domenica 9 ottobre 2011

VERSI... VERSI....VERSI...

VERSI...VERSI...VERSI...

Mario Scamardo

Per la poesia in vernacolo vi darò, di seguito, la traduzione in italiano, anche se perderà molto del suo fascino, un pò di vernice e molto patema, ma mi sembra giusto ed opportuno che, anche chi non è siciliano, possa comprendere l'amarezza di chi racconta con dolore i periodi bui della propria città, Palermo.
     Una città dai mille contrasti, con la forza dei suoi colori, col profumo delle sue zaghere, con la bellezza della sua statuaria, con la monumentalità dei suoi palazzi, con la limpidezza del suo mare, nè oriente, nè occidente. Una città talvolta piena di pregiudizi, odiose "lune d'argilla", che vivono di luce riflessa, come ogni falso ego che si erge a muro, per proteggere il palermitano dalle paure più assurde e dalle angosce più profonde che un illuminato indù definì "draghi di carta", illusioni.
     Forze oscure hanno tentato di renderla, nel tempo, muta, buia, tetra, l'antistato e, forse, la debole e incostante presenza dello Stato.



da Leonardo Sciascia - LA SICILIA COME METAFORA


      " Chi sbarca a Palermo viene subito aggredito da un'atmosfera di violenza.
Violenza di certe iscrizioni murali. Violenza di un cielo troppo azzurro quand'è
azzurro; troppo corrusco quando volge al temporale. Violenza soprattutto di
secoli di sole e di un'eternità di polvere. Violenza dello scirocco, vento rosso
venuto dallAfrica che stringe la testa in una morsa di fuoco mentre ricopre di
sabbia tetti, strade e automobili. ...
     Anche lo scirocco è una dimensione della Sicilia... In Sicilia ci si sente allo
estremo limite del mondo."




Scirocco



Vento si scirocco che solleva le sabbie del Sahara


Scuru

E' sempri sira, sempri scuru;
attornu nun c'è un filu di luci,
un voscu 'ncantatu è sta citati,
tutti muti... vucchi cusuti
e facci scuri siddiati.
Ppi luci nna lacrima,
ppi scrusciu nna vuci...
E' chiantu di matri
ca guarda stu munnu 'nfilici
e chianci sti figghi
ca nun trovanu paci...
Campa a lu scuru stu paisi
e vecchiu e stancu
strascina la so Cruci.



                                                          Traduzione



Buio

E' sempre notte, sempre buio;
attorno non c'è un filo di luce,
un bosco incantato è questa città,
tutti ammutoliti... bocche cucite
e volti tetri e tristi.
Per luce una lacrima,
per rumore una voce...
E' pianto di madre
che guarda questo mondo infelice
e piange questi figli
che non trovano pace...
Vive al buio questo paese
e vechhio e stanco
si porta dietro la sua Croce.


     Chi è più vittima del silenzio del popolo siciliano? Domanda strana la mia, ma pur sempre una domanda a cui necessita dare una risposta. Svestito dalla sua dignità, spogliato dalla sua unicità, allontanato dalla sua cultura, relegato al ruolo di vittima sacrificale, alimentato nella sua scelta di emarginato esaltato al ruolo di "vinto", dato in pasto ai falsi orgogli, zittito dalla sferza piemontese, umiliato da una classe politica incapace e alla ricerca dell'opulenza, pronta a schiacciare ogni capo che tenta di sollevarsi.
     Il popolo siciliano è "chiuso nel suo mutismo!


     Quale parametro può essere il tempo per un disoccupato a vita che vive di piccoli espedienti, circondato da miseria dilagante e da desolazione, in un paesino dell'entroterra siciliano, dove lo Stato stenta ad arrivare?





     ...e il tempo?...


Tic... tac... tic... tac...
le nuvole di cotone lente camminano
tra polveroni e fumo
e sembrano dondolarsi.

In una stradina angusta,
una capra rosicchia una pala
e mastica e rimastica
senza smettere mai.

L'ombra di un campanile
s'allunga a dismisura,
tutt'attorno solo fruscii
di olmi ed eucalipti...

Tic... tac... tic...tac...
in una vecchia fontana
l'acqua rugginosa cade a goccia a goccia
addosso al rospo più vecchio.

Una mignatta sinuosa e lenta
aspetta il muso di un mulo
e una vespa fa festa
sulla carcassa d'un sorcio.

Sul marciapiedi sterrato
russa un cane levriero
e due zecche grasse grasse,
come due usurai, gli succhiano il sangue.
Tic... tac... tic... tac...
Pietro Greco guarda fisso
il girare cadenzato dell'unica lancetta
di un orologio senza cifre,

- Pietro, che fai figlio?
- faccio il siciliano,
controllo se il tempo che passa
impiega sempre lo stesso tempo...

Tic... tac... tic... tac...

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L’ULTIMA COMMEDIA

L’ultima maschera calzata,
l’ultima battuta sul proscenio,
l’ultimo pubblico composto,
l’ultimo atto, l’ultima comparsa,
l’ultima chiusura del sipario,
l’ultimo applauso sfumato,
l’ultima luce che si spegne…
L’ultimo guitto,
l’ultimo fragore,
l’ultima quinta vista dal retro,
 l’ultimo chiodo in fondo al camerino,
l’ultima lacrima,
l’ultimo cerone che va via.
L’ultima sortita dal retro del teatro,
l’ultimo saluto del portiere,
l’ultimo lampione sulla via,
l’ultimo sguardo alla città di sera e
al grande palcoscenico, la strada…
Il grande teatro della vita
ti offre un altro ruolo,
puoi solo accettare,
sei l’interprete assoluto della senilità,
della vita che sfugge di mano,
del tempo che s’accorcia,
della giovinezza che non è più,
dello scorrere dei ricordi…
Tanti rimpianti,
ma rimorso alcuno…
Il copione ti è noto,
conosci la trama e non puoi scantonare,
sarà la tua ultima grande opera,
forse lunga assai o troppo breve!
Un’opera di mille atti o d’uno soltanto,
la tua commedia,
dove il sipario inclemente
si chiude una volta sola e tu lo sai,
e mai più si riapre
nemmeno per l’ultimo applauso.


La malinconia talvolta ti piglia per mano e ti conduce anche dove non vorresti andare, tra vecchi ricordi struggenti, quelli che ti hanno tolto il fiato, ed il più delle volte, ti hanno spento il sorriso


                                     Ma chi t’avia fattu?...

Si tu la me rabbia duci,
forsi, si sulu ‘nna duci rabbia,
forsi  m’illudu ancora…
fuvi  lu to jocu capricciusu…
Fusti jurici siveru
e…  m’appizzasti a un croccu![1]
Ccu cori duru mi fa piniari
e m’ammazzi adaciu adaciu.
‘Nta lu priatoriu, ca è già accupusu
 nun mi truvasti postu,
mancu n’agnuniddu piatusu.
Nun ci fù nné pirdunu nné fidi,
nuddu scuntu di pena,
mi sbattisti a lu ‘nfernu!...
e ancora m’addumannu,
ma chi t’avia fattu?...
T’avia sparagnatu un gran duluri,
chiddu d’uddiari lu to stessu sangu,
ca tanti voti ti fù tradituri
e ti tirau spissu ‘nta lu fangu…
 Vulennu iu la paci ppi forza,
mi carricavi tutta la visazza,[2]
la portu ancora e nun haiu cchiù vrazza,
l’haiu sigillata sta vuccuzza!
E’ megghiu uddiari a mia ca a to suruzza,
maestra di ‘mpirugghi e di ‘ntrallazza…
sulu ogni tantu m’acchiana la stizza,
nnuccenti, ppi tia sugnu la fezza,[3]
un catu[4] ammunsiddatu di munnizza,
un cantaru chinu di pisciazza,[5]
un fummiraru[6] chi ti duna puzza,
lu cagnuleddu di la peggiu razza.
Ma chi t’avia fattu?...
Nun viu cchiù suli e stiddi,
nun viu cchiù celu e luna,
nun cci su strati nnè camminamenti
cc’è sulu friddu e scuru
e tu, davanti a mia notti e jornu,
davanti a st’occhi sicchi,
chini di sali e di pruvulazzu,[7]
occhi di cani ‘mmistizzi[8]
scammusciuti comu li fanfazzi[9].
‘Nta sta negghia, nun lu capisciu
si sugnu ancora a chistu munnu…
viu lu mecciu ca già fumulia,[10]
l’ogghiu già finiu ‘nta la lanterna…[11]
cchi vali la me vita senza tia,
sulu nna sputazzata[12], o picca cchiù!

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[1]M’appizzasti a un croccu – Mi hai considerato come carne da macello.
[2] Visazza – Bisaccia, fardello, peso.
[3] Fezza – Feccia, sedimento di sostanze liquide, per antonomasia delle sostanze vinose – Rifiuto della società – La parte peggiore di chicchessia.
[4] Catu – Secchio.
[5] Un cantaru chinu di pisciazza – Un vaso da notte pieno di pipì.
[6] Fummiraru – Concimaia – Letamaio.
[7] Pruvulazzu – Polvere.
[8] ‘Mmistizzi – Cani bastardi, talvolta dall’aspetto triste e da commiserazione, in quanto trattati senza alcuna cura e dolcezza. Il termine ‘mmistizzu veniva usato, ma sempre in senso dispregiativo, per indicare i meticci o i figli naturali nati fuori del matrimonio. ‘Mmistinu è il termine che significa “venuto fuori dalla placenta” da ‘mmesta, placenta.
[9] Scammusciuti comu li fanfazzi – Ammosciati come le foglie esterne di un cespo di verdura che il contadino butta a terra prima di sistemarlo in cassetta.
[10] Viu lu mecciu ca già fumulia – Vedo lo stoppino che già fa fumo.
[11] L’ogghiu già finiu ‘nta la lanterna – L’olio è quasi finito nella lampada. – Nel linguaggio figurato: il percorso di vita è quasi al termine.
[12] Nna sputazzata – Uno sputo.


Noi cibernetici

Bisonti di latta
in sconfinate praterie
corrono abbattendo
alberi di plastica.
Corvi gracchianti
dai  becchi di cristallo
e ali di cartapesta
si posano su rovi
di filo spinato.
Cavalieri cimierati
cavalcano destrieri di legno.
Polverosi venti
muovono strani fiori
che hanno petali
di tappi a corona.
- dov’è l’erba?...
- è sintetica!...
Le case, enormi scatole di vetro
e non cade acqua dal cielo,
solo granelli di polietilene
e palline di polistirolo.
Fanciulle senza espressione
con enormi capi
e larghe ed alte fronti
spingono telecomandi
e non giocano,
non parlano tra loro,
non piangono e non sorridono…
sono figli della cibernetica,
non vivono emozioni!
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Miseria e nobiltà hanno convissuto in ogni tempo. Non si potrebbe definire l'una senza conoscere l'altra e viceversa. Recita un vecchio adagio siciliano: U pirocchiu avi a manciari 'nta testa (Il pidocchio deve mangiare sulla testa). I corsi e ricorsi storici hanno visto tanti ricchi diventare poveri e contestualmente tanti poveri diventare ricchi. Siamo stati nel passato un popolo di emigranti, siamo diventati una nazione di immigrati, le vicende storiche e politiche di questi giorni, fanno tirar fuori le vecchie valigie di cartone e, forse, chissà se fra un pò di tempo, ritorneremo ad essere una nazione ospitante.





Dalle Colline di Grombalia


Stazzi di sassi accatastati a secco,
isolate case di pietre e sterco,
l'unica fonte, a perdita d'occhio,
taniche rugginose accatastate
e tanti piedini guazzanti nella mota
a difendere un turno sotto il sole
e macchie gialle di sterpi spinosi
e asini rinsecchiti senza raglio.
Due sagome umane ritornano
e lente calpestano un vecchio tratturo,
non hanno sesso ma sembrano donne,
sulle loro spalle ricurve
gravano due otri gonfi d'acqua.
Non fumano i camini,
non scoppiettano i fuochi
ed i bimbi copiosi giocano
con i trastulli di sempre, i loro sassi.
Giù nella valle filari di viti,
campi arati e rigogliosi uliveti,
e laghi e corsi d'acqua e fontane.
Gli uomini corrono lesti,
le donne in gonnella 
si rispecchiano con vanità nelle vetrine;
sfrecciano automobili di lusso
su larghi viali asfaltati
e si avverte per strada 
l'odore di pane appena sfornato,
la fragranza dei fritti
e la vaniglia dei pasticcini;
gai i bimbi giocano
montando i loro robot.

Vi va?....lasciate un commento!












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