mercoledì 4 luglio 2012

IL SACRISTA DELLE ANIME SANTE ... XII FAVOLA ... !!!




La storia di un sito attraverso un racconto ha uno scopo ben preciso, approfittare di un narrato, magari fantasioso, con tutti gli ingradienti della favola, personaggi fantastici, linguaggio minuzioso e colorito, morale, per far conoscere un territorio con la sua storia recente e passata.
La valle dello Jato, coda terminale della Val di Mazara, con l'omonimo monte, dominio arabo fino al 1248, data che segna la disfatta degli arabi da parte di Federico II, arroccati tra Jetas ed Entella, e la loro deportazione in quel di Lucera, è ricchissima di toponimi e ancor di più di siti archeologici, primo tra tutti il "Parco dello Jato" e si presta a questo gioco educativo.
Quella che oggi è la cappella delle Anime Sante, altro non fu, attorno al XII secolo, che un caravanserraglio, un fondaco, dove i viandanti si fermavano, facevano riposare le loro some, si rifocillavano, vi passavano la notte al sicuro e poi ripartivano.
Deportati gli arabi, che ancora la gente del luogo chiama "saraceni", sul sito i monaci della Misericordia edificarono una cappella, si occuparono di imbalsamare i morti e di inumarli nella cripta, ma venuti a discordia abbandonarono il sito che fu ripreso in seguito dai gesuiti che ricostruirono la chiesetta.
Parlando di arabi, si può immaginare che genti e merci si muovessero a dorso di dromedari, nulla di tutto ciò, mai un dromedario era stato introdotto in Sicilia, le carovane o le singole some erano costituite da cavalli, asini e muli.
Il mulo è quello che nel tempo si è affermato di più. Voglio regalarvi una chicca sul mulo, una descrizione del quadrupede in una dichiarazione spontanea di uno jatino del secolo scorso, resa nel 1926 al giudice Triolo, tal Giuseppe Piediscalzi di SAn Giuseppe Jato, tratta dal libro di un mio amico d'infanzia  l'ing. Gioacchino Nania da titolo "San Giuseppe e la mafia"  Edizioni della Battaglia, 2000. [Tirava l'aratro, il carretto e a stravula. Trasportava covoni, frumento, paglia, fieno, uva, mosto, legna ed anche le persone. Percorrendo infinite circonferenze pisava grano, fave favetta, pruvenna e cìciri. Produceva il concime. Partecipava all'occupazione delle terre. Si rendeva utile anche quando riposava: nella stalla, ricavata all'inerno dell'abitazione, emanava calore. Mai un lamento. Sembrava (o forse era?) una macchina. Solo il padrone sapeva che il mulo avesse un'anima.
No! Non era istinto! Secondo lui il mulo capiva le difficoltà della famiglia e... lavorava... lavorava. Nella solitudine e nel silenzio della campagna al mulo raccontava tutto: i suoi segreti, le aspirazioni, le angosce, le paure. Ed anche i rancori. Era un amico vero. Solamente ad una cosa teneva il mulo: la festa di Tagliavia. E lui l'accontentava. Il dì di festa, dopo averlo lavato e strigliato, gli poneva in groppa la vardedda, la sella leggera delle occasioni e, con una coffa di pruvenna, via! Al santuario. Lì comprava due bandierine con l'immagine della Madonna che attaccava alla testiera già adorna di fiori di campo. Certo! Non è che quel giorno sembrasse un cavallo! Era però un mulo felice. Come il suo padrone...].




Mario Scamardo



I Racconti del Borgo
  
Il sacrista delle Anime Sante

(XII favola) 


La chiesina delle Anime Sante, oggi inglobata nell’agglomerato urbano di San Cipirello, era prima fuori dal centro abitato. In periodo arabo, quel luogo era stato un caravanserraglio e, quando i mori che popolavano sia il Monte Jato che le valli circostanti non ci furono più, i monaci della Misericordia, sotto l’egida di Santa Maria la Nuova, sede del Vescovo di Monreale, ebbero l’autorizzazione a costruirvi una chiesa. I monaci, al tempo, sfruttando alcuni manufatti ed usando le pietre di quelli fatiscenti, realizzarono la cappella con alcune pertinenze, dove gli stessi si adoperavano alla cura dei cadaveri, liberandoli dalle viscere, mettendoli a colare ed imbalsamandoli. Una botola al centro del pavimento della navata consentiva, dopo le loro cure, di inumare in una piccola necropoli le salme.
I monaci un giorno vennero a diverbio tra loro, e la loro opera non ebbe più seguito, fino all’abbandono della chiesetta. L’incuria fece il resto, caddero i tetti e pian pianino parte dei muri. La chiesa in periodo postumo fu ricostruita dai Gesuiti, quindi venne, in tempi abbastanza recenti consegnata all’arcipretura, ma non fu mai elevata a parrocchia. Ogni tanto l’arciprete vi celebrava la Santa Messa per accontentare quella piccola pattuglia di fedeli del rione, ma nulla di più. Negli anni cinquanta del secolo scorso, un anziano sacerdote a cui il paesino aveva dato i natali, ritiratosi a vita privata, volle ritornare in paese dove possedeva una bellissima casa, proprio nei pressi della chiesetta. Attorno all’anziano ministro del culto, presto si riunì il vecchio manipolo di fedeli del rione, e tutte le mattine intorno alle otto, i cigolanti banchi della cappella, tirati a lucido, si riempivano di donne, anziani pensionati e molti bambini, per assistere al sacrifico dell’altare.
Claudicante perché ferito ad una caviglia in guerra, Giorgio “u grecu”, così appellato in quanto era nato a Piana degli Albanesi[1], un tempo Piana dei Greci, si propose a sacrista delle Anime Sante, prese in consegna scopa, straccio, pezza per spolverare e chiave del grande portone in pino americano e da quel momento prese dimora in una piccola stanzetta fornita di bagno, adiacente alla stretta scala che porta nel sottotetto.
Giorgio “u grecu” diede vita alla sua opera di restauro, carteggiò e ridipinse il grande portone, sistemò le buche sul marciapiedi, pitturò le pareti, sostituì tutte le lampadine fuse e piantò qualche chiodo qua e la nei banchi per non farli cigolare e, quando l’estro lo coglieva, ritoccava i colori delle tre statue in gesso, la Madonna col Bambino, il Cuore di Gesù e un piccolo Ecce Homo posto in un cantuccio in fondo a destra della navata, che per la polvere secolare e qualche traccia di umidità, si erano nel tempo sbiaditi. Giorgio alle Anime Sante imparò ad infilare l’ago e si adoprò a rammendare qualche stola, alcune cotte, alcune tovaglie per l’altare e sinanco un paliotto. Finita l’opera di restauro usciva sul piccolo sagrato ed alla luce del sole si compiaceva con se stesso e, talvolta, sorrideva con un pizzico di auto ironia. Tutto ciò riempiva la sua giornata e, a volte, non si accorgeva che era calata la sera. La gente del quartiere l’ammirava, tanti passanti si intrattenevano con lui e le donne del circondario gli testimoniavano riconoscenza portandogli talvolta un manicaretto, un dolce, una buona zuppa di cicerchie o della frutta.
La chiesetta non aveva un campanile, l’anziano sacrestano con una lunga scala, presa a prestito dai vicini, raggiunse il cornicione del prospetto dove era ricavato un abbaino, sistemò con del cemento due anelli in ferro dove potere alloggiare l’asse per farvi dondolare una campana, e due mesi dopo si fece aiutare da un paio di fedeli per issarla e sistemarla. Si era recato a dorso di mulo a Burgio[2], un paesino in provincia di Agrigento, per ordinare la campana il sacrista, aveva atteso nella fonderia artigiana e, quando fusero il bronzo, staccò l’unico monile che aveva dal suo panciotto, una catenina d’argento a cui era attaccato il suo orologio da taschino e la gettò nel crogiuolo, in modo da ottenere, a manufatto ultimato, un suono argentino. Tutto questo Giorgio lo realizzava con le offerte dei fedeli, con questo scopo aveva tirato a lucido la cassetta delle elemosine e l’aveva spostato più al centro, affinché fosse più visibile.
La domenica di Pasqua, proprio nell’istante in cui una pia donna tirò giù il telo che copriva il Cristo risorto, il sacrista si attaccò alla cordicella e la campana rintoccò a festa per la prima volta, annunciando il lieto evento. Fu festa nel rione, ed il vecchio prete, ad onta dei suoi acciacchi, per amore dei suoi fedeli, fu costretto ad officiare anche al vespro, per far si che la campana suonasse anche nel pomeriggio.
Giorgio, che aveva fatto della chiesetta la sua dimora, passava le giornate ad eseguire piccoli ritocchi, e qualche volta, accostava una seggiola al centro del pavimento, proprio accanto alla botola che dava accesso alla piccola necropoli e pensieroso batteva il suo bastone a terra ascoltandone il rumore cupo. Un pomeriggio tardo di un pesante inverno, mentre fuori tuonava, il sacrista percorrendo il tratto che va dal portone all’altare, si accorse che le fiammelle delle candele tremolavano e si allungavano all’unisono. Si fermò Giorgio davanti all’altare, stava per segnarsi quando sentì una voce di bambino : - Non temere amico mio, non aver paura, io non posso farti del male – il sacrista si girò su se stesso, la botola al centro del pavimento era sollevata ed un bambino in tenera età era sul ciglio. Sentì Giorgio un formicolio in tutto il corpo, il sangue gli ribolliva, i peli delle sue braccia si rizzarono e si sentì leggero. – Chi sei – chiese quasi balbettando. Il bambino gli sorrise e, come per incanto, si accesero tutte le luci in chiesa. – Sono Marco, tu conoscesti mio padre, ricordi? Era con te nel 1939 in Albania, avevate ventitré anni ciascuno, in trincea ti buttasti addosso a lui allo scoppio di una granata, per ripararlo, ma non ti accorgesti che una pallottola, un momento prima gli aveva trapassato il cuore, tu invece fosti ferito alla caviglia e rimpatriato potesti rivedere tua madre. Io avevo solo quattro anni, a mia madre rimasero una foto ed una medaglia e non ebbe mai una tomba su cui piangere. Furono grandi stenti e due anni dopo ci stroncò la tisi. – Giorgio fu pervaso da una grande serenità, la mente lo portò indietro nel tempo, portò le mani agli occhi e pianse, poi si avvicinò alla botola, ma il bambino lo fermò – non puoi toccarmi, io ho già visto la Luce più intensa. Se vorrai, potrai scendere giù per questa botola, io ti guiderò, ma vedrai soltanto corpi conservati nel tempo, affidati all’incuria, dimenticati. Ti sei fermato tante volte a fissare questa botola e, forse, la tua curiosità ti avrebbe spinto un giorno a provare ad aprirla, ma non ti sarebbe stato possibile, sei vecchio e le tue forze non ti avrebbero consentito di alzare questa enorme lastra. Ora se vuoi andremo assieme, ricordati che ti debbo un favore, ma devo avvertirti che dopo la visita dovrò chiedertene uno io. – Giorgio attonito si segnò, - portami con te, voglio visitarla – Il bambino sorrise, si inginocchiò e si mise in preghiera davanti al Tabernacolo. Poi si alzò e disse al sacrista: - Vai all’altare, prendi un cero acceso, poi recati nella sacrestia, procurati un chiodo, un martello e stacca dal muro il piccolo Crocefisso che è attaccato al tuo capezzale – Giorgio prese il cero, recuperò un chiodo, il martello e staccò il Crocefisso dalla sua stanzetta e si presentò zoppicando all’imbocco della botola. Il bambino gli fece cenno con la testa e gli disse : - Seguimi - . Discesi gli scalini il locale si illuminò di una luce fioca, un lungo corridoio in fondo si biforcava in due tronconi. A destra e a sinistra una serie interminabile di corpi mummificati vestiti con gli abiti del tempo. Giorgio seguiva il bambino e, quando raggiunsero la biforcazione ambedue si fermarono. L’uomo, quasi a seguire l’istinto, sistemò a terra il cero, poi piantò alla parete il chiodo e vi attaccò il piccolo Crocefisso. Il bambino sorrise, - vedi, alle pareti non c’era nulla, questi morti non hanno nemmeno avuto il conforto di un segno della loro fede. I monaci della Misericordia saranno stati anche bravi nel mummificare i loro corpi, certamente hanno operato la pietà cristiana, ma non si sono curati di dotarli di quel simbolo per il quale sono vissuti. La loro superficialità è stata punita, hanno preso a litigare tra loro per interessi diversi: gli averi, il comando, la superbia, e nel tempo si sono dissolti nel nulla. -  Il sacrista teneva in mano il cero  e, preceduto dal bambino, percorse la via del ritorno senza accorgersi che non claudicava. Giunti all’imboccatura il bambino si fermò ed invitò il sacrista a recitare una preghiera. Usciti dalla botola il bambino sistemò la grande lastra di marmo, la chiesa era ancora tutta illuminata e Giorgio meravigliato gli chiese: - ma tu sei rimasto fuori... – il bambino sorrise ancora – io non sono sortito dalla botola, l’ho solo alzata e ti ho accompagnato dentro perché ti dovevo un favore, ricordi? –  Il sacrista fece un cenno con la testa mentre Marco riprese: - tu eri curioso ed io ti ho accontentato, volevi vedere e ti ho fatto vedere, ora sei tu che devi farmi un favore – Giorgio posò il cero sull’altare, alzò lo sguardo verso la Madonna col Bambino che era posta al centro del piccolo abside, si girò e disse: - dimmi cosa debbo fare per farti contento – il bambino si avvicinò al grande portone, prese tra la mani la cordicella della campana e gli disse: - con mia madre e mio padre abitavamo accanto a casa tua, vicino a questa chiesa, noi non abbiamo mai sentito il suono della campana, io non lo ricordo, ma anche tu non lo ricordi. Questa chiesa non aveva mai avuto una campana che ricordasse alle genti di ringraziare Iddio per la vita che ci ha donato, e non li ha mai richiamati alle funzioni. Un’altra superficialità, pari a quella dei monaci della Misericordia, ed il tempo ha consegnato questo luogo consacrato al degrado e all’incuria, trasformandolo talvolta in deposito per vecchi rottami della arcipretura. – Giorgio si avvicinò al bambino – cosa vuoi che faccia per te – il fanciullo fece per tirare la corda ma si fermò – Vedi, per me il tempo non è più un parametro, i giorni, le ore, i minuti, sono inezie di fronte all’eternità, io sono rimasto con questo desiderio, sentire i rintocchi delle campane, e quando chiesi a Gesù di ascoltarle, Egli mi parlò di un uomo buono, mi parlò di te che inconsapevolmente gli avevi dato voce tangibile attraverso il suono della campana che hai installato nell’abbaino del frontespizio di questa chiesa, e siccome Gesù accontenta i bambini esaudendo le loro richieste, mi ha mandato da te affinché il mio desiderio possa essere esaudito. Tu da domani suonerai la campana ogni ora, dall’alba al tramonto, affinché tutti i bambini possano sentirla e ricordarsi che è Gesù che li chiama per offrirgli il Suo amore - sorrise ancora una volta e poi disse a Giorgio: - promettimi che te ne ricorderai – il sacrista assentì ed il fanciullo riprese: - ora chiudi gli occhi, quando li riaprirai io sarò scomparso, ma ti annuncio una sorpresa, verrò a trovarti e ti riporterò per un attimo indietro nel tempo. – Giorgio chiuse gli occhi e quando li riaprì Marco non c’era più. Si spensero le luci nella chiesa e rimasero accesi i ceri con le fiammelle tremolanti.
Il sacrista si avviò verso la sua cameretta e riprese a zoppicare, il sonno lo colse e dormì profondamente fino all’alba.
Il canto del gallo lo svegliò e, come sempre, Giorgio guardò dalla finestra, preparò il suo caffellatte e, quando l’aurora tinse di rosso l’orizzonte si recò in chiesa e suonò la campana, e poi, ad ogni ora si ripetè fino al tramonto, e così furono tutti i giorni.


I bambini del rione, al rintocco della campana, come se guidati da una volontà superiore si riversavano nel sagrato manifestando la loro gioia, ed il vecchio sacerdote faceva riservare le prime quattro file di banchi ai bambini che diventavano sempre più numerosi e tutti, a turno, furono elevati al grado di chierichetto. Finita la funzione lo aspettavano sul sagrato e ponendolo al centro facevano girotondo cantando. L’anziano sacerdote era felice e quando qualcuno cercava di far smettere i bambini perché lo facevano stancare, egli ammoniva: - Ricordate, un prete senza bimbi attorno, è come un albero senza foglie.-
Una sera, all’ultimo rintocco, Giorgio ripercorse il tratto che va dal grande portone all’altare, quando fu sulla botola vide tremolare le fiammelle e le vide allungarsi. Un brivido lo colse, si girò verso il portone e vide il bambino in compagnia di un giovane – Marco – esclamò – sei tornato... – Si- rispose il fanciullo - te lo avevo promesso, tu hai mantenuto l’impegno di suonare ad ogni ora le campane, ed io ho mantenuto l’impegno di ritornare. – Giorgio stringeva le palpebre per capire meglio chi fosse il giovane che l’accompagnava, poi, d’un tratto, - Michele, sei tu, il suo papà, il mio amico... – e scoppiò in pianto – scusami se non sono riuscito a salvarti, avevo provato, ma non sapevo che tu fossi già morto. – Michele ed il bambino si avvicinarono ed il padre disse: - Giorgio, dobbiamo chiederti ancora un favore, tu sei geloso della tua campana, sei geloso anche della cordicella, man mano che il tempo passa le tue forze ti accompagnano sempre meno, fai un piccolo sforzo, da domani insegna ad un bambino a suonare la campana, ma fai in modo che non dimentichi di suonarla ad ogni ora. – Il sacrista assentì con la testa, e capì che quella richiesta era il preludio alla sua fine, abbassò il capo e disse:- persi i miei genitori sono rimasto solo, ho lavorato intensamente per mantenermi ed il resto della vita l’ho dedicato affinché questa chiesa potesse assolvere al compito a cui era stata destinata. Da deposito di ferraglie è ritornata ad essere luogo di culto e tanto mi ha reso felice. Se la volontà del buon Dio mi vorrà un giorno a Se, sarò ancora felice e potrò riabbracciare mia madre. – Michele e Marco tornarono indietro verso la cordicella accanto al grande portone e come d’incanto svanirono.
Giorgio dall’indomani insegnò a sette bambini a scandire i tocchi della campana, e programmò loro i turni affinché una volta la settimana a ciascuno toccasse di svegliarsi al canto del gallo prima dell’alba.
Il tempo puntuale colorì di bianco la testa del sacrista, le sue gambe ebbero sempre meno forza, il suo bastone batteva sempre più forte sul pavimento, e quando si fermava sulla botola gli piaceva ascoltare quel rumore cupo che gli ricordava Marco, allora si segnava ed in silenzio sperava che qualcuno gli parlasse ancora. Non più la voce di Marco, ma quella di uno dei suoi allievi che allo scoccar dell’ora entrava in chiesa e batteva i tocchi, poi, uscendo salutava il vecchio sacrista: - Cristo regni, signor Giorgio – e l’anziano sacrista rispondeva: - sempre! -
Morto il vecchio sacerdote, non si celebrò più nella chiesa delle Anime Sante, venne meno anche Giorgio “u grecu”, tornò il degrado, ma stranamente dall’alba al tramonto, ogni ora, rintocca la campana. Nessuno sa spiegarsi come, c’è chi pensa ad uno spiritello burlone, all’anima del vecchio sacerdote o a quella di Giorgio, ad un santo mattacchione o ad un topo ben pasciuto che si aggrappa alla cordicella. Sul sagrato i bambini continuano a far festa ad ogni rintocco.


 [1] Piana degli Albanesi, Centro della Sicilia nordoccidentale in provincia di Palermo. È situato a sud-ovest del capoluogo, presso l’omonimo bacino artificiale. Fondato nel 1488 da albanesi che fuggivano dal predominio turco, ne è la più importante colonia di Sicilia. Gli abitanti hanno mantenuto la loro lingua, i costumi, la religione cattolica di rito bizantino.
[2] Comune in provincia di Agrigento, noto per l’attività di alcune fonderie che producono campane. 


Mi auguro di averi allietato.

 Raccontare le favole ai bambini è un dovere a cui genitori e nonni non devono sottrarsi!

                                                    Grazie!



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