MARIO SCAMARDO
I RACCONTI DEL BORGO
Emigrazione? Meglio regalarvi un passo del mio libro "IL MATTO".
IGNAZIO EMIGRA IN AUSTRALIA
[... Una settimana dopo partì Nicola per
ripigliare la guida dell’azienda, Vittorio aspettò che fossero ultimati i
documenti dello zio ed un mattino, serrata la villetta, assieme ad Ignazio
montarono su un taxi che li portò in aeroporto. Da Palermo a Milano Malpensa,
poi ventiquattro ore di volo fino a Singapore, un’ora di pausa per sgranchire
le gambe nel grande aeroporto e poi ancora cinque ore di volo per Sydney.
Ignazio era provato dal lungo viaggio, ma i suoi occhi ridevano. Vittorio
prenotò un albergo nella city dove riposarono un pomeriggio ed una intera notte
e si rifecero del cambiamento di fuso orario. Al mattino lo spettacolo che vide
Ignazio fu stupendo, le strade pullulavano di gente, una bella signora
aborigena si accompagnava ad un marito biondo di etnia anglosassone e
viceversa, alcune donne bianche al braccio di signori aborigeni, e tanti
meticci dai capelli biondi ed altri con la chioma riccioluta e corvina. A
Sydney, ma in tutta l’Australia, un popolo giovane di appena duecento anni,
aveva una maturità senza tempo, niente razzismo, niente pregiudizi, tanta
integrazione e tanta maturità. Forse, pensò Ignazio, ad alcuno era stato
affibbiato un nomignolo, non c’erano quattro
culi, viscuveddi, pasta fritta o matti. Tutti andavano veloci, tutti
avevano un lavoro, nessuno si fermava a fare i crocicchi per spettegolare,
nessuno si curava dell’abbigliamento altrui o delle sue movenze. Vittorio si
accostò allo zio:
- Che te ne
sembra?
- Sono
entusiasta, sui libri e sulle guide, nessuno ti parla della maturità di questo
popolo ma trovi di tutto sui serpenti, sui canguri, sui koala, sui deserti e
sugli allevamenti ovini. Su un opuscolo ho trovato notizie sull’agricoltura,
sui grandi vigneti e sulle enormi cantine, e mi ha incuriosito il fatto che una
massaia, per fare l’intera spesa spende una diecina di dollari, poi ne spende
cinquanta per comprare due bottiglie di vino. Mi sono dato la spiegazione da
solo, questo è un popolo maturo abbastanza, e sa che per sostenere l’economia
vitivinicola, ognuno deve fare la sua parte. All’abbassarsi dei consumi
crollerebbe l’economia dei viticoltori, che è una delle colonne portanti di
quella dell’intero paese.
- Mio fratello ha
una ragazza meticcia, figlia di un aborigeno e di una olandese, si sono
conosciuti all’università lo scorso anno, i suoi genitori sono ambedue medici e
lavorano in una clinica ad Adelaide.
- E tu sei
fidanzato?
- No zio, io ho
ben altro a cui pensare al momento, forse in seguito ci penserò. Andiamo, ti
porto a visitare la città, lo faremo con comodo, rimarremo tre giorni e ci
rinfrancheremo del lungo viaggio. A casa ci aspettano i miei nonni, quelle
persone care che hanno adottato mio padre e che hanno manifestato il desiderio di conoscerti. Sono molto
anziani, ma lucidi ed arzilli.
Per Ignazio le sorprese non erano finite,
lui avrebbe rinunciato volentieri sia al riposo che alle escursioni in quella
città, ma non avrebbe mai esposto un parere diverso con Vittorio. Visitarono
oltre a piazze, monumenti e parchi, l’Opera House che si specchiava con le sue
architetture moderne nelle acque della baia; il giardino zoologico di Taronga
che si affaccia su Port Jackson, profonda e frastagliata insenatura dell'oceano
Pacifico sulle cui sponde sorge la capitale dello stato del Nuovo Galles del
Sud; la zona denominata Circular Quay; la Darling Harbour Arcade, piena di
negozi; La Sydney Tower che è uno dei grattacieli più noti della città australiana; lo Stadium Australia, stadio olimpico di
Homebush Bay, capace di 110.000 posti; ammirarono il treno a monorotaia, sullo
sfondo dei grattacieli di Sydney che attraversa Darling Harbour. Ritornavano in
albergo a notte fonda, in quanto Vittorio voleva che lo zio assaggiasse la
cucina australiana nei più rinomati ristoranti della città, visitasse i tanti
pub, e ammirasse la fantasmagoria delle luci e dei colori della Sydney di
notte. I tre giorni passarono e al mattino
seguente, preso un taxi, zio e nipote si fecero accompagnare in aeroporto e si
imbarcarono alla volta di Adelaide, ancora cinque ore di volo. Un continente
vasto l’Australia, quasi otto milioni di chilometri quadrati, l’aereo era il
mezzo per spostarsi, le distanze erano enormi. Adelaide, fondata nel 1836 venne
battezzata con il nome della moglie di re Guglielmo IV d'Inghilterra, Adelaide
di Sassonia Coburgo-Meiningen, sorge nei pressi del golfo di San Vincenzo, che
si affaccia sull'oceano Indiano. E’ sede di due università, di un Museo di
storia naturale e della National Gallery of South Australia.
Nicola era nella grande sala d’aspetto in
compagnia della sua ragazza, ambedue attesero le formalità del ritiro dei
bagagli poi, abbracciarono Vittorio ed Ignazio.
- Zio, lei è
Elizabeth, la mia ragazza.
Ad Ignazio ancora una volta si riempirono
gli occhi di lacrime, prese la ragazza per le mani, gliele baciò:
- Sei davvero
bella, mio nipote è un ragazzo fortunato.
Salirono in macchina dopo avere sistemati
i bagagli e si avviarono per un lunghissimo viale alberato verso la periferia,
dopo avere attraversato l’intera città. La macchina varcò un cancello e si
fermò davanti ad un grande porticato che precedeva un enorme androne.
Adelaide
- Siamo arrivati
zio, questa è casa nostra. Il parco tutto attorno è immenso, potrai riposarti
quanto vorrai, potrai leggere, nuotare in piscina, pescare o giocare a tennis.
Ignazio ebbe un attimo di smarrimento,
poi, quasi d’istinto andò incontro a due arzilli vecchietti, li salutò prese le
loro mani e le baciò. I loro occhi erano pieni di dolore, erano i genitori
adottivi di suo fratello. La morte di un genitore, anche se dura da accettare,
è nelle cose, ti fa soffrire, ma col tempo ti rassegni. La morte di un figlio è
contro natura, non la puoi accettare e la rassegnazione non arriva mai. I loro
occhi parlavano per loro e, la presenza dei ragazzi, rispettosi ed affettuosi,
non riusciva a colmare il loro dolore.
- Sono il
fratello di Giacomo, lasciate che vi abbracci, che vi ringrazi per averlo
allevato, per averlo amato. I miei genitori adottivi mi hanno abbandonato poco
dopo, solo un raccatta stracci si è curato di me, con l’amore che ha potuto
darmi, io l’ho amato e l’ho accudito come fosse stato mio padre.
- Noi abbiamo
amato tuo fratello, ma le suore del Bambin Gesù non ci hanno detto che Giacomo
aveva un fratellino più piccolo, avremmo preso anche te e vi avremmo fatto
crescere assieme, dandovi lo stesso amore. Oggi sei qui con noi, non hai avuto
la fortuna di conoscere Giacomo, ma basta guardare Vittorio, è uguale a lui.
Ignazio non fu capace di trattenere le
lacrime, abbracciò più volte i due anziani signori, poi prese sottobraccio
Nicola ed Elizabeth e tutti entrarono in casa. La villa era immensa, da
perdersi, ed il parco aveva persino un maneggio. Al mattino i ragazzi uscivano
per recarsi nella zona di estrazione ad accaparrarsi, direttamente dai minatori,
l’opale grezzo o, nei laboratori, dove le pietre venivano lavorate per farne
monili di grande pregio per poi commercializzarli. I nonni, da buoni italiani,
non avevano perso le abitudini del pranzo alle tredici e della cena alle venti.
Giacomo e sua moglie, ne avevano fatto una regola adottata anche dai ragazzi. A
tavola Ignazio aprì un discorso con i suoi nipoti, chiese di poter fare un
lavoro, di potersi rendere utile, di collaborare per le buone sorti
dell’azienda. Vittorio lo lasciò finire, guardò negli occhi suo fratello e poi
i nonni:
- Ma zio, noi non
vogliamo che tu ti preoccupi, devi solo dirci se stai bene con noi, non occorre
che tu lavori, l’attività va a gonfie vele, io e Nicola bastiamo ed avanziamo,
tu godi il tuo meritato riposo, e goditi anche l’affetto che ti danno i miei
nonni.
- Grazie
Vittorio, io non riesco a starmene con le mani in mano, se non vi intralcio,
lasciatemi venire con voi al mattino. I tuoi nonni, che hanno amato
incondizionatamente mio fratello, sono diventati i miei genitori, se me lo
consentono, ed io li voglio bene quanto gliene ha voluto tuo padre. Sono ancora
forte e giovane, non mi va di fare il pensionato.
La signora Camilleri, che era seduta
accanto ad Ignazio, vistosamente commossa, come ad assentire, allungò una mano
e lo carezzò alle spalle, si alzò, gli prese la testa tra le mani e, come una
mamma affettuosa, lo baciò sulla fronte. Nicola si alzò dalla tavola, si avvicinò
allo zio, poggiò il petto sulle sue spalle, gli accarezzò il viso:
- Vuoi venire con
me appena preso un caffè? Io vado nella zona delle miniere, lì c’è il nostro
punto di raccolta del minerale, vedrai come vestono i minatori, ancora come i
vecchi cercatori d’oro, con i loro grandi cappelli, i loro zaini, i loro badili
a tracolla. Devi solo indossare degli stivali, sai, in Australia ci sono i
serpenti più velenosi al mondo.
- Vengo, oggi con
te, domattina andrò con tuo fratello e, quando mi sarò reso conto del lavoro,
allora vorrò anch’io provare a rendermi
utile, vado a calzare un paio di stivali.
Montato in macchina col nipote, Ignazio
stette in silenzio a godersi un panorama insolito per lui, interminabili
rettilinei pianeggianti, chilometriche recinzioni, miriadi di ovini al pascolo
e tenute sconfinate di grano. Ogni tanto, tra le rare sterpaglie saltellava un
canguro e nel cielo stormi di parrocchetti dalle piume verde smeraldo. Un’ora
di macchina ed il terreno cambiò di colore diventando biancastro. Una serie
interminabile di cumuli, uno dietro l’altro, di terra che sembrava ghiaia mista
a calcarinite e, accanto ad ogni cumulo, una grossa buca. Ogni tanto un uomo veniva fuori come
una talpa con un canestro sulle spalle, la depositava a terra e la scrutava. In
mezzo ai cumuli un prefabbricato che aveva l’aria di essere un posto per il
rinfresco poi, un altro grande prefabbricato diviso in scomparti, ed in cima ad
uno di essi un cartello impolverato dove c’era scritto: Camilleri’s opal company – Adelaide.
- Siamo arrivati,
quello è il nostro stand. Due ragazze raccolgono per noi le pietre, le
valutano, contrattano e danno un buono ai cercatori, verso le diciassette,
quando smettono di scavare, io o mio fratello ritiriamo i buoni e consegniamo
loro il denaro. Qui comprano pietre altre due compagnie, ma noi, su un percorso
di una ventina di chilometri abbiamo altri cinque punti di raccolta con due
ragazze esperte per postazione. Il mattino seguente un nostro agente ritira il
materiale nelle sei postazioni e lo porta in città per la pulitura, la
selezione, la lavorazione. Mio padre era un esperto nell’individuare i
giacimenti, tutti i cercatori gli volevano un gran bene, lui li consigliava e,
spesso, il luogo indicatogli risultava essere un enorme deposito, facendo la
loro felicità. A volte basta scostarsi di qualche metro per non trovare nulla,
ma i cercatori sono dei sognatori, vivono una intera vita nella speranza di
trovare il filone o la pietra giusta.
- Scusami Nicola,
ma l’unico modo per rifornirsi sono i cercatori? Nessuno sbanca con pale
meccaniche per avere più materiale da scrutare?
- Si, qualcuno lo
fa, ma quello non è il modo migliore per passare al setaccio ogni sasso, e poi
il cercatore, davanti ad una bella pietra, pur di tirarla intatta fuori, è
capace di lavorarci una intera giornata, se poi è un’opale nobile, di colore
bianco-azzurro, ricca di iridescenze, dal valore sostenuto, l’estrazione
diventa senza tempo. Quando un cercatore non lo vedi per più di un giorno, o si
è esaurito il suo filone e come novella talpa scava un’altra buca, o sta
estraendo una grossa pietra.
Entrarono nello stand Ignazio e suo
nipote, salutarono le ragazze e sedettero ad un tavolo. Nicola diede uno
sguardo alle matrici dei buoni, chiese di qualche pezzo degno di merito e
cominciarono ad entrare i cercatori nei loro tipici cappelli per riscuotere.
Nicola e suo fratello, così come lo era stato suo padre, erano benvoluti, tutti
si intrattenevano a parlare del più e del meno, tutti chiedevano consigli ed il
ragazzo presentò a tutti suo zio che elargì tanti sorrisi e tante strette di
mano; l’unico handicapp era l’inglese, ma tanto non lo fece sentire escluso. Con
un telefono satellitare Nicola chiamò suo fratello, lo informò e chiuso lo stand,
caricò le due ragazze e fece il viaggio di ritorno. In macchina si informò
delle impressioni dello zio e rispose alle sue mille curiosità. Arrivati a casa
Nicola e lo zio trovarono all’interno del parco una trentina di automobili
parcheggiate, Vittorio andò incontro a loro:
- Vi ho preparato
una bella sorpresa, tutti gli amici di mio padre, tutti italiani, stasera sono
a cena da noi, vogliono conoscerti zio, vogliono festeggiare con noi, non avrai
difficoltà, parlano la nostra lingua, alcuni al massimo si esprimeranno in
dialetto napoletano o siciliano, sono qua da mezzo secolo e qualcuno non ha mai
fatto ritorno in Italia, qua si sono sposati, hanno mandato i loro figlioli a
scuola, ma hanno preteso tutti di insegnare loro la propria lingua, il proprio
dialetto, quello che si sono portati dietro, per potere conservare le proprie
radici. Tra loro ci sono due ragazze docenti universitarie, insegnano lingue
straniere, se lo vorrai, in sei mesi saranno ben liete di farti parlare in
inglese. Saremo quasi in cento stasera, ho fatto preparare un grande buffet
sotto il porticato retrostante accanto alla piscina. Mentre intrattengo gli
ospiti andate a farvi una doccia, Helizabeth verrà fra poco con i suoi
genitori.
Ignazio indossò il suo abito scuro,
timidamente lasciò la sua camera, scese il grande scalone e, come se fossero i
suoi genitori abbracciò i signori Camilleri. Vittorio lo prese sottobraccio e
lo condusse sotto il portico nel retro della villa e lo presentò agli astanti.
Tutti applaudirono e vollero stringergli la mano. Confuso Ignazio abbracciò
tutti, i suoi modi garbati, il suo essere ossequioso con le signore, i suoi
baciamano, lo resero ancora più simpatico, tutti poi gli chiesero con un
pizzico di nostalgia dell’Italia. La cena si protrasse fino a notte fonda e,
quando i tappi dello spumante saltarono per aria, al di la della piscina
vennero innescati i fuochi d’artificio.
Il sonno non colse Ignazio, quanta
nostalgia nei volti dei più anziani, chiedevano dell’Italia, volevano sapere,
speravano che l’uomo conoscesse i loro paesini di provenienza, i parenti, gli
amici. Domande gli erano state rivolte, al limite dell’inverosimile, ed ognuno
sperava di far rivivere un ricordo della propria infanzia, un abbeveratoio, un
campanile, un puparo, un ciabattino, la balia che l’aveva allattato. Valdes
Zoè, scrittrice cubana, una nostalgica per Cuba e l’Avana, con il suo libro Cafè de nostalgia, racconta tutto il
dramma di un sentimento, di uno stato d’animo. Evora Cesaria cantante capoverdiana, soprannominata “la diva scalza” perché si esibiva a
piedi nudi, fu eccezionale interprete della morna,
espressione atta a definire del male di vivere e della nostalgia per il paese
natale. Il direttore della rivista americana
Atlantic Monthly fondata nel
1857 James Russell Lowell, chiedeva storie che dessero voce a quello che venne
definito "colore locale", e
in effetti il regionalismo, la tendenza a volgersi con nostalgia al passato e
alla propria regione di origine, dominò la letteratura degli anni Settanta e
Ottanta. Perché per cinquanta o sessant’anni solo pochissimi erano ritornati
nella terra natia, pur se per una breve vacanza? Il fenomeno migratorio
italiano fu provocato dalla interazione di due principali fattori: la crescita
demografica e lo sviluppo tecnologico, che espelleva manodopera dal settore
agricolo attirandola in quello industriale. In Australia, colonizzata da
irlandesi ed inglesi, per mandare avanti i grandi insediamenti agricoli,
occorrevano braccia. Alla fine del secondo conflitto mondiale, i grandi transatlantici
sbarcarono migliaia di meridionali italiani nei porti di Brisbane, Sydney,
Melbourne, Adelaide, quasi tutti braccianti agricoli, pastori, maniscalchi,
potatori, giardinieri, talvolta appena alfabeti, tal’altra no. La differenza
con il paese d’origine constava soltanto nell’avere un lavoro continuo,
talvolta senza il riposo settimanale, senza conoscenza della lingua, con
difficoltà oggettive a percorrere le grandi distanze, ma a pancia piena e,
talvolta con la possibilità di mettere da parte miseri risparmi. Qualcuno, negli
anni cinquanta definì i nostri emigrati che lavoravano nei campi, gli aborigeni italiani. Consentirsi un
viaggio così lungo, spossante e costoso, diventava quasi sempre una chimera e,
dopo l’avvenuto trapasso dei genitori in Italia, maturava la rabbia e ci si
convinceva di non averne più la voglia. Ipno, pian pianino, si impadronì di
Ignazio, lo consegnò a suo figlio Morfeo che lo fece sognare.
Parecchi furono gli inviti a cena dei
connazionali, interminabili, con decine di portate della cucina locale, ma non
mancavano mai gli spaghetti al pomodoro. In molti salotti, un pezzo di patria
portato con se prima di imbarcarsi per quella terra così lontana, occupava un
posto di riguardo: un tricolore, qualcuno più vecchio con lo stemma sabaudo,
una gigantografia di Garibaldi, una foto di Vittorio Emanuele III e la regina
Elena di Montenegro, una copia di un quotidiano del giugno 1946, acquistato al
porto di Genova prima dell’imbarco, con un titolo a tutta pagina Referendum – Vince la Repubblica, il
simbolo della Trinacria, un carrettino siciliano, un piccolo Rinaldo tirato a
lucido, cimierato di rosso con impresso nella corazza, nello scudo e nell’elmo
le insegne del leone poi, le gigantografie dei vecchi genitori lasciati in
Italia. Tutto era cambiato in patria, ma i ricordi non cambiano, le immagini
rimangono fissate alla mente e, come feticci, accompagnano l’emigrato, lo fanno
sospirare, lo immergono nella sua malinconia, gli danno compagnia, lo riportano
ad un caro ed amato passato e lo fanno fantasticare e sognare. ...]
Non so se sono riuscito a darvi un piccolo spaccato dell'emigrazione, ci ho provato. Ottime riflessioni!
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