mercoledì 11 gennaio 2012

REMINISCENZE CULTURALI... I SALONI DA BARBA... TRADIZIONI, MUSICHE E NARRATI.













    

     Pezzi di cultura di ogni regione d'Italia, ogni giorno si dileguano in una nebbia sempre più fitta. Per fortuna, i volenterosi non mancano, c'è sempre qualcuno che si piglia la briga di conservare, facendo si che questo grande patrimonio non passi definitivamente all'oblio. Gaetano Pennino e Giuseppe Maurizio Piscopo si sono curati di raccogliere in un volume una quarantina di testimonianze ricordo attraverso le penne di scrittori siciliani. Non sapremo mai come ringraziare tutti per averci regalato le loro perle, per averle coordinate in un volume, scrigno che gelosamente le custodisce per offrirle ai posteri. Grazie!

    Tratto dal libro di cui sono coautore "Musica dai Saloni" suoni e memorie dei barbieri di Sicilia, con prologo di Andrea Camilleri, edito da Nuova Ipsa Editore.

     Il mio racconto è storia locale, di un paese dell'entroterra palermitano, quello in cui sono nato, quello in cui vivo, San Cipirello. I nomi di alcuni dei protagonisti sono di fantasia, siamo ai primi degli anni '50.


 
Il barbiere Mastru Pippinu Curamasi
di Mario Scamardo

Mastru Pippinu Curamasi, col sindaco, il farmacista e il parroco era ritenuto un'autorità a San Cipirello. Di professione mastru Pippinu era barbiere ma esercitava altri mille mestieri che lui chiamava "nobili professioni": attaccava le mignatte, tagliava su richiesta le code ai cani, cavava i denti, estirpava le unghie incarnite, faceva le punture a domicilio e, quando occorreva, faceva le medicazioni, castrava i gatti, suonava il banjo e la chitarra.
Panciuto come un'orcio, un occhio quasi spento, ai suoi clienti soleva ripetere con la munificenza di un cattedratico: "Per fortuna in questo paese c'è stu pezzu di peddi!", puntando l'indice della mano sinistra verso il suo petto, mentre con la destra roteava in aria forbici e pettine. "Senza il sottoscritto avrei voluto vedere!", poi ripigliava a sforbiciare aritmicamente attorno al capo dell'avventore e, una su venti, buttava giù una ciocca. Ogni tanto si fermava, guardava gli astanti seduti sulla lunga panca addossata alla parete di destra, tirava su gli enormi pantaloni sorretti da un paio di bretelle rosse, aggiustava il suo papillon a pois e iniziava a raccontare, romanzandolo, un episodio di storia romana, le guerre servili, quelle puniche, la conquista di Cartagine. Era così affascinato mastru Pippinu della storia di Roma che aveva chiamato la sua unica figlia Lavinia e sulla porta d'ingresso della sua bottega campeggiava una grande insegna realizzata in legno laccato bianco con la scritta in rosso carminio: "QUO VADIS" SALONE; la cosa più strana era che il cognato, a trenta metri dal suo salone, influenzato da tanto sapere di mastru Pippinu, aveva chiamato la sua impresa di pompe funebri "QUO VADIS ?".
     Il salone del signor Curamasi si trovava a piano terra di una strada che, pur non essendo quella principale, "a chiazza", era transitata da parecchi carretti trainati da muli, dalla corriera che portava a Palermo e da qualche vettura che negli anni '50, per la verità, era molto rara. All'interno, tre grandi specchiere erano attaccate al muro e avevano davanti tre poltrone in legno con il poggiatesta; sotto le specchiere tre lavabi in porcellana senza rubinetteria. L'acqua mastru Pippinu la prendeva da un catino con una vecchia caffettiera di zinco. Il servizio di fornitura dell'acqua non aveva raggiunto tutte le abitazioni, però le strade del paese erano tutte un cantiere per la posa della condotta principale. Ad aiutare il maestro c'eranu due aiutanti, "i giuvani". Giorgino, il più grande, circa vent'anni, che sapeva già usare le forbici, aveva appreso il taglio, ed era stato autorizzato dal vecchio Curamasi a lasciarsi crescere l'unghia del mignolo della mano destra che gli conferiva il titolo di "mastru"; ciò lo esentava dal liberare il pavimento dalle ciocche di capelli, dal passare la spazzola sulle spalle dei clienti e dallo svuotare la sputacchiera che era posta, entrando, nell'angolo di sinistra. Questi compiti erano affidati a Coconeddu, di appena quindici anni, allievo già da cinque, che sapeva fare le saponate, radeva qualche barba facile, qualche altra la faceva a domicilio e cambiava tutte le mattine, dopo aver prelevato il giornale dal tabaccaio, l'acqua alle mignatte tenute in bellavista tra le due specchiere centrali, dentro un grande barattolo di vetro. Diventava pallido Coconeddu quando, dopo un sermone aulico sulla pietà, il suo maestro lo mandava a radere un morto che i parenti stavano ancora vestendo con l'abito di "sciollaru" col quale era convolato a nozze.
     Quasi per rincuorare il ragazzo, dopo avere avvolto i ferri in un foglio di giornale della settimana precedente gli declamava dei versi:

Tutti i stessi l'epitaffi...
tomba ppi tomba,
balata ppi balata.

Cu passa si sufferma
leggi, poi va via
e passa all'avutra...

"Luminare della scienza..."
"Uomo rispettoso..."
"Donna e madre di grandi sentimenti..."

E' strana ppi davveru
la differenza ca cc'è
tra lu munnu barraccusu di li vivi
e chiddu tranquillissimu ddi morti.

Qual'è lu mistiriusu levitu 
chi tramuta lu marvagiu
in omu di virtù da mortu?...

U mortu nun pò cchiù nociri!...
e i vivi parturiscinu pietà...

Quando nel salone, intorno all'ora di pranzo non c'era gente, ai due "giuvani", dopo un frugalissimo pasto, era affidato il compito di rifare il filo ai rasoi passandoli sulle cinghie di cuoio o sul semibastone di ferla.
     Alla fine dell'affilatura, controllata minuziosamente, l'anziano maestro  staccava dalla parete il banjo e la chitarra e dopo una minuziosa accordatura, affidava quest'ultima a Giorgino e iniziava la sua performance da virtuoso che durava fino all'avvento del primo cliente serale.
     Il lunedì pomeriggio QUO VADIS SALONE si trasformava in una sala da concerto, arrivavano alla spicciolata altri due barbieri, mastro Giacomino che suonava il violino e mastro Sisino che suonava il mandolino, poi, un pò più tardi veniva da Camporeale, a dorso di mulo, mastro Antonio detto "u miricanu": suonava il contrabasso che aveva portato dall'America dove era stato per sei mesi a far visita alla sorella emigrata vent'anni prima. Quando l'orchestra era completa di tutti gli elementi, il vecchio Curamasi apriva la porta e si formava un capannello di gente ad ascoltare il concerto.
     Con l'avvicinarsi del Natale era consentito disporre, su un piccolo tavolinetto, un vassoio con sopra un cartoncino con la scritta "Buone Feste" e, solo dopo che il cliente aveva dato la mancia, mastru Pippinu tirava fuori da un cassettino una bustina trasparente che conteneva, munito di fiocchetto rosso o azzurro, un calendarietto tascabile che odorava di borotalco. Vi erano raffigurate le "bellezze al bagno", donnine in costume a dire il vero molto castigato; "tieni, rifatti l'occhio", diceva "i clienti affezionati meritano questo e altro". Poi, sull'uscio gli spruzzava addosso una colonia il cui odore accompagnava il cliente fino alla prossima festività.

     Una volta al mese, l'ultimo venerdì, mastru Pippinu ospitava il suo vecchio allievo ormai quarantenne, che si era trasferito in cerca di migliori fortune, certo Topolino (sarà stato un nomignolo o un nome d'arte) che veniva da Palermo, carico di un paio di valigette di legno contenenti l'attrezzatura da parrucchiere per signora. Il salone per quel giorno era impedito ai maschi. Topolino esponeva davanti l'uscio una tabella in compensato con la scritta: "TOPOLINO Coiffeur pour dame - permanente a freddo". Le signore entravano alla spicciolata e dopo un paio d'ore uscivano con i capelli arricciati come curatissimi barboncini.
    Il tempo, che sembrava non essere stato un parametro nel salone, scandì inesorabilmente le ore, i giorni, le settimane, gli anni, e il vecchio maestro, ultraottantenne varcò la soglia dell'impresa di pompe funebri del cognato, QUO VADIS?...
     Quando nell'America post colombiana moriva un capo indiano, era come se si fosse bruciata una grande biblioteca. La dipartita di Mastru Pippinu si portò via un pezzo di cultura del territorio, il paese intero perse un importante punto di riferimento ma, per i cinquant'anni successivi nessuno dimenticò il panciuto barbiere, le guerre servili raccontate alla sua maniera, l'eroico Muzio Scevola, gli Orazi e i Curiazi, lo splendore di Cartagine e i benefici ottenuti dai suoi salassi e dalle sue mignatte.
     Cadde la tabella sulla porta del salone, Giorgino e Coconeddu emigrarono, la strada venne asfaltata e passarono sempre più macchine e sempre più corriere. Oggi in quello stabile ristrutturato campeggia un'altra insegna, luninosa, BANCO DI SICILIA. Ma questa è un'altra storia!














2 commenti:

  1. Caro amico sconosciuto stai circumnavigando un mondo a me molto intimo. Con dolce nostalgia che veleggia sul futuro. Sono isolano anch'io. Di Castelbuono, per essere precisi. E ho affidato la mia prima peluria bionda alle mani di un barbiere dotato di rasoio, che a differenza di quello di Occam lasciava la mia pelle integra. Con qualche mia ansia e qualche immancabile goccia di sangue. Poi sono emigrato al nord, ad Arenzano, vicino a Genova, e al momento giusto ho lasciato che la barba liberamente disegnasse il mio viso. Ora è bianca. Ciao.Guarnieri Angelo

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  2. Magnifica questa bella storia di un tempo che fu.
    Grazie caro Mario.

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