhi ed un istante dopo, al gracchiare dei corvi, li riaprì. Tutt’attorno non c’erano più sterpaglie ma grandi macchie di gerani rossi, il piccolo piazzale antistante era lindo. Alessio disse a Giannino: - vieni, lo senti il rumore dell’acqua nel canale? - Lo condusse accanto alla grande ruota che girava e cigolava sui cardini, allora lo accompagnò dentro. Gli gnomi si davano da fare trasportando alla grande tramoggia i loro sacchetti di grano, le due grandi macine giravano e in una grande cassa di legno veniva giù la farina bianca portata da un tubo di ferro. – Vedi – disse lo gnomo – prima era tutto così! – Giannino era estasiato, per quanto il racconto del nonno fosse stato ricco di particolari, non aveva paragoni con quella visione. Chiuse gli occhi per fissare alla sua mente quanto aveva visto, ma quando li riaprì si ritrovò tra le macerie di quel posto, con accanto Alessio. - Dimmi cosa posso fare? – disse il ragazzo – tanto! – rispose lo gnomo – tu farai da cassa di risonanza, non parlare a nessuno della presenza di noi gnomi, non ti crederebbero, mantieni il segreto, questo è importante! Poi, conduci più gente che puoi in questi mulini, soprattutto ragazzi, spiega loro il funzionamento, coinvolgili a far pressione sugli insegnanti e sui genitori affinchè le autorità si rendano conto che simili beni meritano di rimanere testimoni nel tempo di una cultura contadina che ha fatto la storia di questi territori. – Giannino recepì il messaggio e promise di mettersi all’opera sin da subito, poi chiese ad Alessio: - voi non andrete via, io vi vedrò sempre... – Alessio sorrise – si, sarai l’unico a vederci e a parlarci, di ciò nessuno si accorgerà, ma verrà il tempo in cui tu perderai come tutti la tua innocenza e, come tutti ci dimenticherai, allora non ci vedremo e non ci parleremo più, ma questo tempo è ancora lontano.-
Giannino portò centinaia di ragazzi a visitare i mulini, i genitori vennero giù a decine e con essi gli insegnanti. In tanti manifestarono il bisogno del restauro, e di seguito vennero pure gli amministratori locali e le autorità regionali. Ne parlò la stampa ed un giorno iniziarono le opere di restauro. Giannino era stato infaticabile, tutti i pomeriggi, anche sotto l’acqua battente, si recava al mulino e con Alessio programmavano le azioni successive.
A lavoro finito, quando attorno al vecchio mulino si risentì il rumore dell’acqua nella “prisa” ed il cigolare sui cardini della vecchia ruota, Alessio e tutti gli gnomi si fecero trovare sul piccolo piazzale, all’arrivo di Giannino formarono un cerchio e danzarono attorno a lui, poi, l’anziano gnomo saltò su un grosso sasso e disse al ragazzo: - avvicinati – gli si aggrappò al collo e lo baciò. – Vedi ragazzo mio, è giunto il tempo, tu sei diventato quasi un uomo, l’anno venturo sarai universitario, sei già grande, ora comincerai a perdere la tua innocenza e, pian piano, ci dimenticherai. Come vedi, la tua semplicità, l’amore per lo studio, il tuo coraggio, la tua volontà, il tuo impegno, ci hanno consentito di realizzare un sogno, il nostro ed il tuo sogno, abbiamo reso agli abitanti di queste zone ciò che era loro, la loro storia! – Giannino capì, commosso chiuse gli occhi, forse per trattenere una lacrima, quando li riaprì non vide nessuno attorno a se, si girò attorno, sentì soltanto il suono argentino di mille campanellini ed una vocina in dissolvenza che diceva: - Ciao Giannino, grazie...  





Un popolo che non riesce ad affondare le radici nella propria storia, è un popolo senza futuro!


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