Mario Scamardo
La cucina dei palermitani
Pubblicato nel novembre 2005 sulla rivista: LA SICILIA RITROVATA
Palermo, dove il sole di luglio ti fa bruciare la pelle e lo scirocco ti screpola le labbra, dove tutto sembra essere fatalità, dove l’Oriente e l’Occidente non hanno una linea di demarcazione, dove i quartieri più antichi assomigliano alle medine e dove i mercati non son altro che pezzi di bazar, in cui la gente tratta, come nei suk delle città maghrebine.
Palermo con i suoi contrasti, con la forza dei suoi colori, col profumo delle sue zaghere, con la bellezza della sua statuaria, con la monumentalità dei suoi palazzi, con la limpidezza del suo mare, con gli odori forti e ammalianti della sua cucina di strada, affascina, seduce ed invita a fermarsi.
I Greci, già nel III secolo a.C. usavano, comprare i cibi cotti, pronti per essere mangiati, per strada. I palermitani questa usanza l’hanno trasformata nel tempo, prima in un’esigenza e poscia in un rito.
J.W. Goethe così scriveva nel suo <<Italienische Reise>>: “Quanto poi agli alimenti di quaggiù, non ho ancora detto nulla, mentre si tratta di un capitolo tutt’altro che indifferente.”
I secoli sono stati testimoni di una moltitudine di dominazioni a Palermo: Fenici, Greci, Romani, Bizantini, Arabi, Normanni, Svevi, Angioini, Aragonesi, Spagnoli, Borboni. Ciascuna di esse ha lasciato tracce inconfondibili nelle tradizioni, nei costumi e nella gastronomia della città. Tantissimo è stato distrutto o dimenticato ma, all’ombra delle vecchie porte della città, in talune strade, nei suoi pittoreschi mercati, questa storia sopravvive ancora nella cucina di strada o com’era altrimenti detta “dei buffettieri”, termine che deriva dal francese buffet o dallo spagnolo bufete. Quella di strada non è certo una cucina nobile, ma è fantasiosa, ricca e nutriente. Le friggitorie, anche se oggi in maniera meno copiosa, sono sparse per tutta la città. In esse è possibile assaggiare gli arancini, le panelle, i crocchè, i rascaturi, le melanzane fritte a fette, i felli, o quelle intere, tagliate in quarti, lasciando unite le estremità, i quagghi, le verdure in pastella, cardi, broccoli e carciofi, ed una quantità di pesce fritto che va dai merluzzetti alle vope, dai polipetti alle seppioline. Nei rioni popolari e nei mercati si trovano i banchi del pani ca meusa, quelli con la quarumi (matrazza, trippa, centupeddi, zirenu, quagghiaru e vureddu a cura), con la frittula, con i stigghioli, con i calli e le cartilagini lesse (aricchi, nasu, mussu, carcagnola e matruzza). La cucina di strada offre anche il suo prodotto di forno, u sfincionellu, e i dolci: a petrafennula, u bomboloni, a cubbaita. Tipicamente di sapore orientale è la cura con cui vengono esposte frutta e verdura, sia nei mercati (Capo, Vucciria, Ballarò), che sui banchi dei fruttivendoli rionali, dove è possibile entrare ed acquistare un coppu di patatine novelle lesse o di minuscoli cacucciuliddi da spiluccare strada facendo. Per le strade non è difficile trovare, con la sua bancarella multicolore o col suo carrettino trainato a mano, colmo di sanguigni, muscateddi o gialli (rispettivamente fichidindia, di solito scuzzulati, di colore rosso, bianco, giallo), u ficuriniaru (il venditore di fichidindia). Sulle bancarelle estive si offrono fette d’anguria fresca, su altre a simenza, i favi caliati, a calia, i carrubbi ‘nfurnati, i nuciddi atturrati, u tirruni, su altre ancora, è possibile gustare del freschissimo polipo lesso o una infinità di frutti di mare, dai mitili ai cannolicchi, alle ostriche, ai fasulara, ai muccuna. Infine i gelati; si può chiedere in qualunque angolo della città all’omino col triciclo bardato a festa con ruciachi e lanigghi, col cassone pitturato a mano come i carretti siciliani, dove sono ritratte scene dal “Trabazio”, dai “Paladini di Francia”, dal “Rinaldo”, dal “Rinaldino”, opere epiche e cavalleresche messe in scena dagli opranti dell’isola, nna broscia, un cannistrinu, nna sciallotta, al gusto di limone, al gusto di vaniglia, di torrone, di fragola, di pistacchio, di more e persino al gelsomino.
Di cucine palermitane ce ne sono altre due, quella popolare e quella patrizia o baronale dei monsù. La prima, da preparare e consumare in casa, è costituita, molto spesso, da piatti unici, la pasta con le sarde o con i broccoli arriminati, lo sformato di anelletti al forno, oppure da un trittico di portate, che oltre alla pasta (tipicissimi i bucatini all’anciova) e alla frutta o il dolce, comprende: il caciocavallo all’argentiera, la bistecca panata arrosto, il lesso di vitello con relativo brodo, il falsomagro (u bruciuluni), le fritture di pesce, il rognone alla saracena, il baccalà con le olive. Nella cucina popolare abbonda altresì il pesce azzurro e a tunnina, le frattaglie di vitello cucinate in mille modi: a cura di viteddu, u masciddaru, a lingua, gli stinchi glassati di maiale, le cotenne al ragù o u bruciuluni di cutini. Le frutta, nella cucina popolare sono sempre di stagione, ma quello che non manca mai è il dolce, quasi sempre fatto in casa: u biancu manciari, i sfinci i prescia, u cucciddatu, i sfinci di risu, a pignulata, i mustazzoli, u tarallu, u panuzzu di San Martinu, a cassatedda, u cannolu.
Sia la cucina popolare che quella di strada hanno indotto a far consumare al palermitano razioni sostenute di vini bianchi corposi provenienti dall’interland, San Cipirello, Partinico, Camporeale. Nel tempo, gradatamente, sono entrati nei menù popolari anche i vini rossi.
La cucina dei monsù, si lega alla nobiltà siciliana settecentesca, un ristretto gruppo della vecchia aristocrazia. Questa cucina preparava i cibi secondo alcune regole dettate dalla grande cucina seicentesca di Francia. Gli aristocratici palermitani affidavano ad un cuoco francese, il monsù, voce contratta di monsieur, la preparazione delle vivande per i loro convivi. I sapori erano categoricamente francesi, ma spesso i monsù, per il quotidiano, preparavano cibi con sapori più isolani, quindi più decisi, con più olio d’oliva e meno burro, con salse di pomodoro ed intingoli dai sapori forti e piccanti. Le tavole erano guarnitissime di grandi alzate di frutta, di grandi piatti di portata ricolmi di caponata, vassoi con fumanti sformati, altri con le sarde a linguata o a beccafico, altri ancora con la parmigiana di melanzane o con le quaglie. Abbondavano lepri, conigli, capponi, sogliole e cernie. I monsù, servivano le infinite forme di marzapane colorato, la martorana; guarnivano con i canditi la cassata e finanche i cannoli e preparavano i sorbetti alla frutta, al limone, al cedro, all’amarena, alle more di gelso, per consentire ai nobili palati di poter gustare meglio le successive portate.
Nei palazzi della nobiltà palermitana si addestravano i giovani cuochi, fino a sostituire i monsù, che nel tempo furono popolani, elevati poi al rango di raffinati cuochi.
I vini sulle tavole dell’aristocrazia palermitana provenivano spesso dalle aziende di famiglia, bianchi e rossi, i guarnaccia (vernaccia), i moscati, il trupiano (trebbiano), il perricone, il marsala. Nelle cantine di palazzo era facile trovare la botticella del “perpetua”, un vino stravecchio, al quale veniva aggiunta, ogni anno, la quantità bevuta l’anno prima. In tutte e tre le cucine palermitane, parte integrante è stato ed è il pane. Dice un vecchio detto siciliano: ‘nta la casa can un c’è pani, c’è lu trivulu abbattutu (in una casa dove manca il pane non può esserci allegria). I pani palermitani non sono solo “buoni da mangiare” ma anche “buoni da comunicare”. Molte le forme e, talvolta, i nomi delle stesse, tutte ricoperte di semi di sesamo che gli conferiscono un aroma ed una fragranza non riscontrabile in altre regioni d’Italia, torcigliato, macallè, sfilatino, treccina, tipo, filone, signorina, mafalda, tricottu, toscanino, ciabatta, ‘nciminatu, toscano, pagnotta, semprefresco, rosetta, pizziato, sculture soffici e profumate, sortite da mani esperte che si tramandano l’arte da secoli.
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