mercoledì 7 novembre 2012

IGNAZIO EMIGRA IN AUSTRALIA




MARIO SCAMARDO

I RACCONTI DEL BORGO

Emigrazione? Meglio regalarvi un passo del mio libro "IL MATTO".

IGNAZIO EMIGRA IN AUSTRALIA





       [... Una settimana dopo partì Nicola per ripigliare la guida dell’azienda, Vittorio aspettò che fossero ultimati i documenti dello zio ed un mattino, serrata la villetta, assieme ad Ignazio montarono su un taxi che li portò in aeroporto. Da Palermo a Milano Malpensa, poi ventiquattro ore di volo fino a Singapore, un’ora di pausa per sgranchire le gambe nel grande aeroporto e poi ancora cinque ore di volo per Sydney. Ignazio era provato dal lungo viaggio, ma i suoi occhi ridevano. Vittorio prenotò un albergo nella city dove riposarono un pomeriggio ed una intera notte e si rifecero del cambiamento di fuso orario. Al mattino lo spettacolo che vide Ignazio fu stupendo, le strade pullulavano di gente, una bella signora aborigena si accompagnava ad un marito biondo di etnia anglosassone e viceversa, alcune donne bianche al braccio di signori aborigeni, e tanti meticci dai capelli biondi ed altri con la chioma riccioluta e corvina. A Sydney, ma in tutta l’Australia, un popolo giovane di appena duecento anni, aveva una maturità senza tempo, niente razzismo, niente pregiudizi, tanta integrazione e tanta maturità. Forse, pensò Ignazio, ad alcuno era stato affibbiato un nomignolo, non c’erano quattro culi, viscuveddi, pasta fritta o matti. Tutti andavano veloci, tutti avevano un lavoro, nessuno si fermava a fare i crocicchi per spettegolare, nessuno si curava dell’abbigliamento altrui o delle sue movenze. Vittorio si accostò allo zio:
- Che te ne sembra?
- Sono entusiasta, sui libri e sulle guide, nessuno ti parla della maturità di questo popolo ma trovi di tutto sui serpenti, sui canguri, sui koala, sui deserti e sugli allevamenti ovini. Su un opuscolo ho trovato notizie sull’agricoltura, sui grandi vigneti e sulle enormi cantine, e mi ha incuriosito il fatto che una massaia, per fare l’intera spesa spende una diecina di dollari, poi ne spende cinquanta per comprare due bottiglie di vino. Mi sono dato la spiegazione da solo, questo è un popolo maturo abbastanza, e sa che per sostenere l’economia vitivinicola, ognuno deve fare la sua parte. All’abbassarsi dei consumi crollerebbe l’economia dei viticoltori, che è una delle colonne portanti di quella dell’intero paese.
- Mio fratello ha una ragazza meticcia, figlia di un aborigeno e di una olandese, si sono conosciuti all’università lo scorso anno, i suoi genitori sono ambedue medici e lavorano in una clinica ad Adelaide.
- E tu sei fidanzato?
- No zio, io ho ben altro a cui pensare al momento, forse in seguito ci penserò. Andiamo, ti porto a visitare la città, lo faremo con comodo, rimarremo tre giorni e ci rinfrancheremo del lungo viaggio. A casa ci aspettano i miei nonni, quelle persone care che hanno adottato mio padre e che hanno manifestato  il desiderio di conoscerti. Sono molto anziani, ma lucidi ed arzilli.
 



    Per Ignazio le sorprese non erano finite, lui avrebbe rinunciato volentieri sia al riposo che alle escursioni in quella città, ma non avrebbe mai esposto un parere diverso con Vittorio. Visitarono oltre a piazze, monumenti e parchi, l’Opera House che si specchiava con le sue architetture moderne nelle acque della baia; il giardino zoologico di Taronga che si affaccia su Port Jackson, profonda e frastagliata insenatura dell'oceano Pacifico sulle cui sponde sorge la capitale dello stato del Nuovo Galles del Sud; la zona denominata Circular Quay; la Darling Harbour Arcade, piena di negozi; La Sydney Tower che è uno dei grattacieli più noti della città australiana;  lo Stadium Australia, stadio olimpico di Homebush Bay, capace di 110.000 posti; ammirarono il treno a monorotaia, sullo sfondo dei grattacieli di Sydney che attraversa Darling Harbour. Ritornavano in albergo a notte fonda, in quanto Vittorio voleva che lo zio assaggiasse la cucina australiana nei più rinomati ristoranti della città, visitasse i tanti pub, e ammirasse la fantasmagoria delle luci e dei colori della Sydney di notte.  I tre giorni passarono e al mattino seguente, preso un taxi, zio e nipote si fecero accompagnare in aeroporto e si imbarcarono alla volta di Adelaide, ancora cinque ore di volo. Un continente vasto l’Australia, quasi otto milioni di chilometri quadrati, l’aereo era il mezzo per spostarsi, le distanze erano enormi. Adelaide, fondata nel 1836 venne battezzata con il nome della moglie di re Guglielmo IV d'Inghilterra, Adelaide di Sassonia Coburgo-Meiningen, sorge nei pressi del golfo di San Vincenzo, che si affaccia sull'oceano Indiano. E’ sede di due università, di un Museo di storia naturale e della National Gallery of South Australia.
Nicola era nella grande sala d’aspetto in compagnia della sua ragazza, ambedue attesero le formalità del ritiro dei bagagli poi, abbracciarono Vittorio ed Ignazio.
- Zio, lei è Elizabeth, la mia ragazza.
       Ad Ignazio ancora una volta si riempirono gli occhi di lacrime, prese la ragazza per le mani, gliele baciò:
- Sei davvero bella, mio nipote è un ragazzo fortunato.
       Salirono in macchina dopo avere sistemati i bagagli e si avviarono per un lunghissimo viale alberato verso la periferia, dopo avere attraversato l’intera città. La macchina varcò un cancello e si fermò davanti ad un grande porticato che precedeva un enorme androne. 

Adelaide


- Siamo arrivati zio, questa è casa nostra. Il parco tutto attorno è immenso, potrai riposarti quanto vorrai, potrai leggere, nuotare in piscina, pescare o giocare a tennis.
       Ignazio ebbe un attimo di smarrimento, poi, quasi d’istinto andò incontro a due arzilli vecchietti, li salutò prese le loro mani e le baciò. I loro occhi erano pieni di dolore, erano i genitori adottivi di suo fratello. La morte di un genitore, anche se dura da accettare, è nelle cose, ti fa soffrire, ma col tempo ti rassegni. La morte di un figlio è contro natura, non la puoi accettare e la rassegnazione non arriva mai. I loro occhi parlavano per loro e, la presenza dei ragazzi, rispettosi ed affettuosi, non riusciva a colmare il loro dolore.
- Sono il fratello di Giacomo, lasciate che vi abbracci, che vi ringrazi per averlo allevato, per averlo amato. I miei genitori adottivi mi hanno abbandonato poco dopo, solo un raccatta stracci si è curato di me, con l’amore che ha potuto darmi, io l’ho amato e l’ho accudito come fosse stato mio padre.
- Noi abbiamo amato tuo fratello, ma le suore del Bambin Gesù non ci hanno detto che Giacomo aveva un fratellino più piccolo, avremmo preso anche te e vi avremmo fatto crescere assieme, dandovi lo stesso amore. Oggi sei qui con noi, non hai avuto la fortuna di conoscere Giacomo, ma basta guardare Vittorio, è uguale a lui.
       Ignazio non fu capace di trattenere le lacrime, abbracciò più volte i due anziani signori, poi prese sottobraccio Nicola ed Elizabeth e tutti entrarono in casa. La villa era immensa, da perdersi, ed il parco aveva persino un maneggio. Al mattino i ragazzi uscivano per recarsi nella zona di estrazione ad accaparrarsi, direttamente dai minatori, l’opale grezzo o, nei laboratori, dove le pietre venivano lavorate per farne monili di grande pregio per poi commercializzarli. I nonni, da buoni italiani, non avevano perso le abitudini del pranzo alle tredici e della cena alle venti. Giacomo e sua moglie, ne avevano fatto una regola adottata anche dai ragazzi. A tavola Ignazio aprì un discorso con i suoi nipoti, chiese di poter fare un lavoro, di potersi rendere utile, di collaborare per le buone sorti dell’azienda. Vittorio lo lasciò finire, guardò negli occhi suo fratello e poi i nonni:
- Ma zio, noi non vogliamo che tu ti preoccupi, devi solo dirci se stai bene con noi, non occorre che tu lavori, l’attività va a gonfie vele, io e Nicola bastiamo ed avanziamo, tu godi il tuo meritato riposo, e goditi anche l’affetto che ti danno i miei nonni.
- Grazie Vittorio, io non riesco a starmene con le mani in mano, se non vi intralcio, lasciatemi venire con voi al mattino. I tuoi nonni, che hanno amato incondizionatamente mio fratello, sono diventati i miei genitori, se me lo consentono, ed io li voglio bene quanto gliene ha voluto tuo padre. Sono ancora forte e giovane, non mi va di fare il pensionato.
       La signora Camilleri, che era seduta accanto ad Ignazio, vistosamente commossa, come ad assentire, allungò una mano e lo carezzò alle spalle, si alzò, gli prese la testa tra le mani e, come una mamma affettuosa, lo baciò sulla fronte. Nicola si alzò dalla tavola, si avvicinò allo zio, poggiò il petto sulle sue spalle, gli accarezzò il viso:
- Vuoi venire con me appena preso un caffè? Io vado nella zona delle miniere, lì c’è il nostro punto di raccolta del minerale, vedrai come vestono i minatori, ancora come i vecchi cercatori d’oro, con i loro grandi cappelli, i loro zaini, i loro badili a tracolla. Devi solo indossare degli stivali, sai, in Australia ci sono i serpenti più velenosi al mondo.
- Vengo, oggi con te, domattina andrò con tuo fratello e, quando mi sarò reso conto del lavoro, allora vorrò anch’io provare a rendermi  utile, vado a calzare un paio di stivali.


Opale



       Montato in macchina col nipote, Ignazio stette in silenzio a godersi un panorama insolito per lui, interminabili rettilinei pianeggianti, chilometriche recinzioni, miriadi di ovini al pascolo e tenute sconfinate di grano. Ogni tanto, tra le rare sterpaglie saltellava un canguro e nel cielo stormi di parrocchetti dalle piume verde smeraldo. Un’ora di macchina ed il terreno cambiò di colore diventando biancastro. Una serie interminabile di cumuli, uno dietro l’altro, di terra che sembrava ghiaia mista a calcarinite e, accanto ad ogni cumulo, una grossa  buca. Ogni tanto un uomo veniva fuori come una talpa con un canestro sulle spalle, la depositava a terra e la scrutava. In mezzo ai cumuli un prefabbricato che aveva l’aria di essere un posto per il rinfresco poi, un altro grande prefabbricato diviso in scomparti, ed in cima ad uno di essi un cartello impolverato dove c’era scritto: Camilleri’s opal company – Adelaide.



- Siamo arrivati, quello è il nostro stand. Due ragazze raccolgono per noi le pietre, le valutano, contrattano e danno un buono ai cercatori, verso le diciassette, quando smettono di scavare, io o mio fratello ritiriamo i buoni e consegniamo loro il denaro. Qui comprano pietre altre due compagnie, ma noi, su un percorso di una ventina di chilometri abbiamo altri cinque punti di raccolta con due ragazze esperte per postazione. Il mattino seguente un nostro agente ritira il materiale nelle sei postazioni e lo porta in città per la pulitura, la selezione, la lavorazione. Mio padre era un esperto nell’individuare i giacimenti, tutti i cercatori gli volevano un gran bene, lui li consigliava e, spesso, il luogo indicatogli risultava essere un enorme deposito, facendo la loro felicità. A volte basta scostarsi di qualche metro per non trovare nulla, ma i cercatori sono dei sognatori, vivono una intera vita nella speranza di trovare il filone  o la pietra giusta.
- Scusami Nicola, ma l’unico modo per rifornirsi sono i cercatori? Nessuno sbanca con pale meccaniche per avere più materiale da scrutare?
- Si, qualcuno lo fa, ma quello non è il modo migliore per passare al setaccio ogni sasso, e poi il cercatore, davanti ad una bella pietra, pur di tirarla intatta fuori, è capace di lavorarci una intera giornata, se poi è un’opale nobile, di colore bianco-azzurro, ricca di iridescenze, dal valore sostenuto, l’estrazione diventa senza tempo. Quando un cercatore non lo vedi per più di un giorno, o si è esaurito il suo filone e come novella talpa scava un’altra buca, o sta estraendo una grossa pietra.
       Entrarono nello stand Ignazio e suo nipote, salutarono le ragazze e sedettero ad un tavolo. Nicola diede uno sguardo alle matrici dei buoni, chiese di qualche pezzo degno di merito e cominciarono ad entrare i cercatori nei loro tipici cappelli per riscuotere. Nicola e suo fratello, così come lo era stato suo padre, erano benvoluti, tutti si intrattenevano a parlare del più e del meno, tutti chiedevano consigli ed il ragazzo presentò a tutti suo zio che elargì tanti sorrisi e tante strette di mano; l’unico handicapp era l’inglese, ma tanto non lo fece sentire escluso. Con un telefono satellitare Nicola chiamò suo fratello, lo informò e chiuso lo stand, caricò le due ragazze e fece il viaggio di ritorno. In macchina si informò delle impressioni dello zio e rispose alle sue mille curiosità. Arrivati a casa Nicola e lo zio trovarono all’interno del parco una trentina di automobili parcheggiate, Vittorio andò incontro a loro:
- Vi ho preparato una bella sorpresa, tutti gli amici di mio padre, tutti italiani, stasera sono a cena da noi, vogliono conoscerti zio, vogliono festeggiare con noi, non avrai difficoltà, parlano la nostra lingua, alcuni al massimo si esprimeranno in dialetto napoletano o siciliano, sono qua da mezzo secolo e qualcuno non ha mai fatto ritorno in Italia, qua si sono sposati, hanno mandato i loro figlioli a scuola, ma hanno preteso tutti di insegnare loro la propria lingua, il proprio dialetto, quello che si sono portati dietro, per potere conservare le proprie radici. Tra loro ci sono due ragazze docenti universitarie, insegnano lingue straniere, se lo vorrai, in sei mesi saranno ben liete di farti parlare in inglese. Saremo quasi in cento stasera, ho fatto preparare un grande buffet sotto il porticato retrostante accanto alla piscina. Mentre intrattengo gli ospiti andate a farvi una doccia, Helizabeth verrà fra poco con i suoi genitori.
       Ignazio indossò il suo abito scuro, timidamente lasciò la sua camera, scese il grande scalone e, come se fossero i suoi genitori abbracciò i signori Camilleri. Vittorio lo prese sottobraccio e lo condusse sotto il portico nel retro della villa e lo presentò agli astanti. Tutti applaudirono e vollero stringergli la mano. Confuso Ignazio abbracciò tutti, i suoi modi garbati, il suo essere ossequioso con le signore, i suoi baciamano, lo resero ancora più simpatico, tutti poi gli chiesero con un pizzico di nostalgia dell’Italia. La cena si protrasse fino a notte fonda e, quando i tappi dello spumante saltarono per aria, al di la della piscina vennero innescati i fuochi d’artificio.
       Il sonno non colse Ignazio, quanta nostalgia nei volti dei più anziani, chiedevano dell’Italia, volevano sapere, speravano che l’uomo conoscesse i loro paesini di provenienza, i parenti, gli amici. Domande gli erano state rivolte, al limite dell’inverosimile, ed ognuno sperava di far rivivere un ricordo della propria infanzia, un abbeveratoio, un campanile, un puparo, un ciabattino, la balia che l’aveva allattato. Valdes Zoè, scrittrice cubana, una nostalgica per Cuba e l’Avana, con il suo libro Cafè de nostalgia, racconta tutto il dramma di un sentimento, di uno stato d’animo. Evora Cesaria  cantante capoverdiana, soprannominata “la diva scalza” perché si esibiva a piedi nudi, fu eccezionale interprete della morna, espressione atta a definire del male di vivere e della nostalgia per il paese natale. Il direttore della rivista americana  Atlantic Monthly fondata nel 1857 James Russell Lowell, chiedeva storie che dessero voce a quello che venne definito "colore locale", e in effetti il regionalismo, la tendenza a volgersi con nostalgia al passato e alla propria regione di origine, dominò la letteratura degli anni Settanta e Ottanta. Perché per cinquanta o sessant’anni solo pochissimi erano ritornati nella terra natia, pur se per una breve vacanza? Il fenomeno migratorio italiano fu provocato dalla interazione di due principali fattori: la crescita demografica e lo sviluppo tecnologico, che espelleva manodopera dal settore agricolo attirandola in quello industriale. In Australia, colonizzata da irlandesi ed inglesi, per mandare avanti i grandi insediamenti agricoli, occorrevano braccia. Alla fine del secondo conflitto mondiale, i grandi transatlantici sbarcarono migliaia di meridionali italiani nei porti di Brisbane, Sydney, Melbourne, Adelaide, quasi tutti braccianti agricoli, pastori, maniscalchi, potatori, giardinieri, talvolta appena alfabeti, tal’altra no. La differenza con il paese d’origine constava soltanto nell’avere un lavoro continuo, talvolta senza il riposo settimanale, senza conoscenza della lingua, con difficoltà oggettive a percorrere le grandi distanze, ma a pancia piena e, talvolta con la possibilità di mettere da parte miseri risparmi. Qualcuno, negli anni cinquanta definì i nostri emigrati che lavoravano nei campi, gli aborigeni italiani. Consentirsi un viaggio così lungo, spossante e costoso, diventava quasi sempre una chimera e, dopo l’avvenuto trapasso dei genitori in Italia, maturava la rabbia e ci si convinceva di non averne più la voglia. Ipno, pian pianino, si impadronì di Ignazio, lo consegnò a suo figlio Morfeo che lo fece sognare. 


       Parecchi furono gli inviti a cena dei connazionali, interminabili, con decine di portate della cucina locale, ma non mancavano mai gli spaghetti al pomodoro. In molti salotti, un pezzo di patria portato con se prima di imbarcarsi per quella terra così lontana, occupava un posto di riguardo: un tricolore, qualcuno più vecchio con lo stemma sabaudo, una gigantografia di Garibaldi, una foto di Vittorio Emanuele III e la regina Elena di Montenegro, una copia di un quotidiano del giugno 1946, acquistato al porto di Genova prima dell’imbarco, con un titolo a tutta pagina Referendum – Vince la Repubblica, il simbolo della Trinacria, un carrettino siciliano, un piccolo Rinaldo tirato a lucido, cimierato di rosso con impresso nella corazza, nello scudo e nell’elmo le insegne del leone poi, le gigantografie dei vecchi genitori lasciati in Italia. Tutto era cambiato in patria, ma i ricordi non cambiano, le immagini rimangono fissate alla mente e, come feticci, accompagnano l’emigrato, lo fanno sospirare, lo immergono nella sua malinconia, gli danno compagnia, lo riportano ad un caro ed amato passato e lo fanno fantasticare e sognare. ...]



Non so se sono riuscito a darvi un piccolo spaccato dell'emigrazione, ci ho provato.   Ottime riflessioni!






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