Mario Scamardo
Masi Frisina, inteso “cannalata”[1], aveva preso più acqua lui che una “saia”[2]. Di professione faceva lo stagnaro, era balbuziente, ma cantava con voce tenorile, senza mai incepparsi. Il suo era un dono che il buon Dio gli aveva dato e lui, quasi per ringraziarLo, cantava sempre, durante il lavoro, dentro il circolo degli artigiani, dietro le processioni, ai battesimi, ai matrimoni. Mastro Santo Milia, muratore, passava tutti i pomeriggi a suonare sia la fisarmonica che l’organetto di cui era un virtuoso, mentre mastro Vittorio Ferrigno, falegname e don Saverio Marcato, agricoltore, erano due virtuosi, il primo di chitarra, il secondo di violino e mandolino.
Nel rione “Muntagna”, dove tutti abitavano, era sempre festa; d’estate si piazzavano sul marciapiedi “abbalatato”[3] prospiciente l’abitazione del violinista e davano vita ad un concerto, dove talvolta i versi venivano improvvisati e raccontavano con ironia le vicende del paese: piccoli pettegolezzi, liti tra vicini di casa, “liccate”[4] tra ragazze da marito e aitanti giovanotti dai capelli unti di brillantina, piccoli intrallazzi, tante “fuitine” accondiscendenti e forzive e qualche “’nchiuiuta’[5]. Quando le ombre si facevano più lunghe e Masi “cannalata” lasciava, dopo avere cantato un bel po’ di pezzi, che la piccola orchestra desse fondo a brani classici dove i solisti a turno si esibivano dando sfogo alla loro maestria, allora, dal vicinato, a turno, il padrone di casa portava fuori, aiutato dalla moglie, un grosso pentolone di fave bollite, di cicerchie o di ceci. Poi facevano il giro una serie di bottiglie di buon vino e per gli orchestrali “a menzalora”[6]. Finite le fave ed il vino, ripigliava a suonare l’orchestrina e “cannalata” allietava gli astanti con arie celebri e romanze.
Don Saverio era il maggiorente del gruppo, in mezzo al suo vigneto, alle porte del paese, in assenza di orecchie indiscrete, qualcuno andava a chiedere una prestazione, una serenata alla ragazza amata, ad un amore traballante, una serenata alla vedova disposta a rimaritarsi, una serenata a scherno, una canzonatura.
Era risaputo in paese che agli artisti non potevano essere addebitate colpe, e don Saverio, pur sapendo tutto ciò, se poteva, dissuadeva il richiedente troppo esigente e non allineato con le norme di buona convivenza.
Riunita l’orchestra ed il cantante, fatto arrivare don Vincenzo Curreri che non sapeva suonare, ma era abilitato nel gruppo come porta chitarra e porta “sticchetta”[7], veniva illustrata la richiesta e si dava corso a scrivere il testo ed accoppiarvi la musica opportuna.
Nel giorno, all’ora e nei pressi del posto convenuto, il giovane spasimante si poneva assieme a Masi “cannalata” sotto la finestra dell’amata, dava un’ultima ravviata ai capelli, accendeva, tenendola sempre tra le labbra una sigaretta, e mastro Santo Milia dava fiato alla sua fisarmonica, su una nota tutti accordavano gli strumenti e si dava il via alla serenata.
Ogni componente del vicinato sbirciava dalle imposte socchiuse a luci spente per non farsi notare, e si rendeva conto della situazione. Anche dall’imposta dell’amata si sbirciava al buio, se il ragazzo era gradito alla famiglia, si aspettava il secondo brano e poi veniva aperta l’imposta dopo avere acceso un lume all’interno. Come d’incanto si spalancavano le altre imposte e scrosciavano gli applausi in segno di augurio per l’amore dichiarato. Tutti chiedevano brani da eseguire, mentre il padre dell’amata spalancava le porte ed offriva agli orchestrali un menù fatto di “mennuli atturrati”, “favi caliati”,”calia” e sempre un buon bicchiere di vino.
Non era così tutte le sere, se lo spasimante non era gradito alla famiglia, dopo il primo brano, i due sotto il balcone si guadagnavano una o più secchiate d’acqua e, quando andava peggio, qualche “rinalata”[8].
Masi Frisina, spesso si ricopriva con una piccola cerata, ma era ben poca cosa a fronte di una sfilza di secchiate. Nella sua carriera di cantante e stornellatore, aveva preso tanta acqua, come diceva quando raccontava balbettando le sue esibizioni: m’haiu assuppatu cchiù acqua eu di nna palidda di baccalaru, sia di vivu ca di mortu! Ragion per la quale tutti lo chiamavano “cannalata”.
Le serenate al chiar di luna sono certamente senza tempo, sicuramente nell’Eden, nelle notti di luna piena, Adamo cantò il suo amore per Eva; nel periodo medievale, sotto i veroni si cantò per l’amata. Antiche tradizioni, risalenti alla metà del Seicento, ci riportano alle cantate profane eseguite in occasioni ufficiali, di sera e generalmente all'aperto. Compositori italiani ne scrissero, come Scarlatti e Vivaldi. In Spagna, la Cocla, un canto popolare con un linguaggio colloquiale e con molti doppi sensi suscita talvolta il comico, ma spesso rasenta il satirico. Nella patria di Ermocrate e Ducezio, di Antonello da Messina, di Pirandello, dominata da Sicani, Siculi, Greci, Romani, Bizantini, Francesi, Spagnoli, Borboni, Piemontesi e quant’altro, è rimasto un tal sedimento di culture, da far si che le serenate al chiar di luna di Sicilia, siano la sintesi di esse, per cui tutte, in ogni paesino più remoto, presentano peculiarità diverse pur cantando sempre l’amore, che le rendono suggestive.
In una serenata a scherno, a proposito di una ‘nchiuiuta, è stata eseguita dai personaggi sopra menzionati la canzone che ho nel tempo raccolto.
A ‘nchiuiuta
Nun su chiacchiari ma è veru,
comu Diu ch’è ‘ntall’artaru
chista figghia du firraru,
comu idda nun cinn’è.
Stati attenti li ‘mmitati,
tutti quanti ‘ncumpagnia,
pi livaricci la robba,
si ‘nchiueru a La Milia.
Giuvinotti scarsuliddi,
signorini assai ‘ntricanti,
fannu cosi stravacanti
p’un sapirisi spiegà.
Lu picciottu spinsirato
‘nca truvavasi spugghiatu
vitti trasiri a Sarina
pi putissilu spusà.
S’arricampa ddà so matri,
arristannu sbalurduta:
- fimminazza scillirata,
a me figghiu vò ‘ngannà?
Lu firraru era filici
ca so figghia avia arriccutu,
ma lu cuntu chi si fici
ci arristau a metà strata.
Lu firraru iu pi liggi,
ma la liggi arrispunniu:
- caminati in giusta via,
nun ‘nzurtati a La Milia,
ora itivi a curari,
accattati un chilu i carni,
l’arrustiti ‘nta grarigghia,
rinfurzati a vostra figghia
ca rimediu nun c’è cchiù.
Nun su chiacchiari ma è veru,
comu Diu ch’è ‘ntall’artaru
chista figghia du firraru,
comu idda nun cinn’è.
Autore: Scamardo Saverio Fine anni’40
Racconto orale di Vincenzo La Milia nel febbraio del 2009
[1] Grondaia
[2] Canale atto al trasporto dell’acqua per l’irrigazione dei campi.
[3] Grande marciapiede realizzato con grandi pietre squadrate.
[4] Relazioni amorose, flirt.
[5] Escamotage all’impedimento delle famiglie al matrimonio di due innamorati. La ragazza o il ragazzo si introduceva nella casa dell’altro quando non c’era la famiglia, chiudeva la porta e i due consumavano, quindi, il matrimonio riparatore.
[6] Piccola botticella in doghe di legno capiente un paio di litri con due fori, uno sul fianco per poggiarvi le labbra, l’altro su un tompagno per fare in modo da far entrare l’aria.
[7] Plettro, penna.
[8] Urina contenuta negli orinali che al tempo trovavano collocazione sotto i letti, o addirittura i “cantari”.
I nomi degli orchestrali e del cantante sono di fantasia, il resto è ancora vivo nel mio ricordo.
Nessun commento:
Posta un commento